Non piace al presidente Trump il pensiero magico di Fu-Manchu

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Fu Manchu ha una bocca crudele, una fronte ampia, delle sopracciglia arcuate, lo sguardo insidioso, vestiti pacchiani. È un uomo colto, ha più lauree, tutte prese in Occidente, ma è dotato di un pensiero magico che mescola sapienza scientifica e superstizione.

 The Insidious dr. Fu ManchuCosì lo descrive il suo autore Sax Rohmer. È una quinta colonna, un infiltrato in occidente, uno che studia l’uomo bianco per mangiarselo, un po’ come in quelle vignette dove i cinesi nell’ottocento si “pappavano” lo Zio Sam.
Anti immigrazione abbuffata di zio sam copyFu Manchu prepara di fatto l’invasione e il prossimo dominio cinese sull’umanità. 
Solo Nayland Smith, il bianco e spesso biondo (un Trump ante litteram?) investigatore di Scotland Yard, è l’ultimo baluardo contro il nemico più nemico di tutti.
 
La saga di Fu Manchu avrà un successo senza precedenti, soprattutto al cinema.
Negli annali è rimasto il Fu Manchu di Boris Karloff del 1934, ma anche quello di Cristopher Lee degli anni sessanta, dove la Cina nemica è quella di Mao Zedong.
Con Fu Manchu Hollywood inaugura una pratica che ha continuato a seguire quasi fino ai giorni nostri, ovvero quella della Cina “da indossare”: lo yellowface, ovvero l’abitudine di truccare gli attori bianchi da cinesi e successivamente da giapponesi.
Vedere l’elenco di attori hollywoodiani famosi che hanno recitato in yellowface fa una certa impressione:
Marlon Brando è Sakini in La casa da tè alla luna d’agosto, Katherine Hepburn fa la contadina cinese in La stirpe del drago, Mickey Rooney è il goffo signor Yunioshi che Audrey Hepburn prende in giro senza riserve in Colazione da Tiffany, per non parlare poi di un improbabile John Wayne che fa Gengis Khan in Il conquistatore.
Gli attori si sottoponevano alla tortura di clip applicate agli occhi (o fasce adesive) per ricreare gli occhi a mandorla, per non parlare dell’uso smodato di fondo tinta e accento ridicolo.

Fu Manchu e Dragon Lady
Se da una parte c’era Fu Manchu e il suo corrispettivo femminile, la Dragon Lady sensuale che però era meglio uccidere e fare a pezzi piuttosto che amare, dall’altra l’America wasp cercava di rassicurarsi con figure grassottelle, innocue e paciose come Charlie Chan o come le tante cinesi o giapponesi che nelle trame dei film erano sempre innamorate di un bianco che non le avrebbe sposate mai e le avrebbe solo portate al suicidio. Le donne orientali erano o Turandot o Madama Butterfly.

I pochi attori asiatico-americani (da ricordare su tutte la grandissima Anna May Wong) avevano vita dura a Hollywood.
Non avevano quasi scelta: accettare lo stereotipo o soccombere. La rappresentazione dell’altro non era mai innocua, ma avallava l’inferiorizzazione di una comunità usata e abusata da un sistema capitalistico che non voleva pacificare i conflitti, ma preferiva esasperarli per guadagnarci sopra.
Fu Manchu e i suoi eponimi (pensiamo al Dr No della Spectre di 007 Licenza di uccidere, un meticcio cinese, quindi doppiamente pericoloso, o a Ming, lo spietato di Flash Gordon che fu il modello per George Lucas nella creazione di Darth Vader e di Palpatine erano di fatto solo ingranaggi di un sistema che trovava sempre nuovi nemici pronti all’uso di un capitalismo brutale.
 
Non a caso Jean Pfaelzer, nel suo libro Driven out: the forgotten war against chinese americans, parla di guerra. Perché quello di cui di volta in volta sono protagonisti i migranti, di ieri o di oggi, sono guerre ai loro danni. Negli Stati Uniti come in Italia, in Francia come in Australia.
Il muro che Trump vuole costruire non ha come vero scopo quello di fermare i migranti, ma solo quello di farli diventare più fragili e ricattabili una volta messo piede nel territorio americano.
 

