C'era una volta il «secolo breve»
Volentieri pubblichiamo il saggio sui trent'anni della caduta del muro di Berlino del professor Silvio Pons docente di Storia dell'Europa Orientale all'Università di Roma «Tor Vergata» e direttore della Fondazione Istituto Gramsci. Pons parla di un "inquietante vuoto di cultura politica e storica". Invita a riconsiderare l'anno 1989 in una prospettiva diversa, come un evento che non presenta soltanto i significati del trionfo della democrazia liberale, ma anche significati opposti destinati a emergere nel tempo. E ne spiega con attente considerazioni il perché. Buona lettura.
La prima è che il nesso retrospettivo tra il crollo degli Stati comunisti, la fine della guerra fredda e la nascita dell'unione Europea non sembra aver suscitato la rivisitazione e la riflessione critica che meriterebbe nella prospettiva del nostro presente. Le celebrazioni dell'anniversario hanno mostrato un panorama molto frammentato secondo linee nazionali, a mio parere più di quanto non fosse accaduto venti anni fa.
Forse quel carattere generale è stato assegnato troppo frettolosamente? O più probabilmente, nell'Europa di oggi i molteplici significati dell'89 si sono dispersi e riaggregati in forme nuove?
Seconda considerazione. Il trentesimo anniversario dell’89 è stato preceduto da una impegnativa quanto controversa risoluzione del Parlamento europeo sulla memoria della Seconda guerra mondiale, approvata il 19 settembre 2019 in occasione dell'80 anniversario dello scoppio della guerra.
Il nesso stabilito di fatto tra le due celebrazioni poteva essere rilevato, ma così non è stato. Eppure quel nesso rappresenta un'acquisizione del pensiero storico e fu molto presente nella coscienza di molti testimoni dell’epoca, vale a dire la visione di un "lungo dopoguerra" che per oltre quarantanni contrassegnò la storia europea e che ebbe fine appunto nell'anno 1989. Soltanto la fine della guerra fredda sancì davvero la fine di quel cono d'ombra e non a caso, tra l'altro, l'inizio di una più puntuale costruzione delle memorie della Seconda guerra mondiale.
Il documento in questione presenta invece una concezione selettiva della memoria proprio mentre reclama la costruzione di una "cultura della memoria condivisa". Non perché, è bene precisarlo, assuma la nozione di totalitarismo, che può avere un senso descrittivo anche se non analitico, ma per il carattere esclusivo e onnicomprensivo che eleva questa nozione a una chiave universale.
Si fissa cosi la data d'inizio della Seconda guerra mondiale al 23 agosto 1939, cioè la data del Patto Molotov-Ribbentrop, invece che al settembre, come è nella realtà storica. Con la conseguenza che, mentre si condannano revisionismi e negazionismi, e anche le tendenze xenofobe, razziste e antisemite, si alleggeriscono le responsabilità di Hitler e della Germania nazista per lo scoppio della guerra, che sarebbero invece da condividere pienamente con Stalin e l'Unione Sovietica.
In altre parole, questa contraddittoria memoria storica promossa da un'istituzione politica, che vorrebbe proporsi come un antidoto alle involuzioni illiberali dell'Europa (orientale) dei nostri giorni, e anche come un baluardo antirusso usando i toni di un’altra epoca, appare invece inefficace e ambigua proprio sotto tale profilo.
Ma forse tutto questo ci porta anche a ripensare l’89. Forse dovremmo riconsiderare l’89 in una prospettiva diversa, come qualcuno ha suggerito, cioè come un evento che non presenta soltanto i significati del trionfo della democrazia liberale, del "ritorno in Europa" e della vittoria dell'occidente, ma anche significati opposti destinati a emergere nel tempo.
In questa luce, le tendenze illiberali nell'Europa di oggi non esprimerebbero soltanto una inversione anti-89, ma l'epifania di fenomeni allora (e per un quarto di secolo) non adeguatamente compresi.
Oggi vediamo meglio le implicazioni globali e di lungo periodo del 1989 in Cina e meno chiaramente quelle delle contemporanee elezioni in Polonia, che registrarono l'affermazione di Solidarnosc e dettero vita al primo governo guidato da un non comunista nell'Europa orientale dopo la Seconda guerra mondiale.
Per molto tempo, e ancora nel ventesimo anniversario del 2009, il massacro di Tienanmen è stato visto come un episodio drammatico e cruento destinato però a restare entro i confini della modernizzazione cinese. Uno scenario alternativo credibile e pericoloso, persino un contro-89 che alcuni leader comunisti, come Ilonecker, considerarono di poter replicare in Europa.
La memoria del 1989 europeo come un evento catastrofico e deprecabile, ancor più nella sua connessione con il 1991 e la fine dell'Unione Sovietica, si è incardinata nella cultura politica cinese, oltre che ovviamente nella Russia di Putin.
Nello stesso tempo, dubbi e perplessità si addensano sull'idea che il 1989 abbia segnato una svolta nella nozione stessa di rivoluzione, modificandone per sempre il senso nel vocabolario degli europei.
Gli establishment comunisti avevano da tempo smarrito la propria ragion d'essere e quelle sezioni ancora in grado di esercitare quote di potere informale si preparavano al gattopardismo del passaggio al mercato.
Le riforme di Gorbacev consentirono la transizione pacifica dall'alto, ma furono anche un fattore destabilizzante decisivo.
