Art Spiegelman, non è affatto l’ora di restare apolitici
Solo dopo che Capitan America diede il suo pugno ben assestato alla mascella di Adolf Hitler, gli Stati Uniti entrarono in guerra. Era il marzo del 1941 e quel primo numero dedicato al supereroe a stelle e strisce, fu venduto per oltre un milione di copie. Come nei mesi successivi e negli anni seguenti a accompagnare le reclute, inviate in Europa per liberarla dai fascisti e porre un argine a Stalin.
Che cosa direbbero oggi i suoi disegnatori Jack Kirby (1917 – 1994) e Joe Simon (1913 – 2011) scoprendo che il loro supereroe, allora così schierato, non può più permetterselo dentro una Marvel, che pretende di restare “apolitica”. Con questa definizione il suo presidente Ike Perlmutter amico e sostenitore di Donald Trump, ha respinto l’introduzione scritta da Art Spiegelman – autore di Maus, graphic novel sulla Shoah - per una raccolta commemorativa edita dalla Folio Society (fondata nel 1947) a ottant’anni dai primi albi a fumetti pubblicati.
Nemico giurato di Capitan America è Teschio Rosso, nazista del primo minuto e disegnato da Kirby e Simon con vivida bruttezza. Nella sua introduzione Spiegelman lo ha reso Teschio Arancione slang cromatico con cui si intende la capigliatura di Trump (e dunque Trump).
Perché lo abbia fatto è chiaro. Lui figlio di scampato a Auschwitz, nell’urgenza di un trauma globale iniziato con la lavina finanziaria del 2008 e col ritorno dei razzismi, dei sessismi, dell’omofobia e divisioni sociali in USA, da quando Trump è il Presidente vuole mettere in guardia. Un trauma diventato planetario, dal Sudamerica con foreste lasciate a incenerirsi, o in Europa con capi di gabinetto di estrema destra e ministri a gettare panico e paure da provetti populisti. Mentre tra Londra della Brexit e Papete vari, disgregano promettendosi come soluzione di catastrofi sempre dietro l’angolo e sotto gli occhi di tutti e del pavido Parlamento Europeo tanta gente muore.
Un andazzo che Spiegelman ha ampiamente descritto in un suo lungo intervento pubblicato sul Guardian, come il suo rifiuto di autocensurarsi, perché non è affatto l’ora di restare apolitici e in silenzio su uno scenario internazionale drammatico e preoccupante.
Rivolgendosi alla vera speranza, ai giovani dunque: “Quanto velocemente dimentichiamo, noi umani – studiate a fondo questi fumetti dell’età dell’oro, ragazze e ragazzi!”
La strada è stata segnata e il divertimento da nazionale si è trasformato in globale, passando a Hollywood. Per questo Spiegelman ha indicato nel fumetto la strada da seguire come marcato No! Nato da giovani disadattati, sognatori, poveri e dai quartieri più bassi, di minoranze etniche che in quadricromie su eroi ultraterreni a battersi per i più deboli, riposero tutte le loro speranze.
Tutto è iniziato nel 1933 quando un certo Maxwell Gaines, addetto vendite in una tipografia americana, acquistò per tredici dollari a foglio, le avventure di un supereroe inventato da “due secchioni ebrei, emarginati e disadattati” – come li definì – di nome Jerry Siegel e Joe Shuster. Quei disegni erano il primo racconto di un alieno molto bello e sovrumano, da un pianeta autodistruttosi, che combatteva per la giustizia e la verità. Ma anche per il New Deal di Roosevelt. In qualche anno quell’eroe chiamato Superman è mainstream. Eroe gentile, che dà la buonanotte nel bisogno di gentilezza di una società di giovani che affacciandosi in Europa sentiva sbraitare Hitler e Mussolini contro ebrei, neri, gitani, omosessuali e malati di cui vergognarsi, opponendovi una nuova “razza” di semidei prescelti, senza pietà; “ariani” a spazzare e conquistare il mondo.
Superman nasceva in un deficit etico, per colmare il timore che quel mondo giungesse a compimento, e per quanto forte e indistruttibile era ingenuo, ma irresistibile perché viveva in pagine a colori, veri e propri sipari a aprirsi ogni volta che si girava pagina su immagini spettacolari e d’azione. Dietro le quinte pulsava un universo tutto suo: editrici a fare milioni, con il lavoro di sfruttati in vere e proprie tipografie a conduzione familiare, che si inventavano le storie e le disegnavano.
