La protesta delle donne di Rosenstrasse
Sfidarono il Führer lo sconfissero eppure la loro vicenda è scivolata nelle pieghe della storiografia ufficiale.
Sono le donne di Rosenstrasse, una folla anonima e multiforme di madri, mogli, zie e sorelle che nel marzo del 1943, in una Berlino prostrata dalla guerra, misero in scena un gesto assolutamente straordinario nella Germania imbrigliata da Hitler: una protesta pubblica contro la reclusione dei famigliari ebrei destinati alla deportazione "verso Est".
Dimostrazione quasi dissennata per il carico di rischio, che per di più ebbe un epilogo felice, con i prigionieri presto in libertà.
Aristocratiche e operaie, sprovvedute e combattive, fragili o audaci, motivate o inconsapevoli, le donne di Rosenstrasse scoprirono la solidarietà occupando il marciapiede a due passi da Alexanderplatz, davanti all'ufficio amministrativo della Comunità ebraica dove le SS avevano condotto i loro mariti - ma anche fratelli, figli, cognati o semplici conoscenti -, tutte loro mogli "ariane" di coniugi ebrei o madri di ebrei "mezzosangue".
Per due settimane, in centinaia, stettero lì, ad aspettare. Prendendosi a braccetto per farsi coraggio, o camminando avanti e indietro "come galline spaventate", racconta una delle protagoniste.
Talvolta gridando con forza: "Ridateci i nostri mariti", "Ridateci i nostri figli", oppure tacendo spaventate. Finché i famigliari - oltre un migliaio - furono rispediti a casa, senza vittime né spargimenti di sangue.
Una dimostrazione unica nella storia della Resistenza tedesca, per il carattere pubblico di ribellione, il tratto di spontaneità e per l'esito non funesto. Una pagina riaperta in Germania dopo un prolungato silenzio, che arriva ora in Italia grazie all'interessante lavoro documentario della giornalista Nina Schröder, Le donne che sconfissero Hitler (traduzione di Paola Quadrelli, Pratiche editrice, pagg. 287), un libro che, pur senza ambizioni storiografiche, ha il merito di dar voce a quelle eroine inconsapevoli e dimenticate.
Resistenza del cuore, l'ha definita con un'efficace formula lo storico ebreo di Harvard Nathan Stoltzfus nel suo saggio Resistance of the heart, il primo studio scientifico su quell'evento.
Il fascino di Rosenstrasse, tra le molte storie minori della guerra nazista, è anche nel velo di omissioni che, fino a qualche tempo fa, l'ha tenacemente avvolta.
Una "rimozione collettiva", denuncia Nina Schröder, che può destare qualche sospetto: «Nessuno in fondo ha voluto riconoscere ciò che quelle donne avevano dimostrato: cioè che non tutti gli atti di opposizione fossero impossibili e condannati sin da principio al fallimento».
Anche Gad Beck, ottuagenario arguto che nel marzo del 1943 trascorse otto giorni nell'edificio di Rosenstrasse, ne è convinto: «Nessuno s'è occupato di quella vicenda perché la stessa possibilità di una protesta avrebbe finito per privare i tedeschi della loro pace interiore».
Il lungo silenzio è imputabile anche ad altre ragioni: grazie alla manifestazione berlinese si salvò dalla deportazione soltanto un gruppo "privilegiato" (se così si può dire), costituito da quel migliaio di ebrei che poteva ripararsi dietro un genitore o un coniuge di "razza ariana", mentre tutti gli altri ebrei arrestati durante la retata ordinata da Goebbels nelle fabbriche - la cosiddetta FabrikAktion - furono spediti nei lager.
«I fatti di Rosenstrasse», commenta Miriam Beck, un'ebrea catturata nel marzo del 1943, «furono messi in secondo piano da atrocità ben più terribili. Eppure è stata la prima e unica protesta pubblica contro la deportazione degli ebrei».
