Coronavirus, come le grandi epidemie hanno cambiato il mondo

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 Certe storie cominciano tutte allo stesso modo: con uno scienziato solitario e un allarme. Lì, nel laboratorio, lui o lei guarda dentro il microscopio. Poi alza gli occhi, spesso se li strofina, e li rimette sul microscopio. Infine, quando le peggiori paure risultano confermate, lui o lei alza il telefono e dice ai suoi superiori: ho trovato una malattia come non ne avevo mai viste prima.

di Tom Whipple

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Naturalmente nessuno dà retta a questo Nostradamus col camice da laboratorio, ma nei giorni e nelle settimane successive tutti se ne pentono. Da “L’ombra dello scorpione” di Stephen King fino a “La peste scarlatta” di Jack London, la trama dell’evolversi dell’epidemia, nella letteratura, è sempre la stessa. Prima gli ospedali sono invasi, poi i governi cercano di nascondere ogni cosa – e alla fine la società collassa.

 Tornando al mondo reale, un mondo nel panico ma non ancora al livello di panico della fiction post apocalittica, gli scienziati hanno dato l’allarme da tempo.
Nel 2018, a Davos, Sylvie Briand, specialista di malattie infettive dell’Organizzazione mondiale per la Sanità, disse che era in arrivo una nuova pandemia, che non eravamo mai stati tanto vulnerabili, “e non c’è modo di fermarla”.
Nel 2019 a una conferenza sulla salute Bill Gates disse che sarebbe potuto saltar fuori facilmente un virus in grado di uccidere 30 milioni di persone. Qualche mese dopo, un comitato scientifico affiliato alla Banca mondiale disse che in quel momento più che in passato c’era “un rischio elevato di un’epidemia devastante a livello regionale o globale che non soltanto ucciderà molte persone ma creerà danni gravi all’economia e il caos sociale”.

E questo è successo soltanto negli ultimi due anni. Joshua Lederberg, biologo premio Nobel, mette le cose in modo più schietto. “La più grande minaccia per il dominio dell’uomo sul pianeta è il virus”.

Tutti questi profeti di sventura sono stati, in perfetta coerenza con la letteratura apocalittica, ignorati.
Oggi però vengono ascoltati. Oggi nella città cinese di Wuhan gli ospedali sono sovraffollati, il governo è accusato di aver nascosto la gravità del virus, la società vacilla. E’ questa la grande pandemia di cui si parla da tempo?
L’unica risposta sensata, una risposta molto più rassicurante di quanto dovrebbe in effetti esserlo, è no.
Il tasso di mortalità del nuovo coronavirus è basso, al 2 per cento. Molte delle vittime hanno vissuto in paesi che devono ancora abbassare i livelli di fumo e di inquinamento – i loro polmoni erano già molto deboli. In più – e se questo dato sia confortante o meno probabilmente dipende dal fatto che il vostro canone tv è gratis oppure no – la maggior parte di questo due per cento è fatto di anziani.
 
Eppure queste constatazioni in parte non colgono il punto.
E’ del tutto possibile che le peggiori previsioni di Gates e di Lederberg non si avvereranno, che l’apocalisse virale non arriverà mai, che per i prossimi anni continueremo a dire ai nostri Nostradamus che sbagliano – che hanno letto troppi romanzi.
Ma la cosa strana è che se, come credono molti esperti, non si riesce a fermare la diffusione del coronavirus, il 2 per cento di mortalità smetterà di essere confortante.
Una piccola percentuale di un numero molto grande è un numero molto grande. Di questi tempi, piccole percentuali di numeri grandi falciano costantemente la popolazione mondiale con strumenti virali e lo fanno, a differenza di quanto accade nei romanzi, senza essere notate.
 Prendiamo un esempio che conoscete tutti. In Francia, attorno al 1917, un virus mutò.
Questo virus era vissuto per secoli negli uccelli, seguendoli mentre si alzavano in volo e migravano in tutta Europa. Per loro era come un raffreddore per noi.
La mutazione del 1917 cambiò ogni cosa.
Permise in particolare al virus di fare la cosa più interessante che aveva fatto per molti millenni: cambiare specie. Sotto gli uccelli, tutti vicini a una distanza da colpo di tosse, c’erano gli uomini. Milioni di uomini.
Erano uomini che stavano per mobilitarsi in una migrazione umana di dimensioni che raramente si erano viste prima. Trovando casa tra di loro, accompagnandoli nei loro viaggi di ritorno dalla guerra, il virus sperimentò una seconda mutazione non meno clamorosa: non si passava più soltanto da uccelli a uomini, ma anche da uomini a uomini.
 
