Viva la morte
La società contemporanea non ha rapporti con la morte, a parte occultarla accuratamente. Tre fatti distinti e slegati mi hanno fatto riflettere recentemente sulla morte. Non sulla “fine di tutto” in sé, quanto piuttosto sul rapporto che ne abbiamo.
Ho visto una puntata di Chef’s Table su Cecchini, il macellaio più famoso d’Italia, almeno per quanto riguarda le sue fiorentine. Spiegava che in gioventù avrebbe voluto fare il veterinario perché lui gli animali voleva salvarli. Poi la vita, come al solito, è andata per il verso che voleva e si è ritrovato nella macelleria di famiglia per proseguire la secolare tradizione. Diceva che a un certo punto era giunto a questa constatazione: che era vero che lui gli animali li uccideva e macellava, ma che il macellarli era un modo per dimostrare rispetto alla loro morte celebrandone la vita. Quegli animali avevano vissuto per finire macellati e il trattarli con rispetto in morte, senza buttarne via niente, era un modo per dare un senso alla loro vita.
Contemporaneamente ho scoperto il senso delle festa giapponese delle lanterne, od “Obon”: è una ricorrenza molto sentita dai giapponesi che si svolge ogni anno dal 13 al 16 agosto. In quei giorni si celebrano i defunti e le proprie origini e molti fanno ritorno al paese natale. Ci si ricongiunge con i defunti fino all’ultimo giorno quando le lanterne illuminate da una candela vengono liberate nei corsi d’acqua per segnare ai propri morti la via per ritornare nell’aldilà.
Un terzo evento mi ha fatto riflettere sul rapporto con la morte: il carnevale. In pochi altri frangenti — forse in nessuno — come in questo la vita e la morte convivono senza essere in opposizione. Attraverso le maschere e la sua presenza sotto forma di teschi, scheletri o signore nerovestite, la vita concede lo spazio che merita alla morte, l’antagonista che ne definisce la natura. Entrambe non potrebbero essere senza l’altra, entrambe si definiscono come negativo dell’altra. Ma durante il carnevale questo rapporto è esplicito e accettato. Forse perché la morte è neutralizzata dal suo essere “vitale” per un numero limitato di giorni, forse perché viene esorcizzata, fatto sta che in pochissimi o forse in nessun altro momento della vita si sopporta una vicinanza così palese con la morte. Letteralmente, in quei momenti è fra di noi, palesemente, senza chiamarla in altro modo se non con il suo nome: la morte.
Quali sono gli altri momenti in cui non dico pensiamo alla morte, ma nei quali la vediamo al nostro fianco e le parliamo? Pochissimi. Nei cimiteri o negli ospedali, non in molti altri. In luoghi in cui il tempo scorre diversamente rispetto a quello scandito dalle lancette: forse viene inghiottito da altre dimensioni, forse certi luoghi fisici sono davvero capaci di curvarlo diversamente, accelerandolo o decelerandolo. O sospendendolo.
Noi contemporanei abbiamo deciso di non avere un rapporto con la morte, molto semplicemente. Almeno per gran parte del nostro tempo e forse grazie — o a involontaria causa — dei progressi della scienza, abbiamo imparato ad addomesticarla e a limitarne la visibilità a quando è inevitabile. Quando la vita arriva alla fine tocca parlare di lei. Tocca vedersela di fronte e scambiarci qualche chiacchiera. Se si è ancora vivi bisogna almeno guardarla e pensare che il nostro appuntamento con lei è solo rimandato.
Ma non è della tristezza della morte che volevo parlare. Lo è, triste, non bisogna ribadirlo.
La riflessione sulla morte mi ha fatto invece ricordare quello che penso quando sono in un cimitero: sono solo con me stesso. Non trovo altri modi per definire questa condizione. Nella vita si è sempre parte di qualcosa, anche quando si è isolati (si è isolati infatti perché lo si è in rapporto alla comunità, non in senso assoluto). Di fronte alla morte si è di fronte a qualcosa di ancora più angosciante della morte stessa: si è di fronte a noi stessi, come singoli individui. Senza alcuna giustificazione da addurre, senza spiegazioni da dare. Il tempo ha corso frenetico fino a quel momento e ora, improvvisamente, ha frenato. Non sarà — mi chiedevo — che in punto di morte vediamo noi stessi riflessi o ci vediamo davvero per la prima volta per quello che siamo? Non sarà forse questa la visione più angosciante che si possa avere? Tutto quello su cui si è investito, tutte le passioni, tutti i rapporti personali, tutto ciò che ci ha costruito e resi noi stessi giunge a una soluzione: ne sarà valsa la pena? Avrò speso bene il mio tempo.
Credo che il non voler aver rapporti con la morte stia un po’ tutto in questo angusto spazio in cui releghiamo la nostra incapacità — o la mia, quantomeno — di farci questa semplice ed esistenziale domanda: sto andando verso me stesso? Sto diventando quello che dovrei essere? Mi conosco davvero? E se nell’attimo fatale scoprissi di avere sbagliato tutto?
Questo rimuoviamo. Non è solo una questione estetica. Non è solo la partecipazione e il dolore per un affetto che svanisce.
Nella morte celebrata a Carnevale. Nelle lanterne che fluttuano sul fiume. Nel sacrificio di un animale sta il rispetto per questa domanda fondamentale che ogni giorno mettiamo a tacere: che senso ha tutto ciò? Gli sto dando un senso? Rispondere è tremendo.
Forse lo facciamo in continuazione, correggendo la rotta, cambiando idea. Forse cerchiamo solo di non pensare a quell’ultimo momento in cui le uniche risposte saranno un sì o un no.