Alla prolungata rimozione contribuirono le omissioni degli stessi protagonisti, più rivolti al futuro che verso quel passato di pura sopravvivenza.
«Carnefici e vittime», commenta Gerhard Braun, «hanno effettivamente una cosa in comune: tendono a rimuovere».
Berlino, 27 febbraio 1943.
I camion della Gestapo si fermano davanti a diverse fabbriche in cui gli ebrei sono costretti a lavorare.
I metodi di reclutamento sono noti: echeggiano nell'aria anche gli schioppi d'una frusta, un testimone riferisce di donne gravide spinte a calci sul camion da uomini delle SS irritati per la loro goffaggine.
La retata è il regalo di compleanno di Goebbels per il Führer: una Berlino perfettamente "disebreizzata".
Oltre un migliaio di quegli operai ebrei - gli imparentati con gli "ariani" - viene recluso in Rosenstrasse.
La notizia si sparge per la città. Strappate dalle più diverse occupazioni, centinaia di mogli e mamme si riversano nella Strada delle Rose.
Sono le stesse donne che avevano subito ogni genere di pressione perché si separassero dai mariti ebrei.
«Quante ingiurie, quante minacce, botte, sputi hanno sopportato», annota Victor Klemperer nel suo diario. «Eroismo desolato e silenzioso», lo definisce.
La resistenza del cuore.
Un monumento, ordinato nel 1993 da Honecker alla scultrice Ingeborg Hunzinger, le ritrae oggi a Berlino con i volti rabbiosi e guerreschi.
Fisionomie che stridono con le voci confuse e ignare raccolte dalla Schröder. Le testimonianze restituiscono una sorta di banalità del bene, il gesto coraggioso ed estremo vissuto con assoluta normalità, frutto di una pulsione primitiva di conservazione - la conservazione della propria famiglia - piuttosto che gesto consapevole di protesta politica.
"Una necessità vitale", la definisce una testimone di quei fatti, Ursula Braun, il cui marito finì nella rete della Gestapo. «Le donne si riversarono in piazza perché lì erano reclusi i loro compagni e figli!
Che cercassi di portare un pacchetto a mia sorella, quando venne deportata nel 1942, o che me ne stessi lì in piedi in Rosenstrasse: erano sempre slanci improvvisi, atti momentanei, mossi da un obbligo interiore ad agire».
Nessuna intonazione eroicizzante: «Correvamo avanti e indietro come galline spaventate. Avevamo paura, molta paura...».
Ma il terrore ha una soglia estrema oltre la quale «si manifesta una specie di vuoto in cui si fanno le cose più incredibili».
La baronessa de Witt ricorda le minacce dei poliziotti, addirittura "le mitragliatrici delle SS" piantate dietro sacchi di sabbia. «Ma con la paura che avevamo addosso, non ci facemmo caso», commenta sobriamente Ursula.
Per alcune di loro fu un disvelamento improvviso: la sensazione che finalmente si potesse far qualcosa. «Dopo Rosenstrasse», raccontò a Gad Beck sua madre, la protestante Hedwig Kretschmer, «scomparve in me ogni traccia di passività».
Fu l'insurrezione delle donne a salvare gli ebrei reclusi? Le congetture sono innumerevoli.
Di certo c'è che Joseph Goebbels non gradì quella ribellione. Nel suo diario la liquida come "spiacevole". Secondo una testimonianza del suo aiutante personale, Leopold Gutterer, non gli rimase che "la soluzione più semplice": liberare i prigionieri.
E fu così che un manipolo di mogli riuscì a piegare gli uomini di Hitler.
Fonte: la repubblica, 12 settembre 2001
Simonetta Fiori è inviata di Repubblica dove, da trent'anni, si occupa di temi culturali.
Ha scritto due libri-intervista per Laterza: Il grande silenzio, con Alberto Asor Rosa e Italiani senza padri, con Emilio Gentile.
È autrice insieme a Luca Scarzella di Inge Film, un docufilm sulla vita di Inge Feltrinelli.