Nel suo ultimo saggio Éric Fassin sostiene che per dare nuova linfa alla sinistra non si deve puntare sul populismo ma attingere alle fila dell’astensionismo. Il sociologo francese critica senza mezzi termini la “sinistra socialdemocratica”, che tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila è stata al governo di molti Paesi europei.
L'accusa è di aver demotivato i propri sostenitori, iscritti, simpatizzanti ed elettori, privandoli del loro senso di appartenenza identitaria fondato sul sentimento e sulle passioni collettive. Ricca di contenuti anche l'attenta lettura del fenomeno Trump e della trasformata cultura politica statunitense che ne ha permesso l’elezione.
Il saggio di Éric Fassin (Contro il populismo di sinistra, ManifestoLibri, 2019, pp. 125) contiene un’originale riflessione sul populismo. In particolare, l’autore muove una critica frontale al populismo di sinistra e a tutte le forme reali della sua organizzazione politica.
Questa presa di distanza appare evidente sin dal titolo del libro, sia nella traduzione italiana sia nella versione originale francese (Populisme: le grand ressentiment), pubblicata nel 2017. Secondo l’autore, al di là dei partiti della destra radicale e dell’estrema destra xenofoba e razzista, seppur con una prospettiva diversa, la parte della sinistra europea attratta dalle sirene del populismo avrebbe assunto una decisione non irrilevante dal lato delle responsabilità politiche.
In un momento di profonda crisi economica e democratica, come quello registrato in Europa negli anni a cavallo del secolo, per Fassin alcuni leader e imprenditori politici di orientamento progressista avrebbero erroneamente individuato nella cassetta degli attrezzi del populismo uno strumento efficace da contrapporre alla perdurante egemonia neoliberista.
Nel libro l’autore si oppone a questa prospettiva e a ogni forma di populismo, fosse anche di sinistra, presentandone e discutendone caratteristiche e debolezze strutturali.
Prima di entrare nel cuore del ragionamento proposto da Fassin, è però interessante soffermare l’attenzione sulla sua biografia. L’autore proviene dalla tradizione di analisi sociologica legata allo studio delle minoranze razziali e sessuali, ed è proprio a partire da tali ambiti d’interesse che egli arriva a prendere in esame il grado di trasformazione dei partiti della sinistra europea, fino ad avanzare una critica senza mezzi termini alla “sinistra socialdemocratica”, che tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila è stata al governo di molti Paesi europei.
L’accusa che egli muove a tali partiti e ai loro leader (laburisti inglesi, socialdemocratici tedeschi, socialisti francesi, spagnoli e greci) è quella di aver indotto una sorta di “depressione militante” nei confronti dei propri sostenitori, iscritti, simpatizzanti ed elettori, privandoli del loro senso di appartenenza identitaria fondato sul sentimento e sulle passioni collettive, e allontanandoli per ciò dai processi d’inclusione e della partecipazione politica.
Per Fassin, “con la caduta del muro di Berlino e lo sgretolamento del blocco sovietico, la vittoria del mercato era presentata […] come il trionfo della democrazia e al tempo stesso come la fine della storia, ovvero l’avvento della ragione neoliberista” (p. 36).
In conseguenza di ciò, la sostanziale mancanza di alternativa in termini di policies avrebbe reso irriconoscibili i partiti di governo, conservatori o progressisti che fossero, avendo questi adottato concretamente gli stessi provvedimenti sia in campo economico sia in molti altri ambiti della governance nazionale e internazionale.
A tal proposito, con riferimento alle scelte legate alla Realpolitik, l’approccio "Tina" (There Is No Alternative), di thatcheriana memoria, evocato da tutte le parti politiche, avrebbe contribuito, secondo l’autore, a depotenziare i partiti della sinistra, decretando il fallimento della loro esperienza politico-istituzionale.
Dati tali presupposti e nelle mutate condizioni storiche, si registrano in Europa e non solo la nascita e la proliferazione di numerose forme di partiti alternativi, cosiddetti neopopulisti, anche di derivazione democratica e di sinistra, che intendono contrapporsi all’establishment dominante e alla classe politica responsabile delle condizioni di progressiva difficoltà in cui è costretta a vivere una larga maggioranza di cittadini, impoveriti e impauriti dalla crisi.
È esattamente in questa direzione che Fassin presenta nel libro un’appassionata lettura nel fenomeno Trump e della trasformata cultura politica statunitense che ne ha permesso l’elezione.
