Si allenta l'incubo coranavirus, riprende l'accanimento contro i migranti

Coltivare la paura rende. Lo sanno bene i politici oltranzisti come l'ungherese Viktor Orban o l'italiano Matteo Salvini, che più le sparano grosse sugli immigrati più speditamente scalano i sondaggi. Un altro politico europeo, il primo ministro della Repubblica ceca Andrej Babis, indica la soluzione a suo parere perfetta: è il modello australiano, che ha optato per la formula più spiccia: blocca le imbarcazioni dei fuggiaschi e le dirotta in luoghi sperduti nei quali, "le condizioni di vita, secondo le ripetute denunce di Amnesty International, sono a dir poco disumane", come scrive Alfredo Venturi nell'articolo che pubblichiamo.

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Secondo l'Organizzazione internazionale della migrazione, l'ente che dalla sua sede di Ginevra osserva e studia i trasferimenti di popolazione nel mondo, le persone che vivono in un paese diverso da quello natio sono quasi 260 milioni (il dato si riferisce al 2017). Dunque poco meno del tre e mezzo per cento dell'intera umanità, che ha ormai superato i sette miliardi e mezzo di uomini e donne. Il fenomeno ha conosciuto negli ultimi due decenni un'impetuosa accelerazione: nel 1990 la cifra degli espatriati era di poco superiore ai centocinquanta milioni. Se poi si considerano anche le migrazioni interne ai singoli paesi, si supera il miliardo di persone, un settimo della popolazione mondiale.
Evidentemente si tratta di situazioni variamente assortite: ai poli estremi vediamo da una parte chi fugge dalla guerra, dalla miseria e dalla fame, dall'altra quei professionisti e ricercatori che inseguono migliori condizioni lavorative o accademiche. É vero che quest'ultimo aspetto del fenomeno, la cosiddetta fuga dei cervelli, inquieta molti paesi, ma è soprattutto l'altro capitolo migratorio, quello di chi è in cerca della pura e semplice sopravvivenza, a turbare le opinioni pubbliche soprattutto in Europa e negli Stati Uniti. Anche perché in questi ultimi anni ha assunto un carattere caotico, del tutto privo di assetti organizzativi che non siano quelli criminali di chi gestisce i traffici.
 
     Che si tratti di materia scottante lo conferma una constatazione sconvolgente: quando vediamo quei barconi gremiti di una umanità disperata, che pur di lasciare le terre di origine affronta i rischi e le umiliazioni dei soggiorni in infernali centri di raccolta e della doppia traversata del deserto e del mare, mettendo consapevolmente in gioco la vita, pensiamo di trovarci di fronte agli ultimissimi della terra.
Si tratta, invece, di privilegiati. Proprio così, privilegiati nel loro tragico contesto, gente che disponeva del denaro con cui ha potuto pagare i trafficanti per mettersi in viaggio, lasciandosi alle spalle i veri derelitti, quelli che non possono permettersi nemmeno di sognarla, la fuga verso l'Europa opulenta.
E dunque devono rassegnarsi a un destino di miseria e di morte, in paesi sconvolti dalla guerra o abbrutiti dalla fame, dal Medio Oriente in fiamme fino all'Africa sahariana e subsahariana afflitta da contrapposizioni religiose, carestie, mancanza di lavoro e di prospettive.
Li condanna alla rinuncia il fatto di non poter pagare le esose tariffe richieste da passatori e scafisti che praticano prezzi da usura, al punto che paradossalmente converrebbe andare a raccogliere i migranti con aerei charter. Oltre tutto in questo modo si sconfiggerebbe l'immonda mafia dei nuovi negrieri.
Bisogna d'altra parte considerare che se tutti coloro che lo desiderano potessero e dovessero mettersi in viaggio, il fenomeno assumerebbe rapidamente dimensioni davvero incontrollabili.
 
     Dunque soltanto quelli che possono permettersi di pagare partono, affidandosi a trafficanti che lucrano sulla loro disperazione. Cercano la vita e il futuro, la libertà e la pace. L'esuberante demografia nell'Africa povera, accentuata dalle molte irresponsabili opposizioni al controllo delle nascite, è in evidente antitesi con il problema europeo delle culle sempre più vuote, che a sua volta determina soprattutto in prospettiva popolazioni in calo e carenze di manodopera.
Ciononostante, anche a causa della modalità che il fenomeno migratorio ha assunto nella fase attuale con caratteri che appaiono di vera e propria emergenza, questa gente alla ricerca di un domani decente si trova di fronte muri, nient'altro che muri.
Per esempio la grande muraglia destinata a difendere gli Stati Uniti dalla pressione latino-americana, o le più modeste barriere spagnole di Ceuta e Melilla, arcaici residui coloniali in terra d'Africa, o infine i muri metaforici ma non meno paralizzanti di chi in Europa imposta le sue politiche sulla paura dell'invasione e sulla difesa della compattezza etnica e religiosa.
Di fronte a una situazione che richiede di essere affrontata con lucidità e sangue freddo non si esita a sovradimensionare il fenomeno, perché si vuole creare il mostro a fini elettorali. Per esempio in Italia, dopo che già gli sbarchi erano diminuiti di oltre il settanta per cento grazie alla gestione energica quanto controversa del ministro dell'interno Marco Minniti, il successivo governo giallo-verde ripropose l'allarme, negando ripetutamente l'approdo alle navi cariche di profughi delle organizzazioni non governative.
 
