I fascinosi marciapiedi berlinesi che conducono al Köpi

Fondato nell’anno della riunificazione delle due germanie e legalizzato un anno dopo come progetto abitativo il Köpi tra migliaia di cose ospita pure un bar scuro e fumoso, pieno di punk, quelli veri, quelli che ricordiamo dall’immaginario della Berlino anni Ottanta.

KöpiSpesso è così che si manifesta Berlino, come una sinfonia di estraneità ben incastrate tra loro.

È venerdì e la notte è abbastanza silenziosa, non che non ci siano schiamazzi, ma ogni suono affonda nell’immensità dello stradone della ex Berlino Est. I palazzi che ne delineano i confini sono squadrati, i marciapiedi ogni tanto interrotti da uno di quei piccoli e grandi cantieri che è così frequente incontrare a Berlino, simili a uno sfogo spontaneo, forse manifestazione superficiale dell’inquietudine della città.
Alle nostre spalle, la stazione della metro, crocevia notturno dei personaggi più disparati, che emergono dalla fermata sotterranea e dal suo odore di ferraglia e kebab come anime in uscita dagli inferi.
Alcuni sono parzialmente se non prevalentemente nudi, altri vestiti di uno strato sottile di latex, molti sfoggiano parrucche o ornamenti sadomaso, e tutti sono diretti al Köpi, uno dei luoghi più eccessivi e al tempo stesso popolari e frequentati della città.
 
Ci sono poi quelli, meno appariscenti, che s'immergono negli altri club della zona. Lo fanno senza fretta  senza dimenticare la rituale sosta in uno di quei negozietti di bibite e di sigarette aperti fino a tarda notte. 
La sosta allo Späti per prendere una birra da sorseggiare in fila per entrare al locale è una delle abitudini più endemiche a Berlino, un gesto che persone dalle origini più disparate ricalcano con estrema naturalezza.

Non ci sono auto, solo masse silenziose di avventori dei locali notturni che si sfiorano con promiscua noncuranza. Ma tutto ciò ce lo siamo lasciati alle spalle. Siamo già sullo stradone di cui sopra e alla nostra sinistra si stagliano le gigantesche canne fumarie della Vattenfall, azienda che produce energia elettrica con diverse sedi in città, a ridosso della quale si trova uno dei club più famosi della città, il Tresor. Sono le tre, la fila ha appena raggiunto il massimo della sua estensione e si snoda sotto all’indifferenza delle ciminiere. Molti non riusciranno a entrare e dovranno cercare un’alternativa.

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Continuiamo a camminare, la direzione è quella dello Yaam, il locale afro più gettonato della città, ma la strada è deserta e non ci sono bar o negozi aperti: lo spazio che separa le varie attrazioni è come un cuscino, una bolla ignara del fatto che altrove possa esserci qualcosa di vivo. Se qualcuno che non conosce la città si trovasse catapultato lungo la Köpenicker Straße in questo momento, potrebbe giurare di essere nel luogo più desolato e noioso immaginabile. Ecco qua: siamo a cavallo tra Mitte e Kreuzberg, nel cuore pulsante della città e abbiamo un enorme ventaglio di possibilità per quanto riguarda l’intrattenimento. Tutto ciò è molto rappresentativo di Berlino: una città che sia a livello architettonico che sociale non abbraccia, non conduce per mano i suoi esploratori alla scoperta delle possibilità che offre.

È una città fredda, feroce a suo modo, come lo sono le montagne per chi non sia dotato di una buona mappa che segnali sentieri e baite. È una città adatta a chi sappia fidarsi delle proprie gambe e abbia un’idea della direzione da prendere, nella vita notturna come in quella lavorativa e sociale. Un’ottima palestra per allenare una sorta di resilienza che diventa patrimonio comune, materiale per una tacita complicità tra i giovani che da tutto il mondo confluiscono qui. Il fuoco è spento, sulla Köpenicker Straße, ma la vivacità delle braci ne scuote le fondamenta. Ed è lì che normalmente si balla a Berlino, sotto terra.