All’inizio questo giornale, il Times, raccontò quella che sarebbe diventata l’influenza spagnola come una curiosità che il cosiddetto “uomo della strada” attribuiva a qualche azione nefasta dei tedeschi.
Durante il picco dell’epidemia, quando la novità non c’era più, pubblicavamo semplicemente delle tavole con il numero dei morti.
“Provincia di Londra, 2.458; periferia esterna di Londra, 1.705; Sheffield, 465; Leicester, 260; Hull, 220” e via dicendo.
In due anni, il virus causò più morti di quanti furono causati dalla volontà di gas, armi e carriarmati delle potenze più avanzate del mondo nei quattro anni precedenti. Morirono circa 50 milioni di persone. Aveva, secondo i danti della Organizzazione mondiale per la Sanità, un tasso di mortalità del 2 per cento – anche se molti dicono che fosse molto più alto.
 
Questa storia la conoscete. Ma quella della influenza asiatica del 1957?
Morirono tra uno e due milioni di persone. Undici anni dopo, la pandemia di Hong Kong causò il doppio di morti. Negli ultimi vent’anni abbiamo avuto Sars, Mers, Ebola e Zika. Nel 2009 l’H1N1, comunemente noto come l’influenza suina, ha contagiato una persona su cinque a livello mondiale e ne ha uccise circa mezzo milione.
Che sembra parecchio fino a che non diciamo che da 200 a 700 mila persone sono morte per l’influenza comune.
Le piccole percentuali si sommano tra loro. “Se questa fosse una guerra convenzionale”, dice Robin Shattock, virologo dell’Imperial College di Londra, “tutti vorremmo investire in forze militari a lungo termine per evitare che accada di nuovo”.
L’era delle pandemie è qui. E viste le nostre abitudini moderne, non dovremmo nemmeno sorprenderci troppo.
 
Nel secondo secolo prima della nascita di Cristo, il medico romano Galeno diede conto di una peste terribile.
C’erano ulcere, vesciche, morti di massa. Ogni giorno, si diceva, morivano migliaia di persone. Molti erano convinti che fosse la fine del mondo.
Si sparse la voce che quella epidemia fosse una vendetta. Lucio Vero, coimperatore assieme a Marco Aurelio, aveva razziato un villaggio e aperto una tomba proibita, scatenando così una vendetta terribile e antica.
Quella che oggi è chiamata la peste antonina (o di Galeno, da colui che la descrisse) non si diffuse per delle maledizioni mortifere ma per una ragione ben più banale: le strade.
 
Grazie ai romani, le vie di comunicazione avevano raggiunto ogni angolo dell’impero più connesso che la storia avesse mai visto prima.
Mescolandosi spesso arrivano le malattie. Mescolandosi sulla via della Seta si arrivò alla peste bubbonica in Europa.
Mescolandosi con gli animali, addomesticati durante la rivoluzione agricola, le malattie iniziarono a passare dagli animali agli umani.
Anche il mescolarsi degli alberi ha avuto un effetto: i funghi.
E mai ci siamo mescolati in modo tanto rapido e tanto frequente.
Durante l’epidemia di Sars, soltanto 17 anni fa, c’erano circa 20 milioni di voli ogni anno. Oggi ce ne sono il doppio. Due milioni di pellegrini musulmani vanno ogni anno alla Mecca, mentre per il nuovo anno cinese sono stati fatti circa tre miliardi di viaggi.
 
