Quando i profughi andavamo a cercarceli
Si concludono in questi giorni le celebrazioni per il centenario della fine della prima guerra mondiale. Tra battaglie rievocate, generali riabilitati, eroi riesumati, i filmati, gli articoli e i libri poco spazio hanno dedicato alle vittime ignote cioè a quei circa, ma i numeri sono sempre ballerini, 6-9 milioni di civili che ci lasciarono la pelle. Buona parte di queste vittime appartenevano alle fasce più deboli della popolazione: bambini e donne.
Durante la guerra nelle zone al fronte la loro presenza era stata rimossa, sia nel senso fisico (si pensi all’esodo di profughi che si mossero lungo gli sterminati confini dove si combatteva), sia in quello umanitario. Il governo italiano si rifiutò ad esempio di considerare la possibilità (siamo nel dicembre 1917) di trasferire i bambini delle terre invase in Italia o in Svizzera perché, come affermò Sidney Sonnino, un tale provvedimento avrebbe offerto al nemico l’opportunità di disfarsi di “tante bocche inutili”. Nel dopoguerra la loro situazione peggiorò soprattutto nei paesi sconfitti nei quali alle distruzioni si aggiungeva la carestia.
Furono le relazioni dei vincitori a spiegare bene la situazione: “in una grande città come Berlino si può affermare che due terzi della popolazione sono al di sotto del livello di sopravvivenza” (Report on Food Conditions in Germany, High Majesty Stationery Office, London 1919). A Vienna nel 1920 su 200 mila bambini esaminati dai centri sanitari della capitale, solo il 3,3% non presentava segni di denutrizione e nel 46,7% dei casi essi potevano definirsi gravi. Il capo del contingente militare britannico in Austria-Ungheria scrisse nel suo rapporto che se a Vienna non fossero stati inviati immediatamente rifornimenti in quantità adeguata, il 10% della popolazione non avrebbe superato l’inverno. “In 15 anni di esperienza professionale in India – dichiarò – mai avevo visto simili sofferenze.”
In Ungheria la Croce Rossa prevedeva che oltre un terzo dei neonati non avrebbe raggiunto l’anno di vita e quella polacca descriveva bambini morti assiderati sui corpi nudi delle madri che si erano private dei propri abiti nel disperato tentativo di ripararli dal gelo. In Serbia, in Romania, in Grecia, in Polonia gli osservatori internazionali segnalarono che era difficile incontrare bambini piccoli.
In questo quadro alcune organizzazioni, quasi tutte femminili, si impegnarono per cercare una soluzione e ad esempio nel 1919 Eglantyne Jebb fonda l’organizzazione Save the Children ottenendo l’appoggio anche di Papa Benedetto XV che il 24 novembre 1919 diffuse l’enciclica Paterno iam diu, invitando i cattolici a raccogliere aiuti. Vi fu un vasto movimento internazionale di solidarietà fondamentalmente legato all’iniziativa di associazioni private. Si sperimenta in questi anni per la prima volta l’adozione a distanza mentre migliaia di bambini vengono ospitati fuori dai confini patri come “profughi temporanei”. Per quel che riguarda Vienna l’impegno durò alcuni anni e riguardò circa 200 mila minori. Tra il settembre 1919 e l’aprile 1920 il vice sindaco di Vienna Max Winter riferì queste statistiche: 79.793 i minori profughi che avevano viaggiato all’estero, la più parte in paesi neutrali durante il conflitto ed in particolare in Svizzera (con 26.973 bambini ospitati), Olanda (19.942), Germania (12.621), Danimarca (5.490), Svezia (5.190), Norvegia (2.732), Cecoslovacchia (382).
Anche una parte dell’Italia si mobilita ma nel nostro caso la scelta è tutta politica, infatti il valore simbolico di accogliere in Italia i figli del nemico storico a pochi mesi dalla fine del conflitto non può essere ridotto a semplice carità umana. Fu il Comitato di assistenza, nato in origine per soccorrere i bambini italiani profughi dell’area del Piave, della Lega dei Comuni Socialisti (i sindaci socialisti erano fuoriusciti dall’ANCI) a rispondere alle richieste viennesi.
“L’Italia, dopo i Paesi neutrali, è il primo Stato tra quelli già belligeranti che mette i nostri bambini sotto la sua protezione. E questo è un segno che ci rallegra in quanto dimostra che, dopo una guerra spietata, ora la solidarietà umana riconquista finalmente diritto di cittadinanza”, commentò un comunicato della città di Vienna.
Milano, che pure aveva avuto 10.000 morti, 24.000 nella provincia e più di 80.000 in tutta la Lombardia (a livello nazionale 200.000 furono le vedove e 300.000 gli orfani di guerra) fu in prima fila. Inizialmente si era pensato di inviare solo viveri: “Ma a che serve, se non abbiamo il carbone per cuocerli?”, risposero da Vienna; allora, alle 12 del 25 dicembre 1919, il sindaco Caldara arrivò nella capitale austriaca con un treno italiano, alla guida di una delegazione di sindaci socialisti (di li a poco arriverà anche il treno degli emiliani con gli amministratori di Bologna, Imola, Ravenna tra gli altri), per imbarcare i primi 600 bambini.