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Sentiamo dei passi che accelerano alle nostre spalle, e delle grida, forse un canto, disordinato, spezzato dall’alcol. Il primo istinto è quello di spostarci, metterci da parte e provare a diventare invisibili. Ma poi, a guardarla in faccia, la sorgente di tanto baccano, non pare essere tanto minacciosa. Un uomo sulla cinquantina, probabilmente di origine latino-americana, si stupisce della nostra diffidenza e si avvicina, ci dice di seguirlo, di entrare nel cortile alla nostra destra, ci annuncia un luogo fantastico e, parlando in un tedesco malandato, ci promette un posto tollerante, senza pericoli e senza violenza. “No Gewalt hier”, niente violenza qui, lo ripete più e più volte. Poi, aggiunge, qui vanno tutti bene, le persone più diverse, vedete me, io sono diverso da chiunque possa essere qui dentro, ma non è un problema, qui, non è un problema. Seguiamo l’uomo che intanto ha aperto un pesante cancello di ferro e ci troviamo davanti a un grande complesso abitativo tempestato di graffiti. Non ci sono insegne, solo una serie di catene di luci colorate che sovrastano tutta l’ampiezza del cortile. Il signore ci abbandona, dopo averci detto che possiamo entrare dall’accesso che preferiamo, che tanto fa poca differenza.

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Ci troviamo in quello che poi scopriamo essere uno storico palazzo occupato, il Köpi (la facciata nella foto in alto a destra). Lo stupore è grande, ricordiamo il Tacheles, il grande edificio e centro espositivo iconico della città, sgomberato definitivamente nel settembre 2012 dopo essere diventato una rinomata meta turistica. La storia delle case occupate nella ex Berlino Est si inizia con la caduta del muro, mentre Berlino Ovest aveva già toccato l’apice negli anni ’80, vantando ben 160 edifici occupati. L’est della città non ci mette molto a recuperare, arrivando presto a un totale di 150: tra questi, appunto, il futuro Tacheles e quello nel quale ci siamo appena imbattuti, il Köpi, fondato nell’anno della riunificazione e legalizzato un anno dopo come progetto abitativo. I tentativi di sgombero sono stati numerosi, ma i contratti di affitto stipulati negli anni ’90, la cooperativa creata per curare l’immobile e la grinta di abitanti e sostenitori sono per ora riusciti a proteggere il progetto.

kopiAbbiamo la sensazione di aver fatto un salto indietro nel tempo. Spingiamo una delle numerose porte che si affacciano sul cortile e ci addentriamo in un bar scuro e fumoso, pieno di punk, quelli veri, quelli che ricordiamo dall’immaginario della Berlino anni Ottanta. Le bevande hanno un prezzo irrisorio e vediamo approfittarne anche l’ispanico che ci ha condotti fin qua, quello che ci ha tenuto molto a sottolineare come qui si senta sicuro. A differenza che altrove, viene da pensare. Le sue parole denunciano una sensazione di pericolo e di esclusione che sembra essere la norma nella sua esperienza della città.

Restiamo un po’ ad esplorare il Köpi, scopriamo una cantina sotterranea dal soffitto bassissimo nella quale è in corso un’umida jam session, ci avventuriamo su per delle ripide scale di legno in cerca di una mostra che non riusciamo a trovare. Sono le tre e mezzo e siamo qui, in una strada ubicata nel cuore della Berlino del clubbing e delle start-up, per le scale traballanti di quello che ha tutta l’aria di essere un fossile di una città completamente diversa e estranea ai suoi alienanti sviluppi. Eppure la compagnia è a sua volta estranea a questo luogo: davanti a noi arrancano tre hipster russi e alle nostre spalle due australiani che non fosse per le start-up non si sarebbero mai trasferiti da queste parti. Spesso è così che si manifesta Berlino, come una sinfonia di estraneità ben incastrate tra loro.  

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Laura Venturi
Nata in Renania, a cinque anni il trasferimento ad Arezzo, in Toscana. La danza, la recitazione e la musica hanno accompagnato gli anni della mia infanzia e adolescenza. Dopo la laurea in lettere e il diploma in pianoforte mi sono traferita all'estero. E dove, se non nella natia Germania? Risiedo a Berlino da sette anni, ho appena ottenuto una laurea specialistica in musicoterapia e lavoro sia nel campo della musica che in quello del giornalismo culturale
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