La pandemia in giro per il mondo/Il Coronavirus, visto da Barcellona
Tutte le sere alle 20 moltissime persone si affacciano ai balconi di tutto il Paese per applaudire medici e infermieri. Sono molte poi le reti di solidarietà che sono sorte nei quartieri o nei condomini per aiutare le persone anziane e/o in difficoltà. «Questa situazione è la più grave che ha vissuto la Spagna dalla Guerra Civile», ha affermato il presidente Pedro Sànchez spiegando come in questa tragedia «nessuno sarà lasciato solo».
La Spagna è ormai il secondo Paese europeo, dopo l’Italia, per numero di contagi. La crescita è esponenziale, rapidissima.
Madrid è il principale focolaio e la situazione inizia a essere davvero drammatica nella capitale: i racconti di medici e infermieri sono purtroppo simili a quello che stiamo vedendo in Lombardia.
Mancano posti letto, mascherine e materiale sanitario. I malati muoiono senza nessun familiare che li possa assistere. Un’infermiera ha chiesto alla popolazione di scrivere delle lettere per far sentire le persone ricoverate meno sole.
Mi ha ricordato le madrine di guerra. Perché, sì, siamo davvero in tempo di guerra. Una guerra, però, dove il nemico non è alle porte. Non c’è un fronte: il nemico è tra noi. Invisibile.
La percezione della popolazione spagnola è cambiata radicalmente in pochi giorni: si pensava superficialmente che si trattasse di un «problema» cinese o italiano.
Tutto è cambiato da quando il 14 marzo il governo ha decretato lo stato di emergenza.
Le misure approvate dall’esecutivo guidato da Pedro Sánchez hanno seguito in buona misura il modello italiano: chiusi tutti i negozi, tranne alimentari e farmacie; le uscite sono permesse solo per fare la spesa, comprare farmaci, andare in ospedale o per motivi di lavoro.
L’hashtag che circola ovunque è #QuédateEnCasa, ossia #RimaniACasa. La Spagna, in poche parole, è piombata di colpo in uno scenario, per così dire, italiano. L’unica differenza è il gap temporale: 7-10 giorni circa di «ritardo» rispetto a quello che è successo nel nostro Paese.
Prima che si decretasse lo stato d’emergenza, la comunità italiana residente in Spagna – una delle più integrate e numerose: conta oltre 300.000 persone attualmente – ha cercato di avvisare del pericolo del Covid19.
A molti di noi, tra i quali mi includo, che seguivano con apprensione la situazone in Italia sembrava che si stesse reagendo con sufficienza e irresponsabilità.
Le Sardine di Barcellona, ad esempio, hanno pubblicato sui social un comunicato per invitare la gente a rimanere a casa.
Credo che molti spagnoli considerassero questi messaggi come una specie di paranoia: «di che si preoccupano? Qui il virus non arriva!».
I bar e i ristoranti erano pieni, le scuole e le università ancora aperte, l’8 marzo si sono organizzate manifestazioni in tutte le città, feste popolari come las Fallas si sono tenute a Valencia con migliaia e migliaia di persone.
Il governo probabilmente ha reagito tardi, così come in altri Paesi, in primis Francia e Germania.
Direi però che ha gestito in modo positivo la comunicazione precedente all’applicazione delle misure drastiche di restrizione per evitare la propagazione dei contagi.
Non c’è stato l’allarmismo fomentato dai mass media in Italia fin da quando il virus era presente solo a Wuhan. Certo, questo ha anche pesato probabilmente sulla lenta presa di coscienza della popolazione.
Da quando è stato decretato lo stato di emergenza – vigente per 15 giorni e già prorogato per altri 15, fino alla metà di aprile (per la proroga ci sarà bisogno di un voto del Parlamento) – l’esecutivo di coalizione formato dal Partido socialista obrero español e Unidas podemos ha proceduto con passo spedito e fermezza.
Nei giorni successivi è stato schierato l’esercito nelle strade, sia per coadiuvare le forze dell’ordine nei controlli sia per aiutare i senza tetto, in un’operazione coordinata dal vicepresidente e leader di Podemos, Pablo Iglesias.
Poi, in linea con quanto già deciso dalla Germania e da altri Paesi europei, sono state chiuse le frontiere per trenta giorni.
Infine è intervenuta la sanità privata – che pesa molto più che in Italia – e si è approvato uno «scudo sociale» che mobiliterà fino a 200 miliardi di euro, pari al 20% del Pil spagnolo: 117 miliardi pubblici, la parte mancante sarà completata con risorse private.
