In mostra la libertà creativa dell'arte sovietica a Parigi
Quando, nel 1935, Walter Benjamin scrisse che il fascismo aveva estetizzato la politica, dunque il comunismo doveva politicizzare l’arte, probabilmente aveva in mente l’incredibile produzione culturale della prima Unione Sovietica. La mostra Rouge al Grand Palais di Parigi riunisce opere d’arte provenienti dagli Stati dell’ex Unione Sovietica, dai primi giorni della Rivoluzione d’Ottobre fino alla morte di Stalin, nel 1953.
La mostra è organizzata cronologicamente, a partire dalle avanguardie rivoluzionarie. Che si incontrino gli operai stilizzati che marciano sui capitalisti in fuga nell’acquerello di Vladimir Lebedev La fantôme rouge du communisme se déplace à travers l’Europe (1920), o un modello di scenografia di Lyubov Popova per una produzione del 1922 dello spettacolo Le Cocu magnifique, o il gioco alternativo degli scacchi di Natalya Danko, Les Rouges et les blancs (1925), l’arte dell’inizio dell’Unione Sovietica emana giovinezza, movimento perpetuo e possibilità illimitate. La libertà creativa è il tema comune delle prime opere della mostra.
Ciò che rendeva politica quest'arte nel senso di Benjamin non era però il soggetto proletario o rivoluzionario. L’avanguardia sovietica trattava ogni mezzo artistico come un terreno politico, sfidando le tecniche superate e spingendo le forme stabilite ai loro limiti. La rivoluzione si è svolta in miniatura all’interno del design scenico, sulla tela, e attraverso l’architettura. Proprio come negli scacchi alternativi di Danko, che ha trasformato la regina rossa nella contadina di un collettivo, gli elementi artistici come la linea e la forma danno vita a personaggi rivoluzionari.
Il cavallo rosso che porta in volo il suo cavaliere attraverso la campagna nel quadro Fantaisie (1925) di Kuzma Petrov-Vodkin è fatto della stessa materia dei sogni utopici. Segue la rottura dei surrealisti europei con la rappresentazione realistica. Tuttavia, la politica immanente nell’arte dell’avanguardia sovietica è forse meglio espressa nel quadro Pur rouge (1921) del costruttivista Alexander Rodchenko. Concepito come parte di una trilogia di colori primari (rosso, blu e giallo), questo anti-dipinto consiste nel colore rosso monocromatico che copre l’intera tela. Sarebbe un rosso senza caratteristiche se non per le sottili crepe dovute al passare del tempo ora visibili nel quadro. Artisti come Mark Rothko in seguito trasformarono questa pittura minimalista o color field in uno stile coerente, ma Rodchenko e i suoi colleghi usavano opere come questa per dichiarare la morte dell’arte e dire addio alla pittura come mezzo.
L’avanguardia rivoluzionaria tracciò un’analogia tra le forme d’arte e le forme sociali, pur tenendo questi domini separati. Al contrario, la svolta verso il realismo socialista alla fine degli anni Venti e gli anni Trenta cancellò ogni distinzione tra forme d’arte e forme sociali. Diversamente dall’intenzione delle avanguardie, il realismo socialista distrusse l’autonomia dell’arte subordinando stile e contenuti ai bisogni dello stato sovietico. L’arte aveva allora una funzione puramente propagandistica poiché rifletteva una versione idealizzata della società esistente, piuttosto che cercare di trasformarla.
Eppure, c’è qualcosa che ispira negli impavidi corpi proletari che popolano il realismo socialista. Vediamo operai infaticabili dipinti eroicamente nei manifesti progettati per la diffusione di massa. I collage mostrano gli operai che sostengono la bandiera rossa sopra un globo multiculturale unito nella solidarietà. Nel dipinto di David Shterenberg, Meeting au village (1927) il membro di un partito intrattiene un gruppo di contadini che ascolta in rapita attenzione. Sbirciamo all’interno di laboratori, fabbriche e centrali elettriche. In un quadro straordinario di Aleksandr Deyneka, Sur le chantier de construction de nouveaux ateliers (1926), osserviamo due lavoratrici messe a confronto: una sorridente con un camice da lavoro grigio vista di fronte e un’altra con un camice da lavoro rosso ritratta di spalle nello sforzo di tirare un carrello carico di carbone. Secondo la didascalia, il dipinto mostra “due temporalità allo specchio. Colta in un presente difficile, una donna al lavoro ritratta di spalle, scura e sporca, si contrappone a una giovane donna raggiante che incarna la lavoratrice del futuro”.
