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L’Italia del M5S in stile Maduro come in Venezuela

 

mpvimentoNon è certo il tipo da buttarsi giù, per così poco, da una delle 400 finestre di Castelbrando, l’antico maniero che ha trasformato in hotel di lusso a Cison di Valmarino (Treviso). Però Massimo Colomban, 68 anni, fino allo scorso ottobre assessore alle Partecipate del Comune di Roma, sprizza amarezza da tutti i pori, seppure tamponata con velluti veneti: «Beppe Grillo mi presentava così: “Ecco il nostro superministro dell’Economia”. Mi pregò di aiutare il sindaco Virginia Raggi, con l’intesa che poi avrei scritto il programma di riforme per l’Italia. Diceva di volerlo mettere ai voti sulla piattaforma Rousseau. Invece... Non sono riuscito a cambiare né lui né il Movimento 5 Stelle».

 

Da qualche giorno la delusione di Colomban ha raggiunto il diapason: «Parlamentari che non versavano i rimborsi sulle loro indennità; miserabili vicende di scontrini e di pasti; David Borrelli, un amico, numero 3 del M5S, che a Strasburgo si dimette dal gruppo adducendo motivi di salute... Sembra di leggere le cronache di un partito qualunque. Che tristezza».

 

Di imprese difficili il fondatore e presidente onorario della Permasteelisa, multinazionale delle costruzioni, ne ha compiute parecchie e tutti gli riconoscono una notevole abilità nel dare forma ai sogni dei visionari, come ha fatto con le archistar Frank Gehry, Norman Foster e Richard Rogers: sono made in Treviso la Freedom Tower e altre due delle cinque torri sorte attorno al cratere di Ground Zero, le vele della Sydney opera house in Australia, le sedi del Parlamento europeo a Strasburgo e Bruxelles e quella della Apple a Cupertino, a forma di astronave, una commessa da circa 400 milioni di dollari. Ma in politica il sarto dei grattacieli ha dovuto deporre ago e filo: «Più facile vestire gli edifici con vetro e metallo – facciate continue, si chiamano – che togliere la camicia rossa ai grillini».

 

Colomban pensava di applicare la sua teoria: «Fino ai 30 anni s’impara, fino ai 60 si fa, fino ai 90 s’insegna». Voleva lasciare in eredità al M5S un patrimonio di esperienza, come quando regalò il 40 per cento di Permasteelisa agli 83 manager più meritevoli (il resto delle azioni, in parte proprie, era quotato alle Borse di Milano e Singapore). «Mia moglie Ivana, a distanza di 20 anni, ancora mi rimbrotta: “Sei stato troppo generoso”. Ma non si è mai troppo generosi».

 

 

Come ha conosciuto Beppe Grillo?

«Attraverso Gianroberto Casaleggio. Poco prima delle elezioni politiche del 2013 mi telefonò, raccontandomi della nonna nata a Oderzo.

Era rimasto impressionato dal programma del mio movimento Rete SI, acronimo di Salviamo l’Italia. “Voglio adottarlo”, mi disse. Venne a trovarmi con Grillo al Bhr hotel di Treviso. Portò il figlio Davide, che ascoltava senza intervenire.

In seguito anche Luigi Di Maio è salito a Castelbrando per chiedermi suggerimenti».

 

 

Che impressione le fece Grillo

«Un istrione e un sognatore. Di economia capisce poco. Adatta il socialismo reale al terzo millennio.

Tende a mandare in vacca gli argomenti. Se affronti una questione seria, svia il discorso, prende tempo».

 

Ma se ne andrà dal M5S o resterà?

«Il 95 per cento delle decisioni le prende lui. Nessuno ha il coraggio di contraddirlo. Chi lo fa, viene messo in disparte».

 

Che tipo di Italia si prefigura Grillo?

«Ha presente la Città del Sole immaginata da Tommaso Campanella? Utopia pura. Mi toccava riportarlo con i piedi per terra. Beppe, questo lo faranno i nostri nipoti, lo raffreddavo. Per lui le auto devono essere tutte elettriche e in grado, marciando, di produrre un surplus di energia che illumini le città».

 

L’elettricità si ricava dagli idrocarburi.

«“Tu ami suv e gru”, mi prendeva in giro. Io gli rispondevo che la Silicon Valley è avveniristica perché prima i vari Steve Jobs hanno fatto i soldi con cui costruirla. Il fatto è che Grillo disegna un modello di società che non deve creare ricchezza. E pretende che a guidarlo sia solo lo Stato, con la Cassa depositi e prestiti a finanziare le imprese».