“Viviamo in un mondo altamente globalizzato e mobile e ne stiamo vedendo le conseguenze”, dice Andrew Tatem dell’Università di Southampton.
“Nel Trecento, ci vollero 15 anni perché la peste bubbonica cinese si diffondesse in Europa; nel 1918, l’influenza ci mise molti mesi; oggi la diffusione globale avviene in pochi giorni o poche settimane”.
 
Il primo grande paradosso delle pandemie è che la tecnologia e il progresso normalmente ci rendono più abili nel gestire le malattie.
Durante le epidemie virali, il progresso stesso è un problema, e non c’è nemmeno la certezza che possa essere anche la soluzione.
“Il nostro stile di vita, la nostra tecnologia, stanno diventando sempre più veloci”, afferma Jennifer Rohn, dello University College di Londra. “Diventa come il gioco del gatto col topo ed è difficile sapere chi vincerà. Da un lato le cose si diffondono più velocemente. Dall’altro, abbiamo una capacità di rispondere senza precedenti”.
Non è certo che sarà la tecnologia a vincere. “Tendo sempre a pensare che saranno i microbi a vincere. Erano lì da molto prima di noi”.
“Vincere”, per un microbo è però un concetto complicato.
 
E questo porta al secondo grande paradosso: i virus più micidiali non generano le pandemie più micidiali.
Un virus non è malevolo. E’ la forma di vita più pura che esista. Non ha cellule, né cervello né volontà.
E’ una macchina riproduttiva, un frammento di materiale genetico all’interno di un guscio protettivo, il cui unico scopo è quello di produrre copie.
Non vuole farti del male, vuole usarti. Se muori non va bene. I cadaveri, dopo tutto, non starnutiscono. Questo è il motivo per cui quanto più un virus è “peggiore” per i singoli esseri umani, così funziona la logica convenzionale, meno è probabile che sia fonte di preoccupazione per l’umanità.
Se provoca la morte istantanea, termina con la prima vittima. Se provoca un lieve raffreddore, conquista il mondo. Se uccide ampiamente, come l’Hiv, allora deve uccidere lentamente, deve tenerti in vita per trovare un’altra vittima a cui passare.
 
 Questo è il motivo per cui l’ebola probabilmente non otterrà nemmeno un appiglio temporaneo in Europa.
“E’ troppo mortale e troppo palesemente mortale”, dice il dottor Rohn. “Quando vediamo le persone sanguinare dai loro occhi tutti i nostri antichi istinti di contagio entrano in azione”.
Ciò che preoccupa maggiormente gli scienziati è se un virus muta in modo che il vecchio compromesso tra virulenza ed espandibilità non si applichi più. Gli occhi sanguinanti li noti, dice Rohn. Ma la tosse e gli starnuti? “Sono così generici, potrebbero essere qualsiasi cosa”.
Se fosse un virus mortale e volesse diffondersi, lo farebbe così. “Ai vecchi tempi, quando vivevamo in villaggi nella giungla, un virus molto mortale non si sarebbe diffuso. Ma immagina un virus respiratorio con un periodo di incubazione di due settimane. Immagina qualcuno che tossisce nell’aeroporto di Heathrow…” .

 All’inizio di questo mese Steven Chu, capo dell’American Association for the Advancement of Science, ha immaginato uno scenario del genere.

Gli è stato chiesto cosa lo preoccupasse dell’epidemia di coronavirus.
Ha risposto facendo riferimento a un’epidemia completamente diversa, che si è verificata e si sta ancora verificando – passando in gran parte inosservata – a sud di Wuhan. Lì, nelle fattorie in cui i polli sono stipati ala contro ala, un’influenza aviaria chiamata H5N1 ha imparato a infettare l’uomo.
Questo virus è qualcosa di ancora più preoccupante, se vuoi preoccuparti”, ha detto. “Se vieni contagiato hai una probabilità del 60 per cento di morire”.
Non ha ancora imparato a diffondersi da uomo a uomo in modo sostenuto, ma se lo ha fatto, ha affermato il professor Chu, un premio Nobel che ha prestato servizio nell’Amministrazione Obama, “questa è roba serissima. Stai parlando di una frazione della popolazione mondiale “.

