A Berlino si scatena il gran ballo degli Inquieti
Dal palco della Komische Oper di Berlino, il coreografo e ballerino Jefta van Dinther (nella foto) con la pièce Plateau Effect cerca di disorientare e sfidare lo spettatore con una stratificazione di coreografie, luci, suoni e scenografie dove la cruda "coreografia della materia" si trasforma in uno spazio psichedelico di eccezione che mette alla prova la capacità di trasgredire di una umanità incapace, condannata a perdere.
Plateau effect, alias potenziale d’azione, l’effetto per cui l’energia di un corpo aumenta in modo rapido per poi precipitare seguendo un andamento coerente: questo il titolo che Jefta van Dinther ha dato all’acclamata pièce creata nel 2013, attualmente tornata a calcare il palcoscenico della Komische Oper di Berlino in una serie di nove serate affidate al corpo di ballo dello Staatsballet Berlin.
Le opere del coreografo e ballerino olandese-svedese che lavora tra Berlino e Stoccolma sono celebri per l’analitica messa in scena dell’indagine sul movimento e per l’interazione tra danzatori ed elementi sonori, luminosi e materiali che diventano personaggi veri e propri. Plateau Effect ha vinto il premio della critica in Svezia nel 2013 ed è stato presentato alla Biennale d’Arte svedese del 2015.
Tra le più recenti opere di van Dinther ricordiamo GRIND, vincitore tra l’altro di un premio per gli effetti luminosi, Dark Field Analysis, Protagonist e As It Empties Out. Jefta van Dinther è attualmente docente e direttore artistico del programma di master in coreografia della DOCH, Università per la danza ed il circo di Stoccolma.
I riflettori si accendono su una fila ordinata di performers rivolti verso il pubblico, le spalle contro il muro bianco di un sipario chiaro posto sul proscenio. Lentamente parte la musica, un canto nudo senza accompagnamento, una voce non propriamente maschile, non propriamente femminile, vagamente letargica.
La danzatrice al centro del palcoscenico muove la bocca in playback con gesti manierati. Il canto dura a lungo, ci sono molte pause, le pose dei corpi sono statiche e affermative. Le parole sono incomprensibili, l’azione comunicativa prende il sopravvento sul messaggio, il significante sul significato. Lentamente si sviluppa il confronto tra i performers e il sipario alle loro spalle, confronto con la materia, con ciò che non è umano.
L’interazione tra il gruppo e l’enorme pezzo di stoffa costituirà la struttura drammatica dell’intero pezzo. Il tessuto sarà un elemento di confronto continuo, un nemico da affrontare, un compagno da accettare, un organismo da comprendere, un’entità da controllare, una forza alla quale soccombere.
La prima forma di movimento dei danzatori è il sussulto dei loro petti al ritmo del canto, una scossa forte all’altezza del plesso solare, un’ubicazione di memoria duncaniana. Il gesto si manifesta da subito come una reazione ad un impulso subito dall’esterno e non come frutto del libero arbitrio.
Quando i performers iniziano a muoversi più intensamente il velo alle loro spalle sembra volerli inghiottire e infine vi riesce. La forza del tessuto, della materia, è talmente grande che ci si chiede se non sia stata lei a provocare il movimento dei corpi danzanti, a dare vita a quelle individualità che ora cercano di sconfiggerla.
I danzatori sono stati inglobati dal tessuto, dentro al quale continuano a dimenarsi finché non riescono ad abbatterlo, a slacciarlo dal soffitto, dal cielo che trascende il loro controllo, e a raccoglierlo in un angolo del palcoscenico. La materia si ribellerà, si agiterà, distruggendo il sollievo del gruppo che si credeva vittorioso.
La danza nel senso comunemente inteso è ridotta al minimo: la necessità dell’azione, della battaglia contro le mille forme che il tessuto assume, divora la possibilità di movimento, costringe ogni gesto ad un significato funzionale.
E’ così che vedremo i corpi volteggiare intorno all’enorme drappo con il solo obiettivo di dominarlo, di legarlo a delle funi. Il gruppo di performers è indifferenziato, nessun personaggio si distingue dagli altri, ogni individuo è interscambiabile e il tessuto drammaturgico si muove esclusivamente tra due poli: il gruppo umano e la materia.
Il picco drammatico, nel quale tutto sul palco somiglia ad una tempesta che riempie ogni centimetro di spazio fino al proscenio e i danzatori si urlano segnali per riuscire a domare il nemico, è difficilmente condivisibile dal pubblico. Qualsiasi forma di identificazione è impossibile: i performers e il drappo sono aspetti diversi di un medesimo paesaggio, paesaggio sul quale lo spettatore anela vedersi stagliare un movimento, un gesto che non sia funzionale.
Soltanto sul finale questo bisogno verrà soddisfatto, quando il tessuto sarà ormai un cilindro che scende dal soffitto, quasi un totem, e i danzatori potranno muoversi sciolti e forti, aggressivi, manierati, atletici. Avanzeranno verso il pubblico, come impossessati da una forza che li trascende ma della quale non devono più occuparsi, i volti trasfigurati in espressioni ferine.
Sovviene alla memoria la costruzione scenica de L’alba dell’uomo all’inizio di 2001 Odissea nello Spazio di Kubrick, con il gruppo di scimmie umanoidi e il loro confronto con la materia. Nel film la gigantesca stele rappresenta qualcosa di astratto dal potere umano, in modo simile al sipario nell’opera di van Dinther, ma l’esito è diverso: i personaggi umanoidi di Kubrick riescono a prendere il controllo della materia e ad usarla a loro vantaggio, mentre i danzatori ne rimarranno schiavi anche dopo aver creduto di poterla controllare.