Apple, Google, Starbucks non pagano tasse Urbi et Orbi
Se ognuno eludesse ed evadesse il fisco come fanno queste imprese, una società non potrebbe funzionare e tanto meno effettuare gli investimenti pubblici che hanno portato alla diffusione di Internet, da cui Apple e Google dipendono. Nella foto: ex CEO di Starbucks, Howard Schultz.
NEW YORK – Negli ultimi anni la globalizzazione è tornata a essere sotto attacco.
Alcune critiche potranno essere fuori luogo, ma una è sicuramente azzeccata: la globalizzazione ha permesso a grandi multinazionali, come Apple, Google e Starbucks, di non pagare le tasse.
Da anni, le aziende multinazionali incoraggiano una corsa al ribasso, chiedendo a ogni paese di ridurre le proprie aliquote fiscali ancor di più rispetto ai suoi concorrenti. Lo sgravio fiscale del 2017 voluto dal presidente statunitense Donald Trump ha rappresentato il culmine di tale tendenza e, a distanza di un anno, i risultati sono evidenti: l’euforia impressa all’economia americana si sta rapidamente smorzando, lasciandosi dietro una montagna di debiti (l’anno scorso il deficit Usa ha superato quota mille miliardi di dollari).
Pungolata dalla minaccia che l’economia digitale possa privare i governi delle entrate necessarie a finanziare la loro funzione (oltre ad allontanare l’economia dalle tradizionali modalità di vendita), la comunità internazionale sta finalmente riconoscendo che qualcosa non va.
Ma i difetti insiti nell’attuale sistema di tassazione delle imprese – basato sul cosiddetto prezzo di trasferimento – sono noti da tempo.
Il prezzo di trasferimento si basa sul principio ampiamente riconosciuto che le tasse dovrebbero riflettere il luogo in cui avviene un’attività economica. Ma come va determinato? In un’economia globalizzata, i prodotti viaggiano continuamente da un paese all’altro, generalmente incompiuti: una camicia senza bottoni, un’auto senza trasmissione, un wafer senza chip. Il sistema dei prezzi di trasferimento presuppone che possiamo determinare il valore di ciascuna fase della produzione in base al principio della libera concorrenza, e quindi stimare quello aggiunto all’interno di un dato paese. Ma in realtà non possiamo farlo.
Il modo di attuarlo, però, fa una grande differenza. Se la formula si basa perlopiù sulle vendite finali, che hanno un’incidenza sproporzionata nei paesi sviluppati, i paesi in via di sviluppo saranno privati delle entrate necessarie, che saranno sempre più insufficienti man mano che i vincoli fiscali diminuiscono i flussi di aiuti.
Le vendite finali possono essere prese a riferimento per la tassazione delle transazioni digitali, ma non per il settore produttivo o altri settori, dove è essenziale considerare anche l’occupazione.
Alcuni temono che includere l’occupazione possa esacerbare la concorrenza fiscale, laddove i governi cercano d’incoraggiare le multinazionali a creare posti di lavoro nei rispettivi territori. La giusta risposta a questa preoccupazione è imporre una tassazione minima globale delle società.
Gli Stati Uniti e l’Unione europea potrebbero – e dovrebbero – farlo in maniera spontanea. In tal caso, altri paesi seguirebbero il loro esempio, scongiurando così una gara in cui a vincere sono solo le multinazionali.
Fin dal suo inizio, il progetto congiunto Ocse-G20 denominato Base Erosion and Profit Shifting (BEPS) ha contribuito significativamente a una ridefinizione del regime fiscale delle multinazionali favorendo la comprensione di alcuni aspetti fondamentali. Ad esempio, se c’è un valore reale nelle multinazionali, il tutto è maggiore della somma delle parti. Principi fiscali standard di semplicità, efficienza ed equità dovrebbero orientare le nostre riflessioni sull’attribuzione del “valore residuo”, come sostiene la Commissione indipendente per la riforma della tassazione delle imprese multinazionali (ICRIC), di cui faccio parte. Ma questi principi sono incompatibili sia con il mantenimento del sistema dei prezzi di trasferimento sia con l’idea di basare la tassazione prevalentemente sulle vendite.
La politica conta: l’obiettivo delle multinazionali è ottenere supporto per riforme volte ad alimentare la corsa al ribasso e a garantire opportunità di elusione fiscale. Nei paesi avanzati dove tali imprese hanno una certa influenza politica i governi tenderanno ad appoggiare questi sforzi, anche se ciò danneggia il resto del paese. Altri paesi avanzati, invece, concentrandosi sul proprio bilancio, coglieranno un’opportunità di ottenere vantaggi a discapito dei paesi in via di sviluppo.
L’iniziativa Ocse-G20 definisce il proprio impegno come volto a creare un “assetto inclusivo”. Tale assetto dev’essere guidato da principi, non solo dalla politica. Se l’obiettivo è quello di una vera inclusione, la priorità principale dovrà essere il benessere di oltre sei miliardi di persone che vivono in paesi in via di sviluppo e in mercati emergenti.
Joseph Eugene Stiglitz è un economista e saggista statunitense. Premio Nobel per l'economia nel 2001..
Traduzione di Federica Frasca
Fonte: Project Syndacate