Una premessa è necessaria. Il nazismo è stato sconfitto soprattutto perchè l’Unione sovietica si è accollata il tributo di sangue (20 milioni di morti e distruzioni immani) che le democrazie occidentali non volevano o non potevano affrontare. Anche lo sbarco in Normandia, che giustamente meraviglia ed emoziona l’Occidente, è stato possibile solo perchè l’Armata Rossa aveva prima “sbudellato” (per usare le parole di Winston Churchill) l’esercito tedesco.
Nella lotta antinazista l’Occidente ha fornito la tecnologia e le risorse, l’Urss il sangue. Questo non lo si può negare. Può non piacere, ma è così: per sconfiggere una dittatura sanguinaria, ce ne è voluta un’altra altrettanto priva di scrupoli e remore con le vite proprie e altrui. Lo sapevano benissimo i leader americani e inglesi (che erano scesi in guerra nominalmente per salvare la Polonia).
Se Stalin si convinceva a fare qualunque cosa con le buone, perchè ci vedeva un tornaconto politico, bene. Altrimenti nella sua sfera di influenza andava lasciato fare, almeno finchè la Germania non fosse stata sconfitta.
Così fu per la rivolta di Varsavia.
E se i russi avessero soccorso gli insorti e i tedeschi fossero stati costretti a sloggiare, nulla garantiva che poi Stalin si sarebbe astenuto dal disarmare e liquidare a sua volta l’esercito clandestino, non appena ottenuto il controllo della città. Ma non ne ebbe bisogno, lasciò fare il lavoro sporco alle SS.
In ogni caso il destino della Polonia non sarebbe cambiato di una virgola: doveva far parte della sfera di influenza sovietica e ne fece parte, fino al 1989.
La rivolta polacca, la si può guardare con ammirazione, ma fu il frutto indifendibile degli intrighi, delle politiche e degli interessi, delle maggiori forze in campo e costò migliaia di vite e spaventose sofferenze.
L’insurrezione, costò la vita a 15 mila 200 combattenti polacchi (compresi i dispersi), che contarono anche 5 mila feriti e 15 mila prigionieri.
Le perdite civili, tra gli abitanti di Varsavia, sono stimate in 200 mila, molti uccisi con enorme crudeltà, mentre altri 55 mila furono inviati in campo di concentramento (13 mila ad Auschwitz) e 700.000 in totale furono costretti ad abbandonare la città, i cui edifici sulla riva sinistra della Vistola alla fine della guerra risultavano distrutti all’85 per cento. Gli omicidi sulla popolazione avevano l’intento di distruggere la forza vitale della città, e metterla in ginocchio.
La gente veniva raccolta nei capannoni delle fabbriche, nelle chiese e in altri grandi edifici e poi uccisa a sangue freddo, addosso ai muri dei palazzi. Atti spregevoli che hanno dato luogo alla fucilazione di intere famiglie con neonati. I cadaveri venivano ammassati in grandi pile a cui poi veniva appiccato il fuoco. Di questo compito se ne occupava il Verbrennungskommando Warschau, costituito dai prigionieri delle SS.
Le perdite tedesche furono di 16 mila tra morti e dispersi, 9.000 feriti e 2 mila prigionieri ( mille dei quali liberati dopo la resa polacca).
La rivolta di Varsavia scoppia mentre i Sovietici, vittoriosi dopo l’offensiva Bagration si stanno avvicinando a Varsavia.
Scoppia perché i polacchi che operavano sui vari fronti della resistenza, che obbedivano agli ordini del governo in esilio a Londra, volevano liberare la città prima dell’arrivo dell’Armata Rossa.
Dai tetti della case di Varsavia era possibile vedere gli accampamenti dei sovietici; l’avanzata russa sembrava potente e inarrestabile e i nazisti, consapevoli dell’imminente attacco nemico, sembravano in preda al panico e in procinto di abbandonare la capitale polacca.
L’idea di una insurrezione contro i tedeschi era legittimata dalla convinzione che, in caso di difficoltà, i sovietici sarebbero intervenuti in soccorso dei polacchi. Quindi sempre su iniziativa del governo polacco in esilio a Londra i vari fronti della resistenza polacca si accorparono sotto il nome di Armia Krajowa e scatenarono la rivolta di Varsavia.
Mosca aveva rotto i rapporti diplomatici con i polacchi di Londra, dopo che questi si erano rifiutati di prendere per buone le affermazioni di Stalin sulla responsabilità tedesca del massacro di Katyn, l’uccisione di oltre 21 mila ufficiali e civili polacchi a opera della polizia segreta sovietica nell’aprile-maggio 1940 allo scopo di indebolire la Polonia (appena occupata congiuntamente da tedeschi e sovietici) sterminandone le classi dirigenti.