Per capire Trump gli anni trenta del secolo scorso sono certamente utili, ma fare un passo indietro al 1882 potrebbe chiarire meglio quello che succederà nelle prossime puntate.

Tornare al 1882 e al Chinese exclusion act, è storia apparentemente lontana e permette di capire quale ruolo ha giocato il substrato razzista autoctono, quello made in Usa per capirsi.

Se nei quarantanni precedenti i cinesi rispondevano perfettamente alle esigenze dell’America, che proprio intorno al 1840 stava vivendo la frenesia della febbre dell’oro. La corsa all’oro interessò soprattutto la California. E creò nell’immediato, come racconta Iris Chang in The chinese in America, una fame di infrastrutture come non si era mai registrata prima negli Stati Uniti. Servivano nuove abitazioni, nuovi empori e serviva soprattutto la ferrovia. Come i tanti film western sulla frontiera ci hanno insegnato, la rete ferroviaria negli Stati Uniti fu un affare serissimo.
Un affare che mise lo stato contro i vecchi latifondisti, la modernità contro un passato essenzialmente rurale.
I treni dovevano collegare tra loro territori lontani e impervi. Quello che non ci raccontano i film western, però, è che chilometri interi di queste ferrovie furono costruire dai cinesi: senza questa immigrazione la Transcontinental railroad (che univa gli stati della costa atlantica con la California e l’oceano Pacifico) non avrebbe visto la luce.
 
I cinesi costavano pochissimo ai nuovi padroni americani. Non erano sindacalizzati ed erano, a detta di tutti, molto efficienti.
Di loro si diceva che “non si stancavano mai” e che “erano docili come agnellini”. Per molti, che avevano assistito al crollo del sistema schiavistico, furono degni sostituti degli schiavi neri, anzi meno riottosi e più obbedienti. Questo giudizio positivo si accompagnò anche a delle facilitazioni legislative. Il trattato di Burlingame tra Cina e Stati Uniti garantiva agli immigrati cinesi gli stessi diritti dei residenti e li proteggeva da sfruttamento, discriminazione e violenza. “Nessuno potrà più picchiare un cinese”, disse un Mark Twain particolarmente gioioso all’annuncio del trattato nel 1868 . Twain, che anni dopo denunciò i maltrattamenti coloniali nel Congo di re Leopoldo, era disgustato dall’atteggiamento della legge verso i cinesi. Nonostante le violenze subite non aveva mai visto un poliziotto accorrere in loro difesa. Schiavi senza diritti, che Twain sperava di poter vedere finalmente liberi grazie al trattato di Burlingame.

La realtà invece fu ben diversa. D’improvviso i cinesi diventarono il nemico. Non più docili, servizievoli, gentili, ma oppiomani, furbi, loschi, pedofili, manipolatori, portatori di malattie, repellenti e che in più facevano troppi figli. Questo perché avevano cercato di migliorare la loro vita aprendo piccoli empori, ma soprattutto perché il grosso del lavoro per cui erano andati negli Stati Uniti era finito.

Le pedate dello Zio Sam da virtuali diventarono fin troppo concrete. Centocinquanta bianchi armati a Rock Spring bruciarono le case di cittadini cinesi. La stessa furia investì città come Denver, Seattle, Tacoma, Washington.
Il linciaggio di Los Angeles del 1871 rimase negli annali per la crudeltà con cui fu commesso. Venti corpi, tra cui alcuni di adolescenti, rimasero a terra, appesi ai lampioni, straziati in mille modi. Calle de Los Negros, una via stretta dove erano ammassati empori, lavanderie, bordelli, abitazioni fu messa a ferro e a fuoco. Ed è in questo clima di odio continuo e crescente che si sviluppò il Chinese exclusion act, una delle leggi più infami di tutta la legislazione americana, cancellata solo nel 1943.

Fonte: INTERNAZIONALE di Igiaba Scego

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