L’Iran viene generalmente presentato come la culla dell’eresia più vistosa dell’ecumene islamica, lo shi‘ismo. Non è così. Lo shi‘ismo, vale a dire quel ramo dell‘islam che trova il suo referente principale nella discendenza di ‘Ali, il quarto califfo, sia in termini politici/dinastici che religiosi è fenomeno prevalentemente arabo.
Infatti, la geografia religiosa shi‘ita ha i suoi centri più importanti in Iraq, Najaf e Kerbela; luoghi in cui è avvenuto lo scontro con il potere sunnita in carica nei primi secoli dell‘islam.
In Iran ci sono presenze shi‘ite che risalgono alle prime conquiste dell’altipiano iranico, com’è il caso di Qom, ma lo shi‘ismo diventerà dominante in tempi relativamente recenti e per motivi politici.
Dal Cinquecento in poi, cioè dall’inizio di quella che possiamo chiamare modernità sia nel mondo occidentale che vicino orientale, l’evento cruciale è l’avvento al potere di una dinastia che ha radici in una confraternita sufi, la Safawiyya.
Il nuovo regime adotta come suo credo lo shi‘ismo e dà inizio alla conversione della quasi totalità del paese.
Lo shi‘ismo safavide riprende spunti dalla devozione per i discendenti del cugino di Muhammad e marito di sua figlia Fatima, ‘Ali, inaugurata in maniera importante in Iran nel secolo precedente, dominato dalla figura di Tamerlano il quale si considera spiritualmente e ideologicamente parte della Famiglia Alide.
Interessa in questa sede il fatto che la dinastia qui in oggetto si presenta come riformatrice e rivendica come suo carattere primario la devozione alla Famiglia del Profeta, come predica lo shi‘ismo.
Ciò a dire che la ben nota disputa per la successione al Profeta – che diventerà ratio della divisione della comunità fra sunniti e shi‘iti – avviene in prima battuta in ambito arabo e che l’Iran è, fino al Cinquecento, nella sua stragrande maggioranza sunnita, segue le dinamiche del potere in carica a Baghdad, dove domina il califfato sunnita, e diviene poi oggetto di conquista da parte di dinastie turche provenienti dall’Asia centrale, anch’esse per lo più sunnite.
Il dato che qui è da segnalare è di natura cultural-politica: l’Iran è sempre stato terra di conquista, ma il risultato finale è che esso ha sempre inglobato l’altro, almeno in termini culturali. Si deve rimarcare che nel wahhabismo, la forma di islam affermatasi nella Penisola Araba con la dinastia saudita – il nemico per eccellenza dell’Iran –, la parola shi‘a è poco usata e, quando lo è, si tratta spesso di un espediente per dire Iran, usando una terminologia che metta in risalto in primis la negatività del fenomeno, il suo essere fuori dell’islam.
Di qui, un’ulteriore ambiguità nel definire lo shi‘ismo da parte del suo alter ego, il wahhabismo, termine che equivale a dire Dinastia Saudita.
Non a caso, se si spoglia una bibliografia wahhabita sul tema qui in oggetto, anche l’aggettivo ‘imamita’ è tabù, visto che ‘Imam’ è incontrovertibilmente parola che non può essere cassata come ‘innovazione linguistica’, qualunque sia il significato che le si può attribuire. L’Iran in linea di principio ha una sua identità specifica a prescindere dal dato religioso.
Il paese ha una storia imperiale che non nasce con l’islam, ma che lo porta ad assimilare esperienze diverse, ‘iranizzandole’ e riportandole, in un modo o nell’altro, al suo DNA che legge la storia, la propria storia, in una linea di continuità.
Tale continuità viene elaborata in maniera diversa, ma il dato che non viene mai messo in discussione è appunto l’aspirazione del paese a configurarsi come impero, come dimostra tutta la sua storia anche recente. Il che è perfettamente logico, ed è su questa base che le specifiche declinazioni del significato di impero vanno collocate.
L’Iran è tra i primi paesi a essere sottomesso dagli arabi nel corso delle guerre di conquista dei primi musulmani.
Diventa protagonista culturale della neonata civiltà islamica e delle terre che entrano nell’orbita dell’islam nel momento di espansione.
Le conversioni permettono la formazione di un’entità culturale e politica prima ancora che economica quale l’impero abbaside, entità che senza l’apporto iranico non ci sarebbe stata.