In totale in Italia arrivarono in totale 6.393 bambini viennesi, di questi oltre 2.000 furono smistati dall’Umanitaria per incarico di Caldara che così scrisse nella relazione di fine mandato: «Dal dicembre 1919 al maggio 1920 il Comune di Milano, accogliendo il grido di dolore giunto da Vienna, prendeva l’iniziativa di portare in Italia 2.224 bambini denutriti di quella città. Di questi, cinquecento vennero assunti a completo carico comunale per quattro mesi e gli altri a cura del nostro comune furono consegnati ai comuni di Cremona, Alessandria, Legnano, Novara, Codogno, Busto Arsizio, Castel San Giovanni, Borgo Nuovo Val Tidone, Fontanellato, alle Organizzazioni Operaie di Torino, di Sestri Ponente ed ai Tramvieri di Milano nonché ad alcune Istituzioni di pubblica beneficenza.
Tutti questi Enti e Comitati hanno avuto cure fraterne per le vittime lacrimevoli ed innocenti del conflitto europeo assistendo i bambini al mare ed alle Colonie climatiche. Il fatto nuovo ed eloquente che dimostra l’importanza di questa iniziativa di carattere internazionale si ebbe nello slancio dimostrato dai proletari italiani e specialmente piemontesi e liguri e lombardi che diedero somme fortissime e lavoro appassionato perché l’opera fosse coronata dei migliori risultati».*
Il clima di queste “adozioni” è fortemente politicizzato. Così come dirà il socialdemocratico sindaco di Vienna, è il “proletariato” che li ospita, sono “le donne della sezione femminile socialista a promuovere una festa a Casaglia, cui partecipa la banda municipale, si canta in italiano e in tedesco guidati dalle maestre bolognesi e viennesi, e si conclude intonando l’Internazionale”, mentre la delegazione del municipio viennese, venuta per verificare la situazione, per prima cosa si reca ad omaggiare la tomba di Andrea Costa con fanfara al seguito. A Vienna andranno solo amministratori socialisti (da Carlo Azimonti di Busto Arsizio a Tranquillo Ercoli di Codogno a Giorgio Palazzi di Reggio Emilia a Mario Longhena di Bologna).
L’ospitalità serve a ribadire le ragioni di chi era stato neutralista prima, e che vedeva nel dopoguerra una possibilità di palingenesi mondiale, vuoi nella versione “rivoluzionaria”, vuoi in quella wilsoniana (una sorta di globalizzazione del progresso). Insomma, era l’applicazione pratica dell’internazionalismo.
Ambivalenti furono le analisi degli ambienti non socialisti. Indicativo in questo senso l’editoriale de “La Stampa” del primo gennaio 1920: “Molti padri di quei bambini hanno ucciso il padre ai nostri figlioli; molti di essi ebbero il padre ucciso da padri italiani. Oggi le madri nostre stringono al seno le vittime innocenti degli uni e degli altri e li bagnano tutti delle loro lagrime vedovili”, mentre relativamente favorevole fu il papato. Il governo in parte sfruttò questa iniziativa nelle trattative post belliche per allacciare relazioni diplomatiche con la neonata Repubblica austriaca, in parte tramite i prefetti invitò i sindaci a non proseguire nell’iniziativa.
In prima fila nelle critiche che stigmatizzavano l’anti italianità di questo progetto il principe dei sovranisti di allora (e di oggi) Mussolini, che volle una risposta propagandistica all’attività di Caldara e Zanardi e nel febbraio del 1920, con il Comitato centrale dei Fasci di combattimento di Milano, organizzò l’arrivo in città di duecentocinquanta bambini di Fiume (si era nel pieno dell’avventura dannunziana). Una contrapposizione sovranisti/nazionalisti versus globalisti/internazionalisti che ci ricorda l’oggi.
Del resto il ritorno alla normalità non era facile e doveva fare conto con le profonde contraddizioni post belliche, mentre in parlamento per iniziativa dei deputati socialisti milanesi Marangoni e Lazzeri si parlava del riconoscimento come vedova di guerra della convivente more uxorio ai fini pensionistici e del riconoscimento della prole, il Popolo d’Italia parlava di “dovere dell’aborto” per le donne “che partorivano bastardi tedeschi” e a Portogruaro apriva il primo di una serie di Ospizi per “i figli della colpa”. Dopo alcuni mesi l’ospitalità terminò e Caldara in persona volle riaccompagnare i bimbi a Vienna.
Il coinvolgimento umano e personale del sindaco è ben descritto da Filippo Turati in una lettera ad Anna Kuliscioff: “Alla stazione di Milano c’erano la signora Caldara con la figliola e con una bimba boema di otto o dieci anni, un vero amore, che Caldara prese con sé fra i famosi bimbi viennesi, che ora dovrebbe tornare a Praga, ma che si è tanto affezionata che non vuole più tornar via. Ricorda bensì i suoi genitori, ma vuole che siano chiamati qui ed essa restare a Milano. Il che è un po’ troppo. Insomma sarà un affare serio separarsene, tanto più che anche loro le si sono affezionati. Parla già, dopo due mesi un po’ d’italiano, e persino di milanese, ma fu tutta felice che io le infilassi quattro parole in tedesco.”
Bambini viennesi mentre scendono dal treno (Città di Milano, Dicembre 1919)
Di quel viaggio Caldara ricorderà la visita alle case dei genitori dei bambini (4 morirono durante la permanenza a Milano) dove ad un tratto si levò un coro: “L’Internazionale, cantata a gran voce da una ventina di fanciulli, in buona lingua italiana… da allora in poi, sempre quando gli uomini e le cose sembrano congiurare ai danni della fratellanza umana, io più che attingere sicurezza di convinzione negli insegnamenti della storia e della scienza, chiedo forza di fede all’episodio di Vienna.”
Ricordare questo episodio tutto sommato minore nella immane tragedia di quegli anni può essere di utile esempio ai nostri amministratori attuali.
Fonte: Arcipelago Milano