Quando le uova si credono più furbe della gallina

Nel 1960 il Mossad aveva fortunosamente ritrovato le tracce di Adolf Eichmann, lo aveva catturato ed in modo clandestino trasportato ed imprigionato in Israele, dove fu processato e condannato a morte. Quando diventa oggettivamente difficile, coinvolgente e doloroso trattare certi argomenti è più semplice passare a "meglio ad un uovo oggi che una gallina domani". Inaccettabile ed anche patologico per Hannah Arendt.

 

Processo Heichmann  Eichmann, come altri nazisti (Mengele, il "dottor morte"), nel giugno 1948 ottenne documenti di identità falsi dal vicario di Bressanone, Alois PompaninRilasciati dal Comune sudtirolese di Termeno, che attestavano la sua nascita, col nome di Riccardo Klement. È stato poi molto più tardi ritrovato, tra i documenti coperti dal segreto di stato in Argentina, il passaporto falso con il quale Eichmann aveva lasciato l'Italia nel 1950: era intestato a Riccardo Klement, altoatesino, e rilasciato dalla Croce Rossa di Ginevra. 

C'è un proverbio yiddish, "le uova si credono più furbe della gallina". Mai da sostituire alla più semplicistica giustificazione  "meglio un uovo oggi che una gallina domani". Ne è  classico esempio il processo a Adolf Eichmann, il più grande e complesso evento mediatico, che interferirà, tra la la fine degli anni 50 e prosegue ancora oggi a distanza di 70 anni, nei rapporti tra le diverse culture occidentali della diaspora ebrea e la legittimazione dello stato d'Israele.

Nel settore dell'aula dei sopravvissuti,  era seduta Hannah Arendt  inviata dal The New Yorker, invece che nella sezione riservata ai vip e ai giornalisti.
La sala, scrisse Arendt, “era piena di sopravvissuti , persone di mezza età e anziani immigrati dall’Europa, come me, che sapevano a memoria tutto ciò che c’era da sapere e che non erano dell’umore giusto per imparare lezioni e certamente non avevano bisogno di questo processo per trarre le proprie conclusioni. ”.
Pochi anni dopo usciva il suo libro “Eichmann a Gerusalemme: un rapporto sulla banalità del male”. Nel libro espone critiche sulle modalità con cui Israele condusse il processo Eichmann e il modo in cui l’imputato venne ritratto.
 

Adolf Eichmann 1942 coverInvece del mostro omicida e antisemita che l’accusa cercava di dipingere, Arendt vide in Eichmann qualcosa di molto diverso: un nuovo tipo di assassino di massa, senza motivi malevoli e  necessariamente letali, una persona che non valutò mai il significato delle sue azioni o  che se ne assunse la responsabilità. Attribuiva ad Eichmann quello che lei definiva “spensieratezza”, l’incapacità di pensare dal punto di vista dell’altro.

 
Il suo libro scatenò immediatamente aspre polemiche. Arendt fu denunciata, anche da alcuni dei suoi più cari amici, come anti-sionista e indicata come esempio diebrea che si auto-odia”. Fu accusata di essere favorevolmente disposta verso Eichmann e di assolverlo dalla colpa e dalla responsabilità dei suoi crimini. 
 
Bisogna ricordare che Hannah Arendt nel 1951 aveva pubblicato Le origini del totalitarismo. Opera storico-politica tra le più importanti del Novecento, scritta subito dopo il secondo conflitto mondiale ed in piena guerra fredda. Ella voleva in primo luogo narrare e comprendere gli avvenimenti con cui si era dovuta confrontare la sua generazione.
Il suo sguardo era rivolto ai crimini nazisti e allo sterminio degli ebrei, allo stalinismo e alle persecuzioni degli oppositori politici. Nella prefazione di una sucessiva edizione del 1966 dichiara come il punto di partenza del suo lavoro fosse cercare di articolare una risposta (o meglio offrire degli spunti di riflessione) alle domande: “Che cosa succedeva? Perché succedeva? Come era potuto succedere?”
Fu un'opera monumentale (oltre 700 pagine) dove sono affrontati sostanzialmente due tesi:
- il concetto di stato totalitario è una novità senza precedenti nella storia, compiuto unicamente nella Germania nazista di Hitler e nell’Unione Sovietica di Stalin.
- nonostante le diverse impostazioni ideologiche, dietro i due sistemi c’erano dei punti di contatto che li rendevano assimilabili: stessi scopi e stessa idea totalitaria.
 
E dunque l'Italia Fascista non rientra nella categoria di Stato Totalitario
Ancora oggi è complicato trovare un accordo su quali, tra le diverse esperienze storiche e politiche, possano essere annoverate sotto la comune categoria di “totalitarismo”.
Per la Arendt, soltanto il nazionalsocialismo ed il comunismo si avvarrebbero di questa ‘qualifica’, essendo le uniche due realtà che più si avvicinano all’ideal-tipo di regime totalitario, mentre il fascismo italiano corrisponderebbe soltanto ad una forma di autoritarismo.
“Finora conosciamo soltanto due autentiche forme di dominio totalitario” – afferma ad un certo punto − differenziandosi e prendendo le distanze dalla storiografia contemporanea. In particolare, la Arendt è citata nel dibattito storiografico quando si tratta di escludere il fascismo italiano dalla categoria di totalitarismo.