Tuttavia, questi scorci di emancipazione non riescono ad allontanare lo spettro dell’autoritarismo. In un inquietante dipinto del 1935 di Georgy Rublev, Stalin appare seduto in abito bianco su uno sfondo rosso-arancio, mentre legge il giornale "Pravda". Un minaccioso segugio rosso giace ai suoi piedi, in attesa di attaccare i nemici di classe.
Il secondo piano della mostra affronta la storia dei processi, delle purghe e delle paranoie come raffigurate nei film e in altri media visivi. Dopo aver visto questo triste spettacolo, ci consoliamo grazie a una brillante collezione di dipinti che rappresentano l’utopia stalinista. Nell’opera di Alexander Samokhvalov, Komsomol militarisé (1932-33), una truppa di ragazzi e ragazze armati si incontra nella campagna assolata per esercitarsi nel tiro al bersaglio, mentre sullo sfondo la gente in costume da bagno danza in riva al mare. Nuotare e fare il bagno nudi sono temi che ricorrono in diverse opere, come in Donbass, la pause-déjeuner (1935) e Baigneuse (1951) di Deyneka: giovani corpi proletari nudi esprimono la gioia e la salute fisica della nuova società comunista.
Ma la tecnologia moderna rimane sempre al primo posto nel “mondo dei sogni di massa”, come l’ha definita la teorica Susan Buck-Morss. Nel dipinto futurista Dirigeable (1933), guardiamo dall’alto il dirigibile che dà il titolo all’opera mentre vola tra nuvole technicolor e aeroplani su un caleidoscopico paesaggio industriale. La resa architettonica di Dmitry Chechulin e Andrei Rostkovsky’s del complesso residenziale in Kotelnicheskaya a Mosca (1947-49) proietta il grattacielo in uno splendore dorato contro un cielo blu. Presumibilmente si tratta di una somiglianza casuale con La Torre di Babele di Pieter Bruegel il Vecchio.
Il neoclassicismo dell’arte stalinista riflette la trasformazione dell’utopia sovietica da ardito esperimento rivoluzionario a processo di civilizzazione imperiale. In realtà, piuttosto che di utopie che inaugurano un mondo nuovo, le ultime opere della mostra offrono visioni di un’eternità mitica. I ritratti idealizzati di Maxim Gorky, uno di lui che legge a Stalin e ai suoi amici e un altro sul letto di morte, raffigurano lo scrittore preferito del regime come l’Omero sovietico. E poi c’è il dipinto sentimentale di Aleksandr Gerasimov di Stalin al funerale di Andrei Zhdanov (1948), uno dei principali sostenitori della censura e della reazione culturale conservatrice.
Passeggiando per la mostra Rouge, non si può fare a meno di sentirsi trascinati dalla corrente rivoluzionaria, condividendone i sogni e le delusioni, e domandandosi se le cose sarebbero potute andare diversamente. Osservando il progresso dell’arte sovietica dall’avanguardia rivoluzionaria attraverso il realismo socialista, il classicismo stalinista e infine il regno del mito, si ha la curiosa sensazione di vivere la storia dell’arte occidentale al contrario. Dal mito, attraverso il classicismo, il realismo ottocentesco, fino alle avanguardie moderniste: l’arte occidentale ha mostrato ai primi artisti sovietici un percorso inverso di sviluppo. Marx scrisse che la nuova società comunista avrebbe ereditato “le voglie della vecchia società dal cui ventre è nata”. L’arte sovietica era destinata a trasformare le voglie della cultura borghese in tratti familiari permanenti.
[La traduzione è di Elena Maramotti]
[Il quadro raffigurato è Sur le chantier de construction de nouveaux ateliers, olio su tela di Alexandre Deyneka, 1926]
Fonte: La rivista il Mulino