Per l’autore, se i populismi di destra riescono a collocarsi in una posizione intermedia tra la difesa del sistema neoliberista e la crescita del risentimento popolare contro le classi dirigenti nazionali e sovranazionali, a sinistra le cose sarebbero molto più complesse.
Secondo Fassin, la questione più importante da risolvere riguarda proprio il contenitore “popolo”: “questo popolo non si riduce agli strati popolari, non potrebbe essere definito meccanicamente dall’interesse di una né persino di più classi, perché le trascende” (p. 64).
Secondo le indicazioni fornite da Laclau, il popolo di ogni populismo può costituirsi per effetto delle “catene di equivalenza” che guidano il processo di aggregazione capace di unificare le differenti istanze e le domande popolari avanzate nella società, apparentemente diverse ma potenzialmente compatibili in una medesima dimensione soggettiva.
In questo modo, a seconda che ci si rivolga a un popolo o a un altro, si possono sviluppare discorsi diversi cui corrisponderanno diverse piattaforme populiste, di destra o di sinistra.
Concepiti come antidoto al populismo di destra, i partiti della sinistra populista vengono sottoposti dall’autore a una doppia critica:
1) in nome dell’unità e dell’indivisibilità del popolo sovrano, anche i populismi di sinistra rischiano di annullare la pluralità delle minoranze presenti all’interno di una vasta e complessa popolazione di riferimento, rappresentando un pericolo concreto per il destino stesso di quelle minoranze;
2) nuotando all’interno dello stesso mare e accettando di riarticolare il conflitto politico attorno alle categorie popolo/élite (seppur declinate nell’ottica basso vs. alto), il populismo di sinistra finisce con il legittimare il superamento delle differenze tra destra e sinistra, che dopo il 1989 hanno permesso la vittoria delle destre e l’affermazione dell’ideologia neoliberista.
Ancorché l’interpretazione del populismo di sinistra presupponga la conoscenza di un fenomeno complesso e non senza contraddizioni, che qui non è possibile affrontare per esteso (nel merito, mi permetto di rinviare al mio Populist Radical Left Parties in Western Europe, pubblicato per Routledge nel 2020), nel libro Fassin non riconosce ai principali attori protagonisti di questo campo politico (un esempio su tutti, il più aderente al caso idealtipico, Podemos in Spagna) l’alternativa che la sinistra va cercando in epoca di crisi delle ideologie tradizionali.
Fassin non nega il fatto che dopo l’avvento delle prime forme di “populismo inclusivo”, diverse rispetto a quelle “esclusive” interpretate dai partiti e dai movimenti politici della destra radicale e dell’estrema destra (che nel processo di costruzione del popolo respingono varie categorie sociali, tra cui le popolazioni migranti), “il populismo non è più solo un insulto, ma tale denominazione può assumere anche un carattere positivo.
Non è più percepito necessariamente come il rovescio demagogico della democrazia, presentandosi ormai invece come una forma di rinnovamento democratico anche a sinistra” (p. 32).
Ma è proprio su questo punto che l’autore muove la sua critica radicale, affermando testualmente che “in un populismo di sinistra è il populismo che gioca il ruolo di sostantivo, la sinistra non è che un aggettivo” (p. 84).
Se, a suo avviso, il populismo è inadeguato per ricostruire la sinistra, l’autore chiude il volume con un’esortazione militante: “è giunta l’ora di costruire una sinistra” (p. 87).
La sua idea, non meno utopica di quella contro cui si batte e forse persino più problematica, è attingere dalle fila dell’astensionismo, per cercare di “trasformare il disgusto astensionista in gusto elettorale” (p. 81).
In conclusione, parafrasando quanto sosteneva Schattschneider, e sostituendo il termine "democrazia" con "sinistra", si potrebbe affermare che “l’idea di sinistra è ancora in corso di invenzione ed è ancora aperta a una molteplicità di interpretazioni, [probabilmente] nessuna definitiva”.
Marco Damiani è ricercatore in Scienza politica presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Perugia. I suoi principali interessi scientifici sono lo studio dei partiti e della classe politica. Si occupa anche di Network Analysis applicata al potere locale e alla politica internazionale. Tra le sue pubblicazioni, Classe politica locale e reti di potere (FrancoAngeli, 2010), La Network Analysis nelle scienze politiche (Morlacchi, 2014) e La sinistra radicale in Europa (Donzelli,2016).
Fonte: il Mulino