Qui il discorso religioso diventa strumento, o meglio, componente essenziale dell’identità imperiale e dell’integrità del paese, che è sostanzialmente sunnita.
Lo shi‘ismo all’epoca è, infatti, praticato da una minoranza della popolazione. Bisognerà attendere il Cinquecento e l’avvento della dinastia Safavide, il cui fondatore, Isma‘il, impone lo shi‘ismo come religione di stato. Lo shi‘ismo contempla una sorta di clero (gli ulama, gli interpreti della religione) che non ha reale contropartita nel sunnismo: una cifra identitaria forte e protonazionale in senso moderno.
Nel pensiero dominante in termini ideologici, anche oggi lo shi‘ismo rappresenta la trascrizione islamica dell’iranicità come dato primario di quel processo che accoglie, senza traumi, ipotesi rivoluzionarie in senso proprio.
Lo dimostrano bene le vicende degli ultimi decenni: quelle, per l’appunto, che più ci interessano in questa sede e che ci preme segnalare perché sembrano continuare nel solco rivoluzionario che ha determinato la caduta dei Pahlavi, ma che ha avuto antecedenti importanti.
Si pensi al fatto che l’Iran conosce una Rivoluzione costituzionalista a inizio del ventesimo secolo, con uno scarto temporale poco significativo rispetto a quanto succede in Europa e in America con l’emergere dei vari nazionalismi.
Lo shi‘ismo, così come si propone in Iran, è cifra identitaria che evolve a seconda del contesto del momento. Facilita la cosa il ruolo dei dotti, gli ulama: una categoria di cui Khomeini in tempi relativamente recenti è stato modello esemplare.
Sulla base della conoscenza religiosa, questa si arroga la prerogativa di rappresentare la continuità nella gestione della comunità.
Sheikh Lotfollah Mosque, Isfahan, Iran
Tuttavia, il panorama ideologico, politico e religioso è variegato.
Un esempio. Sia pure in maniera diversa a seconda dei contesti politici, lo zoroastrismo continua a essere rivendicato oggi, almeno da parte delle classi alte, come espressione di iranicità indiscutibile e riferimento identitario generalizzato, mentre la religiosità shi‘ita resta la cornice entro cui tale fenomeno si colloca; senza la necessità di motivare nel dettaglio il processo per cui, per esempio, nello spirito popolare, una divinità femminile pre-islamica come Anahita, dea delle acque, trova riscontro nella figura di Fatima, figlia del Profeta Muhammad e moglie di suo cugino ‘Ali: tramite per il passaggio della luce profetica che ella trasmette dal padre ai figli che succederanno ad ‘Ali.
Lo shi‘ismo, che nasce dalla sconfitta delle aspirazioni al potere dei discendenti di ‘Ali, si struttura nel tempo come cifra identitaria del paese attraverso la benevolenza della corte.
Esso poggia su un patrimonio culturale consolidato su cui vanno collocati gli eventi rivoluzionari che hanno scandito la storia degli ultimi decenni: una storia che si configura contemporaneamente come un Risorgimento di antiche tradizioni e un ripensamento sul senso da dare al termine tradizione quale contenitore di specifici percorsi di modernizzazione; intesa, quest’ultima, come continuazione di una storia plurisecolare e, insieme, come sperimentazione di una lettura della modernità quale recupero di elementi identitari che lo shi‘ismo rappresenta in quanto contenitore culturale della tradizione.
Come a dire che le proposte di laicità degli iraniani oggi si possono interpretare non come rifiuto dell’islam, nella sua forma shi‘ita, ma piuttosto come una rilettura rivoluzionaria dell’idea stessa di religione: strumento di progresso e base di un’identità che va oltre il concetto di una semplice opposizione al regime quando questo si mostra inadeguato o nemico dell’ipotesi di un’ennesima rilettura di che cosa possa essere in terra d’islam il fenomeno religioso nel suo complesso; la via maestra per rivoluzionare l’esistente.
L’incertezza politica, che non è certo solo dell’Iran, rende difficile fare pronostici, ma impegna chi tenta di radunare analisi che possano aiutare a capire il momento odierno a privilegiare il dato politico-culturale, ipotizzando scenari possibili di collaborazione con altri approcci nell’individuazione di un percorso che sfati quei miti assurdi che influenzano pretestuosamente l’opinione pubblica occidentale.
Fonte: Geopolitica