Quel furbacchione del cavalier Felix Krull amato e da allora moltissimo imitato
Il Berliner Ensemble di Bertolt Brecht ha aperto la stagione teatrale. 2019-20 con "Felix Krull, l'ora degli imbroglioni" tratto dal romanzo di Thomas Mann. E' una piéce che in chiave grottesca critica l'inconsistenza morale e il nichilismo della società contemporanea. Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa riflessione sullo spettacolo delBerliner Ensemble di Fernanda Mancini.
Felix Krull © JR-Berliner-Ensemble
E alla fine compare la vasca da bagno, il crogiolo dello spirito del mondo da cui esce uno splendente Hermes dorato come “Sol invictus”, il sole vincitore che si erge sui protagonisti della vicenda, stretti a lui poco più in basso nella tinozza dello “Spirito del mondo”.
Così termina la pièce di Alexander Eisenach “Felix Krull – Stunde der Hochstapler“ (Felix Krull. L’ora degli imbroglioni), che il regista ha liberamente tratto dal romanzo di Thomas Mann, “Bekenntnisse des Hochstaplers Felix Krull” (Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull). Mann iniziò il lavoro nel 1910 e lo riprese ad intervalli fino a poco prima della morte, dopo il suo ultimo romanzo “l’Eletto”, storia allegorica di papa Gregorio, ispirata al racconto leggendario del 12° secolo di Hartmann von Aue e tesa tra le polarità dell’inconscio e dell’alchimia.
La pièce è stata presentata in prima assoluta a Berlino il 16 agosto, ad apertura della nuova stagione del Berliner Ensemble. Un lancio a sorpresa per un teatro classico nel suo repertorio utopico critico politico, quale quello del teatro di Bertolt Brecht, e che infatti ha fatto molto parlare di sé ed ha raccolto molte critiche e molte insoddisfazioni.
Per Alexander Eisenach Felix Krull è un personaggio ermetico, e la storia che si dipana sul palcoscenico snocciola, come in un rosario, citazioni, evidenti o sottese, ai grandi del pensiero tedesco, da Goethe a Schopenhauer a Nietzsche e a Hegel, uno che ha fatto dello spirito del mondo il baricentro della propria filosofia. Ed ecco un’altra ragione per la quale la sorpresa si tramuta in scandalo, queste citazioni non sono colte decorazioni, Felix Krull è un lavoro filosofico.
Il Felix Krull di Thomas Mann è opera ironica, quella di Eisenach grottesca, il libro di Thomas Mann non ha un finale, nella pièce invece il finale c’è. Come parte della letteratura su Thomas Mann scrive, almeno a far data dal saggio della Yourcenar degli anni ‘50, nel romanzo Felix Krull è personaggio ermetico, non da meno lo è nella riduzione teatrale di Eisenach. In entrambi i casi infatti vengono chiamati imbroglioni, e imbroglione è l’appellativo del briccone divino, lo psicopompo Mercurio, il dio guardiano delle soglie e dei passaggi, dunque delle trasformazioni e trasmutazioni. Scriveva Thomas Mann in una lettera a Kereny: «Hermes, è la mia divinità preferita», e aveva ben presente quanto ne aveva scritto W. F. Otto: «Hermes mostra alcune qualità arcaiche… ricordi arcaici e magici sono per esempio le ali ai piedi e il mantello infernale che lo rende invisibile».
Nella pièce Felix Krull guarda con ironia consapevole e critica le sue vittime, prima di abbandonarle lasciandole cuocere nel loro proprio brodo. Felix Krull, indicato nel titolo come l’imbroglione, in realtà è il “Sol invictus”, vincitore perché finalmente il meccanismo da lui stesso messo in moto, da bravo briccone, produce il risultato a cui voleva arrivare, la trasformazione del mondo, e per lì giungere c’è assolutamente bisogno della distruzione di ciò che è, “L’opera al nero” della Yourcenar. Felix Krull è infatti il briccone, ma divino, così lo ha pensato Thomas Mann, dunque i suoi scherzi le sue trasformazioni sono non casuali e il gioco è divino, mira a condurre ad un fine preciso.
Le molteplici relazioni di seduzione, che imbastisce con uomini e donne, sono basate sull’inganno, di cui è consapevole, come ci fa capire la elegante mimica scenica di Marc Oliver Schulze, conducono nel nulla, si disfano consumate dal “Volere” dei personaggi, la distruttiva sete di potere che li trascina alla distruzione e all’autodistruzione, e che Krull ha semplicemente messo in movimento. Spesso Felix Krull è stato interpretato come un essere incapace di concludere qualcosa, di inserirsi e condurre una decente vita borghese, ma a me sembra che qui sia un deus ex machina, che abbia l’argento vivo addosso, che sia il mercurio vitale, guardiano delle soglie e psicopompo della trasformazione dell’umanità a miglior vivere.