«Sarà la maggiore mobilitazione di risorse della storia democratica della Spagna», ha affermato Sánchez. Vedremo nella pratica come si applicheranno e che continuità avranno dopo la fine dell’emergenza.
Il messaggio però è stato chiaro: nessuno sarà lasciato solo.
Non è una questione di poco conto in un Paese come la Spagna che ha sofferto dopo la crisi del 2008 durissime misure di austerity, che hanno colpito anche la sanità pubblica. Ora se ne pagano le conseguenze.
E tutti, o quasi, se ne stanno rendendo conto. Dopo aver criticato l’esecutivo, il Partido popular, all’opposizione, ha approvato le misure proposte da Sánchez, garantendo il suo appoggio al governo.
Le uniche voci fuori dal coro sono state l’estrema destra di Vox, il presidente catalano Quim Torra e la presidente della regione di Madrid, la popolare Isabel Díaz Ayuso, che fanno becero elettoralismo.
Perfino l’ex ministro dell’Economia ai tempi di Rajoy e attuale vicepresidente del Bce, Luis De Guindos, in passato acerrimo difensore delle politiche di austerità, ha appoggiato pubblicamente le misure keynesiane del governo. Ci troviamo di fronte a un cambio di paradigma, e non solo per quanto riguarda la Spagna.
Nonostante il ritardo nella presa di coscienza della gravità della situazione, da quando è stato decretato lo stato di emergenza, gli spagnoli hanno reagito con senso di responsabilità e disciplina, nonostante, come succede in Italia, non manchino le denunce per chi esce di casa senza motivo.
«Il peggio non è ancora arrivato. L’ondata più forte metterà a dura prova il nostro sistema», ha avvisato Sánchez lo scorso 21 marzo in un nuovo discorso alla nazione, in cui ha chiesto unità agli spagnoli.
«Questa situazione è la più grave che ha vissuto la Spagna dalla Guerra Civile», ha affermato visibilmente emozionato. Il governo sta già valutando di seguire l’Italia anche sull’ultima decisione dell’esecutivo di Conte: chiudere tutte le attività produttive non necessarie.
Tutte le sere alle 20 moltissime persone si affacciano ai balconi di tutto il Paese per applaudire medici e infermieri.
Sono molte poi le reti di solidarietà che sono sorte nei quartieri o nei condomini per aiutare le persone anziane e/o in difficoltà, cominciando dal portare a casa loro la spesa.
Questa è probabilmente una delle poche notizie positive: ci eravamo dimenticati dell’importanza della solidarietà in un mondo che viaggiava a ritmi vorticosi.
Tutti eravamo troppo concentrati su noi stessi. La mia speranza è che, quando tutto questo finirà, si possano recuperare valori che negli ultimi decenni erano «passati di moda», come la solidarietà appunto.
Come in Italia, anche in Spagna la gente cerca di sentirsi meno sola.
Le istituzioni e le realtà culturali stanno mettendo a disposizione gratuitamente materiali, da visite virtuali ai musei via web, come il Prado di Madrid, a dibattiti via streaming, come quelli del Centre de cultura contemporània di Barcellona.
La rete delle biblioteche della metropoli catalana ha reso gratuiti oltre 2.000 film. E poi sono molte le iniziative di musicisti che, dai loro profili social, offrono degli home concert.
Si è organizzato anche il Cuarantena Fest, un festival con quattro concerti al giorno, dalle 19 alle 23, per oltre dieci giorni, per ora fino al 27 marzo, che riunisce molti artisti della scena pop spagnola: ognuno, ovviamente, da casa sua in streaming, via Youtube.
E tutti, poco a poco, si stanno adattando a fare aperitivi in videochiamata su Whatsapp: condividere un bicchiere di vino o una birra a distanza con gli amici, raccontandosi la giornata, per sentirsi meno soli e farsi forza. Insomma, ognuno fa quel che può. Come abbiamo visto in Italia nelle ultime settimane.
Perché tutto il mondo è Paese. Se non lo capiamo ora, quando lo capiremo?
Steven Forti è professore di Storia contemporanea presso l’Universitat Autònoma de Barcelona e ricercatore presso l’Instituto de Historia Contemporanea dell’Universidade Nova de Lisboa. Con Giacomo Russo Spena ha scritto Ada Colau, la città in comune (Alegre, 2016).