Roberto Ferrucci: "Venezia è una città in agonia"
La notte del 12-13 novembre, Venezia è morta. La notte scorsa Venezia è morta. Nulla a che vedere con La morte a Venezia di Thomas Mann. Qui si tratta della città intera.
E non è solo un pensiero, perché la logica si rifiuta di lasciarsi andare alle emozioni del momento.
No, è un sentimento quello che mi pervade più cammino, più mi guardo intorno. Un sentimento doloroso e incredulo. E una presa d'atto, anche: che in certi casi la frase fatta "non ci sono parole", ha un suo fondo di verità.
Potete leggere mille reportage, compreso questo, ma nemmeno dei maestri come Ernest Hemingway o Emmanuel Carrère riuscirebbero a trasmettere il dolore, la rabbia, lo sconcerto, la paura, tutta quella gamma di sentimenti che solo chi ci vive, a Venezia, solo chi l'ha scelta per la sua unicità o ci è nato, può davvero sentire.
Solo chi è radicato in questo posto come i tronchi che da secoli fanno da fondamenta alla città più bella del mondo sa e sente davvero cosa è successo. Ma nessuno di noi troverà mai le parole per raccontarlo, anche se poi, alla fine, lo scrittore ha il dovere di provarci.
Esco di casa, taccuino, penna, smartphone per gli appunti visivi e via. Lo avevo già fatto la notte del disastro, ma quello non era proprio il momento del racconto. Vaporetti affondati, alberi sradicati, capitelli polverizzati, e poi negozi distrutti, appartamenti resi inabitabili. I vaporetti affondati sono a pochi passi da casa mia.
Sono le imbarcazioni numero 191 e 203 dell'Actv. Erano ormeggiati lì per la notte. La mareggiata deve averli fatti sbattere l'uno contro l'altro, frantumandoli. Di fronte a loro, nel parco di Sant'Elena, una manciata di alberi sradicati. Infilo una mano nel taschino, la mattinata è grigia, ma sono costretto a mettere gli occhiali scuri.
Voglio che le mie emozioni rimangano mie, nascoste là dietro. Più in là, via Garibaldi, uno dei luoghi più vivi e vivaci della città, dove i residenti all'ora dell'aperitivo scendono e se ne stanno lì a chiacchierare in uno dei tanti (forse troppi) caffè che la riempiono.
Quel posto, uno dei pochi ancora autenticamente veneziano, è stato invaso l'altra sera da una vera e propria ondata d'acqua, sembrava uscito direttamente da una delle foto in bianco e nero di quel lontano e famigerato 4 novembre 1966, di quell'alluvione devastante, solo che sono passati cinquantatré anni, non più foto in bianco e nero ma video digitali in HD, ed è successo di nuovo, mezzo secolo dopo, mezzo secolo di evoluzione in ogni settore della nostra vita, ma per Venezia, noi, veneziani e italiani, non abbiamo fatto nulla affinché quell'episodio tragico non si ripetesse. Niente di niente.
Abbiamo preso fatto ridere il mondo intero con l'opera faraonica e incompiuta chiamata Mose e nel frattempo - ripeto: cinquantatré anni - abbiamo solo contribuito a peggiorare le cose. Abbiamo trasformato Venezia in una Disneyland speciale, unica.
Non abbiamo fatto più nulla per tramandare la sua storia, la sua arte, la sua unicità e, soprtattutto, la sua fragilità. I turisti oggi si guardavano intorno e sorridevano, si facevano selfie a rotta di collo. Avrei voluto insultarli, rovesciargli addosso tutta la mia rabbia, ma poi mi sono detto che anche in questo caso è colpa nostra, siamo riusciti a far passare solo l'immagine più stereotipata e sciocca di Venezia, quella di una cartolina permanente.
E dentro quella cartolina hanno pensato che forse qualche buontempone ci avesse messo anche l'acqua alta e le sue conseguenze, quelle robe che ci siamo abituati a vedere nelle serie tv.