Si timbrava il cartellino, si guadagnava a cottimo, con sceneggiatori, disegnatori, all’unisono su ogni pagina. Mentre le giovanissime reclute andavano in Europa a combattere, avevano sottobraccio il loro eroe, disegnato da artigiani, che si riscattavano pagina dopo pagina, perché il supereroe faceva successo difendendole in un mondo a 10 centesimi per copia. Razzismo e sessismo erano temi martellanti dei buoni nei fumetti, per soldati che andavano a combattere Hitler e Mussolini. Anche perché le tipografie assunsero più che altro ebrei molto bravi. Non c’erano appunto solo Siegel e Shuster, ma un’intera generazione di vulnerabili scappati dalla devastazione della grande depressione e dal virulento antisemitismo in Germania. Costoro vedevano negli Stati Uniti la nazione a difenderli, qui c’erano i veri Übermenschen (“Superuomini”) ora in Europa a combattere per difenderli dal nazismo. Americani originali in lotta per una nazione, che accoglieva masse stanche, povere, accalcate che desideravano respirare liberamente. E come Superman si nascondeva in Clark Kent, anche questi disegnatori ebrei sublimarono nuove identità.
Max Ginsberg (1894-1947) divenne Maxwell Gainses che si inventò, da Penny Dreadful dimenticati nuove strisce e albi con eroi come Lanterna Verde, Wonder Woman e che col figlio fondò la EC Comics prodromo della DC Comics. Dalla Lituania giunse a New York una famiglia che tramutò il cognome in Goodman, il figlio piccolo Martin Goodman (1908 – 1992) fonderà la Marvel Comics. Per nepotismo farà assumere in tipografia come fattorino il fidanzato della cugina, Stanley Lieber che diverrà il volto indiscusso della Marvel come Stan Lee (1922-2018). Allo stesso gruppo appartenevano Jack Kirby (nato Jakob Kurtzberg) che con Joe Simon s’inventò Capitan America e con Stan Lee nel 1963 la serie di albi X-Man. Il cui antieroe suscettibile e vendicativo Magneto è un sopravvissuto di Auschwitz (ha pure il numero tatuato sul braccio).
Tutti stretti gli uni agli atri tra intraprendere e soccombere in quella nuova società, che dal fondo del barile scalarono tratto dopo tratto, eroe dopo eroe. Era il novembre del 1940 quando Martin Goodman assunse Joe Simon, che volenteroso un fine giornata gli si presentò con una cartella di fogli sottobraccio. Su quei fogli un biondo americano, vestito con la bandiera statunitense e con bicipiti e addominali d’acciaio, in un frame velocissimo entrava nel quartier generale di Adolf Hitler colpendolo con un gancio. L’anno seguente in marzo usciva il primo numero con quelle stesse immagini e in dicembre dopo il bombardamento del Giappone a Pearl Harbor (1941) gli Stati Uniti entravano in guerra. L’unico timore di Goodman era che Hitler fosse assassinato prima dell’uscita del fumetto. Quell’eroe non portava solo in guerra, ma adesso scalzava Superman. Contro i nazisti bisognava essere infuriati, fermi e privi di umorismo.
Erano gli anni d’oro dei fumetti che terminarono con la fine del conflitto. Nati nell’urgenza di un oscurantismo purgante, quando furono aperti i cancelli di Auschwitz col suo immaginabile si capì che a vincere la guerra non era stato Capitan America e non si poteva nemmeno tornare a Superman. L’umanità era cambiata per sempre.
DC e Marvel oggi sono patrimonio grazie a Hollywood, che ha riverberato quei supereroi in saghe miliardarie da record d’incassi, ma agli occhi di un pubblico planetario che quei fumetti col DNA dei supereroi non li ha mai letti, e metabolizzati solo perché c’è la computergrafica a animarli.
Ma già che ci siamo potremmo soffermarci sul perché ne avremmo tanto bisogno. Perché è vero, Teschio Rosso senza la Memoria può diventare Arancione.