 

Un vecchio comunista.

«L’ha detto lei».

 

Suona come una conferma.

«È un fatto che Casaleggio, alla fine di un raduno al Circo Massimo, invitò i presenti a intonare Bandiera rossa e fui costretto a dissociarmi. Beppe mi dà del nazileghista. Durante le nostre colazioni all’hotel Forum di Roma gli ho affibbiato vari soprannomi: Raúl, come il fratello di Fidel Castro, Chávez, Maduro. Vuoi ridurmi l’Italia come il Venezuela, lo rimproveravo. Una cosa è sicura: se arriva al governo, lo sviluppo si ferma. Grillo pensa che sia un pericolo».

 

Per questo lei se n’è andato? 

«Ho esaurito la pazienza. Pretendeva di convertirmi alla sua filosofia. O a quella del sociologo Domenico De Masi, che per il 2025 prevede un saldo negativo di 9 milioni fra i posti di lavoro creati e quelli distrutti dai robot. Una tesi per giustificare il reddito di cittadinanza. E io a dirgli: Beppe, ma chi paga? Non lo spiega. Però si capisce benissimo dove andrà a parare».

 

Dove?

«Tassa sui patrimoni. Tassa sulle eredità. Tassa sulle rendite speculative».

 

È come Robin Hood. Toglie ai ricchi per dare ai poveri.

«Raffronto improprio. Togliere alle imprese per dare a chi non fa neppure la fatica di cercarsi un lavoro, è una follia».

 

A quanto ammonta il deficit di Roma?

«A circa 15 miliardi di euro. Ogni anno le partecipate lo aggravano di 500 milioni, una perdita generata per il 90 per cento dall’Atac. Mi sono ritrovato a gestire 13 sigle sindacali e autisti pagati per sei ore al giorno che prestavano servizio per quattro».

 

È dura per un veneto governare la Capitale? 

«Il primo giorno arrivai in Campidoglio alle 8. Gli uscieri erano ancora senza giacca e senza cravatta. Il mio dipartimento funzionava come un’azienda, orario continuato fino alle 20. Unico svago: i 40 minuti di corsa alle 6 del mattino, tra Fori imperiali e Colosseo, con il mio braccio destro Paolo Simioni, che oggi è amministratore delegato dell’Atac».

 

Un marziano a Roma. L’episodio più surreale?

«In via della Madonna dei Monti, dove abitavo, mi ero stufato di vedere cicche per strada e auto parcheggiate sulle strisce pedonali. Con il permesso del sindaco, convocai Diego Porta, il comandante dei vigili urbani. Gli dissi: lo sa che a Conegliano chi getta a terra una sigaretta paga 300 euro di multa? Strabuzzò gli occhi: “Dotto’, qui nun se po fa’!”. Allora mandi almeno gli agenti a controllare se bar e ristoranti pagano il plateatico per i tavolini all’aperto, insistetti. Con Grillo alla fine avevo individuato un generale a riposo che ristabilisse legge e ordine, come fece Rudolph Giuliani a New York. “Ma voi siete matti!”, insorse Virginia Raggi».

 

Ma è riuscito a combinare qualcosa di buono?

«Grazie alla legge Madia, ho deliberato la chiusura di 20 delle 31 aziende partecipate, senza licenziare nessuno. In Permasteelisa avevo 42 società in quattro continenti e una sola regola: the best is the standard, la migliore è il modello. Ho ordinato una comparazione fra le città metropolitane. Milano ha gli stessi abitanti dell’area di Roma e vanta una produttività dal 15 al 30 per cento superiore alla Capitale. Se non si riparte da qui, è tempo sprecato».

 

Chi comanda nella Città Eterna? Il sindaco? Il Papa? Francesco Gaetano Caltagirone?

«La burocrazia. Più del sindaco, più dei ministri. Il Papa non fa sentire il suo peso, al contrario dell’editore Caltagirone, che tiene un profilo basso però mette sul piatto della bilancia Il Messaggero e il suo 5 per cento in Acea, la società multiservizi che eroga acqua, luce e gas».

 

Luigi Di Maio sarebbe un buon premier?

«È uno dei migliori. Ma è circondato da troppi pasdaran. Ha le idee giuste. Bisogna vedere se Grillo gli consentirà di applicarle all’economia».

 

Lei lo voterà?

 «Sono un liberal-sociale. Dobbiamo produrre più di quello che consumiamo. Non credo nei sogni social-comunisti».

 Colomban

 

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