Peculiarità dei regimi totalitari è il consenso di massa, reso possibile della dissoluzione delle classi sociali e dall’avvento della società di massa, dall’uso sistematico del terrore e dal controllo capillare della società, dal rapporto tra il capo carismatico e le masse, dall’assenza totale di libertà e distruzione della sfera privata, oltre che di quella pubblica.

Molti dubbi invece esistono sull’Italia fascista, dal momento che il regime non eliminò i centri tradizionali del potere (coesistette di fatto con la Chiesa, la monarchia, l’esercito, la grande industria). La Chiesa, ad esempio, “capì che il fascismo non era in linea di principio né totalitario né anticristiano e semplicemente attuava la separazione di stato e chiesa già esistente in altri paesi”, e la Arendt prosegue, affermando che:

«La differenza tra il fascismo e i movimenti totalitari è bene illustrata dall’atteggiamento verso l’esercito, cioè verso l’istituzione nazionale per eccellenza. Al contrario dei nazisti e dei bolscevichi, che distrussero lo spirito delle forze armate subordinandole a formazioni totalitarie di élite o a commissari politici, i fascisti poterono usare uno strumento intensamente nazionalistico come l’esercito, con cui cercarono di identificarsi come con lo stato».

Mancò inoltre in Italia un’ideologia coerente e rimase sempre viva una certa cultura liberale dello stato (si pensi ad esempio alla libertà di pensiero accordata a Benedetto Croce). L’accostamento tra nazismo e comunismo, opposti sotto il versante ideologico, sociologico, economico, ha indotto a rigettare la nozione di totalitarismo come fuorviante.

Resta il fatto che le affinità nella gestione del potere permangono, così com’è stata comune la credenza in uno stadio finale della storia di cui Hitler o Stalin sarebbero stati incaricati di accelerarne il corso.

Ecco cosa scrive a proposito del caso italiano. «Eppure Mussolini, che tanto amava il termine “stato totalitario”, non tentò di instaurare un regime totalitario in piena regola, accontentandosi della dittatura del partito unico». Dal momento che:
«Il vero obiettivo del fascismo era solo quello di impadronirsi del potere e insediare la sua “élite” come incontrastata dominatrice del paese. Il totalitarismo non si accontenta mai di dominare con mezzi esterni, cioè tramite lo stato e un apparato di violenza […]».

Il fascismo italiano si iscriverebbe nella categoria dei “sistemi a partito unico”, nei quali tutte le cariche di governo sono occupate dai membri del partito, ma dove quest’ultimo, a sua volta, è ridotto alla condizione di “una sorta di organismo di propaganda a favore del governo”.

Questo sistema è “totale”: «solo in senso negativo, in quanto il partito dominante non tollera altri partiti, né l’opposizione o la libertà di opinione politica. Una volta instaurata la loro dittatura, lasciano intatto l’originario rapporto di potere fra stato e partito; il governo e l’esercito possiedono la stessa autorità di prima, e la “rivoluzione” consiste semplicemente nel fatto che tutte le cariche pubbliche sono ora occupate da membri del partito. In tutti questi casi il partito basa la sua autorità su un monopolio garantito dallo stato, e non possiede più un proprio centro di potere»

La Arendt  non considera quindi il fascismo italiano un movimento totalitario, e non solo per l’uso assai minore della violenza terroristica, quanto piuttosto per la sua natura di movimento di massa organizzato nell’ambito dello stato esistente.
«Quando il partito fascista […] si impadronì dello stato e si identificò con la massima autorità nazionale, si apprestò a fare del “popolo una parte dello stato”. Ma non si pose “al di sopra dello stato”, né i suoi capi si ritennero al di sopra della nazione. Il movimento aveva avuto fine con la conquista del potere, almeno per quanto concerneva la politica interna; esso poteva procedere nella sua marcia soltanto nel campo della politica estera […]».

Nel caso del fascismo inoltre ‘colpiva’ l’assoluta mancanza di “materiale umano” da impiegare in esperimenti totalitari. È stato segnalato – a torto, ad avviso della Arendt – che, in Italia, numerosi furono gli ebrei che aderirono al regime nelle sue prime fasi di manifestazione:

“poco appropriato è anche l’accenno all’adesione degli ebrei italiani al fascismo, perché questo movimento non si proponeva di soggiogare e distruggere l’Europa”.