Le fosse comuni di Katyn furono scoperte dai tedeschi nell’aprile 1943 e denunciate al mondo, ma Stalin ne negò risolutamente la responsabilità (ammessa in piccolissima parte nel 1990 dall'Unione Sovietica di Boris Eltsin smanioso del sostegno occidentale pur di conservare la carica di presidente dell'Urss). Per la cronaca, Mosca aveva costituito un proprio governo polacco in esilio - il cosiddetto Comitato di Lublino -, composto da fuoriusciti polacchi comunisti.
La rivolta di Varsavia scoppiò alle 17 del 1º agosto e colse di sorpresa i soldati tedeschi. Tuttavia l' Armia Krajowa (AK) comandata da Tadeusz Komorowski poteva contare solamente su poche armi, alcune mitragliatrici e pistole, bottiglie di vetro e ombrelli a punta. L’addestramento era approssimativo, e i primi attacchi finirono in bagni di sangue e perdita di uomini.
Così il comandante
Komorowski, detto Bor, (dal 1947 al 1949 sarà primo Ministro del governo in esilio della Polonia) che disponeva di circa 45 mila uomini, fu costretto a ripiegare sulla guerriglia urbana, mentre il comando delle operazioni tedesche fu affidato al generale delle SS
Erich von dem Bach.
La resa dell’AK fu siglata il 2 ottobre 1944 da Komorowski e da von dem Bach. I tedeschi riconobbero agli insorti ed ai civili catturati lo status di prigionieri di guerra, tutelati quindi dalla convenzione di Ginevra, ma imposero la deportazione di quasi mezzo milione di persone in previsione dell’esecuzione di uno dei più insensati ordini di Adolf Hitler: la totale distruzione della città di Varsavia.
Una volta sgomberata dalla popolazione, Varsavia fu distrutta, casa per casa, da corpi delle SS sottratti al combattimento per tale scopo; solo nel gennaio del 1945 l’Armata Rossa arrivò nella capitale abbandonata dai tedeschi e ridotta in macerie. Il tragico epilogo della rivolta incrinò i rapporti fra gli Alleati ed il governo polacco che il 3 ottobre 1944 rilasciò il seguente comunicato:
“Non abbiamo ricevuto alcun sostegno effettivo… Siamo stati trattati peggio degli alleati di Hitler in Romania, in Italia e in Finlandia. La nostra rivolta avviene in un momento in cui i nostri soldati all’estero stanno contribuendo alla liberazione di Francia, Belgio e Olanda. Ci riserviamo di non esprimere giudizi su questa tragedia, ma possa la giustizia di Dio pronunciare un verdetto sull’errore terribile col quale la nazione polacca si è scontrata e possa Egli punirne gli artefici.”
La scarsa considerazione che il Comando degli Alleati aveva per le richieste polacche a fronte di quelle russe, del resto, era già stata evidenziata ai tempi della Conferenza di Teheran, avvenuta nove mesi prima dell’inizio della rivolta, dove Churchill, Stalin e Roosevelt si erano accordati perché la Russia mantenesse i territori polacchi acquisiti nell’invasione del 1939 e inglobasse il resto della Polonia nella propria orbita, ma il governo polacco venne a sapere di tali decisioni solo durante la Conferenza di Yalta, a guerra ormai conclusa.
Si spiega così perchè l'Armia Krajowa sia diventata nell'immaginario polacco il simbolo della difesa della Nazione dai "barbari" che la circondano. Sarà evocata sovente dagli operai del sindacato Solidarnosc durante le giornate di sciopero nei cantieri navali di Danzica (1980), ma anche dopo. Comparve in ogni omelia papa Wojtyla durante il suo primo pellegrinaggio a Varsavia (1979).
Viene in mente il primo discorso del cancelliere tedesco Konrad Adenauer al Parlamento di Bonn il 20 settembre 1949 (riportato da Tony Judt in Postwar) a proposito dell’eredità nazista:
“Il governo della Repubblica Federale, nella convinzione che molti hanno fatto ammenda da soli (…) , è determinato, dove ciò appare accettabile, a fare il possibile per mettere il passato dietro le spalle”.
Il massacro di decine di migliaia di ebrei, polacchi, russi, bielorussi era in tutta evidenza considerato accettabile, quello di alcuni tedeschi no.
Adenauer aveva forse ottime ragioni per essere prudente nel processo di denazificazione.
Non è possibile condannare un intero popolo se si vuole ricostruire, nè si ricostruisce con i complessi di colpa.
Ma il passato è duro a morire, come è dimostrato dal fatto che ancora nel 1967 il 32 per cento dei tedeschi era convinto che Hitler sarebbe stato uno dei più grandi statisti tedeschi “se non fosse stato per la guerra”.
Uno stato d’animo, del resto, che anche in Italia conosciamo bene. E va riconosciuto che a partire dagli anni Settanta e Ottanta la Germania (a differenza dell’Austria) ha fatto sforzi sinceri per fare i conti con il proprio tremendo passato.
Mai riuscito a rispondere compiutamente alle uniche importanti domande della vita: “quanto costa?”, “quanto ci guadagno?”. Quindi “so e non so perché lo faccio …” ma lo devo fare perché sono curioso. Assecondami.