Alla fine, dice Adam Kucharski, un accademico della London School of Hygiene and Tropical Medicine e autore di “The Rules of Contagion”, è una gara.

La domanda con ogni nuova epidemia è se la collaborazione è sufficiente per superare il contagio”.

C’è stata una storia parallela durante l’ascesa del coronavirus, che è stata la diffusione di risposte scientifiche a lungo pianificate.
Durante l’epidemia di Sars gli scienziati hanno mantenuto la segretezza sui dati, accumulandoli in modo che le migliori riviste, che vogliono l’esclusiva, vorrebbero pubblicarli ancora adesso.
Durante il coronavirus tutti i principali direttori hanno promesso che pubblicare dati online non avrebbe messo a repentaglio la pubblicazione futura. Sono venuti fuori centinaia di open-access papers.
Nessuno, tuttavia, è così fondamentale – o indicativo della rivoluzione che il settore ha vissuto negli ultimi 20 anni – come quello che è comparso il 10 gennaio.
Intitolato “Il virus della polmonite del mercato ittico di Wuhan isola il Wuhan-Hu-1, genoma completo ”. Conteneva 30.000 lettere apparentemente confuse.
Durante la Sars, ci sono voluti cinque mesi per isolare la genetica del virus e quindi sequenziarlo. Con il coronavirus qui, in questo articolo, c’era l’intero genoma con tutti i segreti del virus lì da decodificare, disponibili a tutti in pochi giorni.

Quando è comparso quel documento, era già partito il finanziamento per le squadre di tutto il mondo per iniziare a lavorare su un vaccino. Robin Shattock, dell’Imperial College di Londra, guida una di queste squadre.

Scientificamente, dice, la risposta al coronavirus è stata senza precedenti. Ci sono voluti 15 anni per sviluppare un vaccino per l’ebola.

E’ probabile che, tra poco più di un anno, sia il suo laboratorio sia quello di qualcun altro ne avranno uno pronto per il coronavirus.
Questo è sia un risultato importante sia poco utile. Ciò di cui abbiamo bisogno è un vaccino ora; in un anno possono succedere molte cose.
E’ ancora meno utile se si considera che dopo averlo fatto dobbiamo ancora essere in grado di produrlo in serie. “Dimostrare che qualcosa si muove entro un anno è fattibile”, ha detto il professor Shattock. “E’ il ridimensionamento che è difficile. Abbiamo bisogno di centinaia di milioni di dosi”.
Al momento non è possibile in Gran Bretagna. Un impianto per la produzione di vaccini è previsto ma non fino al 2022.
Anche allora probabilmente non potrebbe servire l’intero paese. Dovremo fare affidamento su altri paesi e, ha detto, “ci sarà da mettersi in fila”.
 
Se c’è una cosa positiva che può venire dal coronavirus, ha detto il professor Shattock, saranno maggiori finanziamenti, in modo che l’infrastruttura sia pronta per una pandemia, anziché essere messa in atto ogni volta come risposta di emergenza.
“Quanto sta accadendo dovrebbe essere un campanello d’allarme per il governo. E’ inevitabile che queste cose succederanno con sempre maggior frequenza.
Viviamo in ambienti sempre più densamente popolati, invadiamo sempre di più gli ambienti naturali abitati dagli animali”.
“Quando si pensa non soltanto agli aspetti umani, ma anche all’impatto sull’economia globale, è evidente che sia enorme. Abbiamo bisogno di investimenti a lungo termine”. Questo, si rende conto, è il momento di chiedere investimenti. “In questo momento c’è un’ondata di ‘facciamo qualcosa ‘”.
Tuttavia, è consapevole del fatto che la finestra a disposizione dei politici per ascoltare gli scienziati Nostradamus è breve. “Presto il mondo passerà alla prossima crisi globale”.
Nel frattempo, in una grotta in qualche luogo, dentro a un uccello in qualche luogo, un virus sta aspettando. Dalla sua ha il tempo. Tutto ciò che serve è la giusta mutazione.

Tom Whipple è il Science Editor del Times di Londra che ha pubblicato questo articolo.

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