     Fa parte del problema il fatto che queste politiche restrittive e questi accenti apocalittici rendono assai in termini di popolarità.
Lo dimostra in negativo il destino della cancelliera tedesca Angela Merkel, che paga con un brusco calo di consensi le generose aperture verso i migranti provenienti dalla Siria in guerra, frutto di una visione da statista che australiaconsidera la storia al di sopra delle immediate contingenze elettorali.
Lo dimostra anche la fortuna di politici oltranzisti come l'ungherese Viktor Orban o l'italiano Matteo Salvini, che più le sparano grosse sugli immigrati più speditamente scalano i sondaggi. Si coltiva la paura e nella società cominciano a serpeggiare sentimenti razzisti.
Un altro politico europeo, il primo ministro della Repubblica ceca Andrej Babis, indica la soluzione a suo parere perfetta: è il modello australiano.
L'Australia, altro pezzo d'Occidente visto come un miraggio e dunque preso di mira da fuggiaschi somali, afghani, siriani, iracheni, birmani, ha optato per la formula più spiccia.
Le imbarcazioni con i migranti non possono nemmeno avvicinarsi alle sue coste: vengono intercettate e costrette a depositare il loro carico umano in luoghi sperduti.
Come Christmas Island, in pieno Oceano Indiano, o Nauru, un minuscolo stato insulare in Micronesia, o infine Manus, in Papua-Nuova Guinea, prima che quel governo chiudesse il centro di raccolta. Tutti luoghi in cui le condizioni di vita, secondo le ripetute denunce di Amnesty International, sono a dir poco disumane.

     Dopo avere passato in rassegna i precedenti storici delle migrazioni, ci si chiede in che cosa i movimenti attuali differiscano da quelli tradizionali.

  É più facile vedere i punti di contatto: per esempio anche l'attualità ci parla di esodi forzati. Non si tratta tanto di persone cacciate con la violenza dal proprio paese, quanto di gente che deve ugualmente abbandonarlo perché rimanervi significa non avere scampo.
Un'altra analogia è l'abominio della tratta: il fatto che i migranti pagano il loro salatissimo biglietto di viaggio non esclude che siano alla mercé di trafficanti senza scrupoli, che s'impadroniscono delle loro persone disponendone a piacimento. Non è certo un'esagerazione il fatto che questa situazione viene spesso descritta ricorrendo alla categoria dello schiavismo.
Infine si può parlare di nuove diaspore, nel senso che si formano nel mondo comunità di espatriati tagliate fuori dal loro contesto originario, esattamente come a suo tempo gli ebrei o gli armeni. La differenza principale fra le migrazioni di una volta e le attuali consiste nella maggiore quantità di informazioni oggi disponibile.
Nel villaggio globale dominato dalla rete non ci sono più misteri, anche nella località più sperduta si è consapevoli dell'abisso che separa dalle condizioni locali il modello di vita europeo o americano.
É uno stimolo potente per questo urbanesimo di nuovo tipo, che nell'Occidente colloca la città, il rifugio, la salvezza.

     Siamo dunque di fronte alla versione moderna di un fenomeno antico, che andrebbe contrastata attraverso una convinta cooperazione internazionale, capace sia di contribuire a monte al miglioramento delle condizioni che oggi inducono alla fuga, sia di distruggere a valle l'attività criminale dei trafficanti di esseri umani. Avviando così il fenomeno nei binari accettabili di un ordinato trasferimento di persone. Utopia? Si direbbe proprio di sì, considerando gli egoismi nazionali e regionali, le ristrettezze di vedute che da un capo all'altro del mondo sviluppato non trovano di meglio che elevare muri materiali o mentali.

Proprio questo atteggiamento ansiogeno e in realtà impotente contribuisce nella percezione comune a rivestire ciò che sta accadendo dei panni dell'emergenza. Eppure una gestione coordinata del fenomeno migratorio è chiaramente imposta dalle circostanze, perché come diceva Seneca ducunt fata volentem, nolentem trahunt: il destino accompagna chi lo asseconda, trascina chi gli si oppone.

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Alfredo Venturi
É nato a Bologna, vive in Toscana. Laurea in Scienze politiche. Giornalista (il Resto del Carlino, La Stampa, Corriere della Sera) attivo in Italia e all'estero. Ha trascorso in Germania il decennio che comprende la riunificazione. Editorialista del settimanale Azione di Lugano. É autore di numerosi saggi di ricerca e divulgazione storica.
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