Il fascismo potrebbe accostarsi al totalitarismo, come tutti i collaborazionismi, soltanto a  partire dal 1938-40, al momento di diventare alleato subordinato del regime nazista ed in seguito all’attuazione di una sua politica razzista e antisemita. Il fascismo infatti, fino al 1938, “non fu un vero regime totalitario, bensì una comune dittatura nazionalistica, nata dalle difficoltà di una democrazia multipartitica”. L’unica “rivoluzione” compiuta dal fascismo si limiterebbe dunque all’accesso alle cariche di governo dei membri del “partito”, mentre lo “Stato” manterrebbe la sua posizione preminente e permarrebbe il centro del potere effettivo. L’esistenza di un partito unico non sarebbe pertanto all’origine di nessuna trasformazione strutturale maggiore in seno all’apparato politico, a differenza dei regimi totalitari in cui lo Stato non è che una facciata e nel quale è all’interno del movimento totalitario che tutte le decisioni importanti sono prese.

È stato obiettato che all’epoca della pubblicazione de Le Origini del Totalitarismo, la Arendt non disponesse che di fonti di informazioni troppo ristrette sull’Italia di Mussolini per fornirne un’analisi pertinente. Si tratta di una critica giustificata ma in realtà secondaria, poiché la qualifica del fascismo non saprebbe ridursi ad un problema di disponibilità di fonti.

È in realtà sempre dipendente di una teoria dei sistemi politici, dunque all’occorrenza di una teoria dei regimi dittatoriali. È questa la ragione per la quale, in seno ad una teoria come quella della Arendt, il fascismo italiano non sarà mai un totalitarismo. E questo a dispetto della qualità delle fonti e dei lavori disponibili sulla questione.

Per un motivo molto semplice: il fenomeno totalitario corrisponderebbe, a suo avviso, ad “una forma di governo di cui l’essenza è il terrore”. Ed il fascismo non soltanto non governò mai facendo esplicito ricorso al terrore di massa, ma sarà nettamente meno terrorista di numerosi regimi autoritari, come ad esempio le dittature burocratiche-militari dell’America Latina (Uruguay, Cile).

Il dibattito storiografico sul fascismo è,  più che un problema di fonti, una questione di definizioni e di modelli concettuali. Ed Hannah Arendt, in perfetta coerenza con la tesi da lei sostenuta nel suo saggio, definisce come totalitari soltanto due sequenze storiche, brevi e ben localizzate: i dodici anni del regime nazionalsocialista in Germania e due parentesi nella storia del regime sovietico (1929-1941 e 1945-1953), con il rischio che tutti gli altri sistemi dittatoriali vengano relegati nella vasta categoria di regimi autoritari, ed occultando di conseguenza quanto il peso dell’ideologia, il tipo di legittimità, la struttura, l’organizzazione e la pratica del potere così come il livello di mobilitazione e di inquadramento della vita civile possano essere diversi da una società all’altra.

La Banalità' del male

Interrogato nel corso del processo, l’ex gerarca Eichmann afferma di aver esclusivamente eseguito degli ordini ricevuti, come se questo bastasse per scagionarlo.

La motivazione che Hannah Arendt dà rispetto a questa mancata assunzione di responsabilità e di comprensione della gravità del fenomeno è che i crimini nazisti non sono stati dovuti tanto alla crudeltà dei loro carnefici, ma al fatto che i protagonisti delle atrocità verso gli ebrei si fossero in qualche modo “privati” di pensiero, pienamente inseriti all’interno del meccanismo nazista.

I nazisti,  non sarebbero affatto incarnazioni degli aspetti più spregevoli dell’animo umano, ma banali individui inseriti all’interno di un meccanismo infernale. Il che comporta una pericolosa considerazione: chiunque, inserito nello stesso meccanismo, potrebbe agire nello stesso modo. La comunità ebraica considerò molto negativamente lo scritto della Arendt, imputandole la responsabilità dell’assoluzione di Eichmann e una riduzione della responsabilità dei nazisti: nel saggio della Arendt infatti manca del tutto la dicotomia nazisti=demoni/ebrei=angeli presente fino a quel momento nell’immaginario collettivo postbellico.

Olivia Guaraldo prof. Associato offre per la Società filosofica italiana Bergamo una lunga ma piacevole dissertazione sulla Arendt.


Il 27 gennaio del 2014, in occasione della Giornata della Memoria, è proposto nelle sale cinematografiche italiane il film biografico su Hannah Arendt della regista tedesca Margarethe Von Trotta, che ha permesso di osservare una delle più grandi pensatrici del ‘900 sotto più punti di vista, che spaziano da un ambito più intimo e personale, riguardante la ricostruzione di quella che sarebbe potuta essere la personalità di questa donna, all’ambito puramente professionale.

Qui sotto è proposta l'intervista ad Hannah Arendt "Zur Person". In tedesco sottoltitolata in inglese.

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Mai riuscito a rispondere compiutamente alle uniche importanti domande della vita: “quanto costa?”, “quanto ci guadagno?”. Quindi “so e non so perché lo faccio …” ma lo devo fare perché sono curioso. Assecondami.

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