Venezia per la maggior parte di chi arriva è un bon bon da gustare in fretta, e a noi veneziani, da troppo tempo va bene che le cose vadano in questo modo. Eppure, oggi finalmente riaffiorano i contrasti che per decenni abbiamo finto di non vedere, emergono dall'acqua, insieme a spazzatura e frattaglie. Oggi, subito dopo il dolore, possiamo mettere in fila gli episodi drammatici che si sono succeduti quest'anno: grandi navi, trombe d'aria, acque alte eccezionali, oltre al resto, ormai in atto da anni: palazzi storici trasformati in alberghi, negozi artigianali che si trasformano in souvenir a un euro, appartamenti affittati esclusivamente a turisti. Questo elenco dovrebbe produrre un'unica conseguenza: farci aprire gli occhi. Credete accadrà?
Intanto cammino e in via Garibaldi non un solo negozio si è salvato. C'è chi si danna per rimettere in ordine quanto possibile, e chi si guarda intorno smarrito, senza sapere bene da dove incominciare.
Lo smarrimento è totale, la sconfitta è manifesta. Ma svaniscono almeno un po' quando arriva un gruppo di ragazzi muniti di guanti e grandi sacchetti di plastica. Sono gli studenti di Ca' Foscari, affiancati da coetanei non universitari ma con lo stesso meraviglioso spirito di solidarietà. Si sono rimboccati le maniche e sparigliati a centinaia in giro per Venezia. Aiutano chiunque abbia bisogno. Riconosco un mio studente e corro ad abbracciarlo e ringraziare lui e i suoi compagni.
Ma smettetela di chiamarli angeli: sono giovani che, a differenza di noi adulti, non hanno ancora smarrito il naturale e necessario sentimento di solidarietà. Non hanno nulla di divino e tanto, per fortuna, di umano. È l'unico momento di sollievo e di speranza in una giornata grigia dentro e fuori.
C'è un senso di impotenza che si mescola a rabbia, a rassegnazione, a paura.
In Riva dei Sette Martiri, il bar Melograno, dove ho trascorso, negli anni, centinaia e centinaia di mattine e di pomeriggi a scrivere, ha le vetrate sfondate. Guardo dentro, e quel sentimento diventa profonda tristezza, dolore. È il mio luogo dell'anima questo, e a vederlo ridotto così, per fortuna ho gli occhiali da sole.
Con lui, abbiamo evocato il Mose. Il Mose, quella ridicola e scandalosa grande opera, costata miliardi di euro, che ha prosciugato tutti i fondi destinati alla manutenzione ordinaria della città, un'opera mai finita e - scommetteteci - che mai entrerà in funzione, servita solo ad arricchire i soliti noti, alcuni finiti in galera, altri invece usciti indenni, quell'opera è non solo incompiuta e inutile, ma pure dannosa, visto che c'è chi ha dimostrato come sia essa stessa, oggi come oggi, una delle cause di queste maree eccezionali sempre più frequenti.
Voilà. Colpa degli ambientalisti, sarebbero loro, a detta del sindaco, ad aver imposto il Mose. Dobbiamo ridere o piangere? Poi ci ha aggiunto il suo solito mantra: lo scavo del canale Vittorio Emanuele per fare arrivare le navi da crociera (quelle che dovrebbero stare fuori dalla laguna e basta) a Porto Marghera. Uno scavo inutile e però costoso e dannoso, tanto per scombinare ancor di più i già compromessi equilibri della fragilissima laguna veneziana.
Allora là, fuori dal negozio del fotografo Marco Missiaja, rientrando a casa, una cosa ho capito: Venezia la può salvare soltanto il resto del mondo.
Una sovrastruttura internazionale composta da gente competente e capacissima, perché noi, veneziani e italiani, ormai è assodato, non siamo in grado di gestirci da soli. Certo, qualcuno ci sarebbe, ma in questo paese ormai la gente non sceglie più chi ha competenza, cultura e buon senso. Si sceglie chi parla alla pancia, chi la spara più grossa.
Abbiamo lasciato morire la città più bella del mondo e con lei noi stessi. Possiamo ancora resuscitarla, a patto che qualcuno ci aiuti, ci venga imposto, dall'Onu o dalla comunità internazionale. Salvatela voi, Venezia, perché noi, lo confessiamo finalmente a gran voce, siamo soltanto colpevoli.
Canto dei battipali - Antico canto di lavoro veneziano
*Fonte: Questo reportage è stato pubblicato sul quotidiano francese Le Monde. L’ultimo libro di Roberto Ferrucci è "Venezia è laguna" (Helvetia editrice, 2019)