Il mercuriale “Sol invictus”, uscendo grottescamente vittorioso sul popolo, che ha spinto ad una nuova coscienza di sé e condotto sulla strada della salvezza, annuncia che la trasformazione del mondo è avvenuta sotto l’egida di Amore, questo il segreto che egli annuncia e che smentisce il nichilismo imperante, che trasforma la vuota apparenza, il nulla dei personaggi e dei loro falliti desideri, in apparire della verità nei suoi molti volti. La forza di Amore di trasformare, per la verità non nuovo, sebbene forse oggigiorno opportunamente ribadito, è suggerito in un sussurro, poco prima della fine della pièce, da una scienziata in camice bianco (un’umanista, un medico, una ricercatrice biologica in veste d’alchimista, forse?). Ecco cos’è Amore, l’ingrediente che trasforma l’animale, preda dell’istintuale volontà di potenza, in uomo, il nichilismo imperante in vita positiva e speranza.
Esso toglie anche il potere che ha sul mondo la Volontà schopenhaueriana e lo restituisce agli uomini, ad ogni uomo che si tenga lontano dall’affermazione del suo volere su quello degli altri, in una lotta all’ultimo sangue del voler di ciascuno contro quello di ciascun altro. Nietzsche e Schopenhauer sono i riferimenti consapevolmente citati, nel corso di questa messa in scena, evocati in quanto il loro pensiero informa la coscienza della nostra società, che con esso interpreta se stessa e, si dice in scena, la realtà della società di massa e di queste nostre problematiche democrazie, basate sul fondamento del nulla, e dell’uomo, ormai solo individuo, singolo, completamente separato dalle sue radici e dalla comunità, preda delle sue nevrosi.
Nevrosi di uno e di tutti, e questa generalizzazione non basta a creare legame sociale e neppure quello con se stessi, e così vediamo sul palcoscenico che ogni personaggio vive seguendo il proprio Wille, la propria volontà di potenza, di supremazia sugli altri, vicini e lontani, in una follia di perversione alla fin fine e innanzitutto autodistruttiva. Secondo il regista, che interpreta o reinterpreta Thomas Mann, alla base di questo homo nevroticus e della filosofia da cui nasce, c’è il nichilismo assoluto, l’idea dell’essere come ciò che c’è e poi non c’è più, che nasce e muore, preda al più di un’indifferenza cosmica che non lo salva dal precipizio verso cui lui e la sua-nostra società è avviata.
Ma questa indifferenza cosmica si rivela, nella messa in scena, un errore di valutazione, uno stare a guardare le cose ponendosi da un punto di vista sbagliato, perché e come sia ciò possibile non è argomento di questo lavoro, ma forse, ci auguriamo, del prossimo, che il regista sta scrivendo per il debutto, già annunciato per dicembre. Chissà se il regista conosce il nostro filosofo nazionale, Emanuele Severino, che da cinquant’anni predica e argomenta, che è sbagliato considerare così l’essere, l’uomo e tutte le cose del mondo, perché tutto invece È, ma per capirlo, sostiene Severino, occorre innanzitutto cambiare il modo di vedere, cambiare la consapevolezza che l’uomo ha di se stesso, forse ponendosi di fronte ad uno specchio diverso, o azzerando con coraggio le vecchie consapevolezze autodistruttive e avere il coraggio di sottoporsi ad un esperimento in laboratorio, o di lasciarsi andare nella pignatta del Weltgeist (lo Spirito del mondo) per uscirne vittoriosamente altro. Come dice il regista e non Severino.
Perché molto si parla di apparenza in questo lavoro teatrale, i personaggi ne parlano in molti modi (c’è chi vuole apparire come non è, c’è il gioco di specchi dell’inganno di come ci vedono gli altri, l’apparenza esaltata di un novello Faust, quella evocata parlando di Wagner, l’inconsistenza di non essere davvero qualcosa, l’apparenza di dama di una sciagurata e infelice sadomaso, ecc.), e alla fine si capisce che il concetto di “apparenza”, di maschera, che è per il regista di importanza centrale, nello sviluppo teatrale trasforma il suo significato (custodito già nella etimologia della parola). Alla fine non è più il vuoto il niente, ma il darsi allo sguardo della verità, proprio attraverso quello che ci era sembrata una vuota maschera. Così allora lo spettatore capisce che l’apparenza non è bugia, come l’aveva erroneamente (sempre ancora un altro errore, o ancora un tiro burlone del divino imbroglione?) pensata.
L’altro riferimento importante è Goethe, citato poco, ma che importa se ci si ricorda che non differentemente finisce il suo Faust II, cioè con il trionfo di Amore. Certo Faust sale in cielo, e i personaggi del “Felix Krull” rimangono in terra, ma per entrambi la trasformazione c’è ed è opera di Amore. Spesso, inoltre, anche Mefistofele è stato considerato uno jellato deus ex machina, in realtà travolto dall’impetuoso Faust posseduto dal demone dell’instabilità e dell’avventura, che brucia la vita scendendo nelle profondità delle esperienze, alla ricerca della verità oltre l’apparenza, altro elemento comune con questa opera teatrale. Spesso l’inganno, lo scherzo passa attraverso una certa qualità erotica dell’attrazione esercitata da Felix, ciascun personaggio la imbastisce e consuma a modo suo, per ritrovarsi alla fine sconfitto dal suo stesso operare, dal suo modo di averla voluta, concepita, quando alla fine la parola magica il “qualcosa che fa la differenza” si svela essere l’Amore. Allora si apre una prospettiva nuova, e su di essa il regista chiude lo spettacolo invitandoci a riflettere. O forse tutta questa storia è l’ennesimo tiro burlone di quell’impostore grottesco e spietato di Felix Krull?