Respingendo l’eredità della sovietizzazione e riconoscendo che i regimi dell’Europa centro-orientale non potevano più essere difesi con la forza, Gorbacev decretò di fatto la fine dell’esperienza comunista.
Ma forse proprio questo era una sfida concettuale più complessa di quanto apparve allora. Era infatti in discussione la nozione stessa di un progresso storico lineare e progressivo che aveva caratterizzato il secolo, ma ciò investiva tutte le culture politiche, non soltanto il marxismo e il socialismo.
E ancora, la presenza del nazionalismo nell'anno 1989 è stata sistematicamente sottovalutata.
La formula della "società civile" fu sicuramente imperante e dettò il tono a molti discorsi dell'epoca, segnatamente quello di Vaclav Ilavel.
Questi fu però anche l'unico esponente del dissenso intellettuale a giungere al potere e a rappresentare coerentemente l'idea della "società civile" contrapposta alla "società incivile" degli establishment comunisti.
Nei paesi baltici o in Polonia, nella versione cattolica, il discorso nazionalista fu invece in primo piano e alimentò le tendenze a tracciare una linea di confine con la Russia.
Il nazionalismo polacco prese a esercitare un'influenza rilevante in Ucraina. Il montare di un'insubordinazione nazionalista in Unione Sovietica fu una diretta conseguenza dell'89 non meno della delegittimazione del partito-Stato comunista.
Non da ultimo, in Yugoslavia il nazionalismo serbo emerse nell'establishment comunista in aperta opposizione alla perestrojka.
Ma questa stessa analogia storica suggerisce quanto fosse fragile e precario l'internazionalismo liberale del 1989.
Infine, il 1989 non dette vita a un ordine mondiale strutturato, sebbene la nascita dell'Unione Europea e lo strapotere degli Stati Uniti creassero allora l'illusione contraria.
Lo shock globale e la trasformazione post industriale dell'occidente misero definitivamente alle corde le fragili economie socialiste, collocandole ai margini della modernità tardo novecentesca.
Tuttavia, la nozione di un ordine unipolare post-guerra fredda doveva avere una durata limitata e molto più instabile di quanto previsto.
In Europa, questa premessa creò un automatismo tra l'allargamento dell'Unione e l'espansione della NATO, destinato a incentivare la sindrome della "democrazia sovrana" in Russia e le pericolose fonti di conflitto in Ucraina.
Fuori d'Europa, 1989 cinese e la continuità del partito-Stato nella Cina post-socialista fu il presupposto della crescita della nuova potenza globale del nuovo secolo, con la conseguente concezione del multipolarismo come sfida all'occidente.
Tutto questo non significa, e non deve significare per la cultura politica e ideale che rappresentiamo, mettere una pietra tombale sulla visione del 1989 come liberazione.
L ’89 fu una trasformazione pacifica transnazionale, che ebbe luogo malgrado l’enorme potenziale di violenza e distruzione di massa esistente allora negli stati di polizia socialisti, e che si estese all'Unione Sovietica.
Le retoriche della globalizzazione come occidentalizzazione del mondo hanno fatto velo a una lettura e una memoria più realistica di un evento che ha cambiato l'Europa in modi più controversi e ambivalenti di come noi stessi abbiamo ritenuto. Le onde lunghe dell'89 sono molteplici.
Per oltre un decennio abbiamo assistito alla caduta di regimi monocratici e oppressivi su scala globale, dal Sud Africa all’America Latina.
Non è stata l'irreversibile ondata democratica celebrata da Huntington e da tanti altri.
Ma esiste un nesso che sarebbe insensato disconoscere tra la liberazione dell'89 e le aspirazioni di libertà delle "comunità senza nome" che variamente si sono manifestate in diverse parti del mondo.
Il punto è che tali aspirazioni si sono intrecciate con le forme più diverse di nazionalismo a base etnica, fondamentalismi a base religiosa.
Nuovi autoritarismi, dallo spazio eurasiatico al mondo arabo e altrove, nel solco di una storia profonda che lascia riaffiorare diversità culturali e sociali.
Mentre la fine della "grande divergenza" tra la Cina e l'occidente, spostando crescenti porzioni del potere economico mondiale in Asia, ha di fatto messo in discussione il carattere universale degli ordinamenti democratici.
Visto in questa prospettiva, l'89 ci appare oggi, più che una rivoluzione fatale che avrebbe innescato processi globali ben definiti, un passaggio cruciale di fenomeni globali antecedenti, di lungo periodo e destinati a svelare eredità controverse nel nuovo secolo.
I nodi non sciolti nell'89 non sono di portata inferiore ai nodi sciolti, che siamo abituati a connotare come la "riunificazione dell'Europa".
Forse davvero è venuto il momento di archiviare la nozione del "secolo breve" e trovare altre strade per dare un nome al nostro passato.
Silvio Pons
Autore o curatore di numerosi volumi dedicati alla storia della Russia sovietica e del comunismo italiano e internazionale, per Einaudi ha scritto Stalin e la guerra inevitabile 1936-1941 (1995), Berlinguer e la fine del comunismo (2006) e La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale 1917 - 1991 (2012); sempre per Einaudi ha curato Georgi Dimitrov, Diario. Gli anni di Mosca 1934-1945 (2002) e il Dizionario del comunismo nel XX secolo (con R. Service, 2006-2007).