La prima protesta trans. E nacque il topless
4 luglio 1980 - Ci sono 27 gradi di massima quel giorno a Milano. Neanche troppi, ma andare in piscina può sembrare una buona idea a chi non è ancora riuscito ad andare in vacanza fuori città. Inaugurato nel 1932, il Lido promette ai milanesi «piacevolezze balneari» comodamente accessibili da Piazzale Lotto, vicino a San Siro.
Quella protesta, la prima messa in atto in Italia da persone trans organizzate, secondo la maggioranza delle fonti secondarie avvenne nel 1979, ma il «Corriere della Sera» riporta la notizia nel 1980, il giorno successivo al fatto, titolando “Uno show transessuale in piscina con fuori programma della polizia”.
È una memoria fragile, quella della storia trans. Pressoché ignorata dalla storiografia, a volte oscurata dalle sorti più note del movimento omosessuale, la storia trans è documentata più dagli archivi giudiziari e medici o dalla stampa scandalistica che non dalle coraggiose protagoniste che all’epoca scelsero la visibilità come strumento immediato di mobilitazione politica. Per quella azione bastarono i loro corpi e uno striscione con scritto «Siamo transessuali, basta con le discriminazioni».
Le protagoniste della protesta mantennero il presidio per circa un’ora, poi finirono tutte in commissariato, denunciate a piede libero per oltraggio alla pubblica decenza.
Il confronto con la repressione poliziesca faceva parte della quotidianità di molte donne trans all’epoca e la battaglia per il riconoscimento di un iter legale che consentisse l’accesso ai trattamenti e la rettifica anagrafica del sesso era un’urgenza dettata anche dal bisogno di difendersi dalla violenza.
In Italia, in origine le persone trans che animavano il movimento erano tutte donne, e la maggior parte di loro attraversava in maniera più o meno costante il lavoro di prostituzione. Multe, diffide, sorveglianza speciale, confino, sequestro del passaporto, della patente, il tutto condito da fermi e carcerazioni, facevano parte dello strumentario repressivo con cui si cercava di governare la presenza nello spazio pubblico delle donne trans.
L’infrazione più spesso contestata era quella di «mascheramento» (art. 85 c.p.); successivamente, si poteva diventare «delinquenti abituali» (art. 1 c.p.). Difficile trovare un lavoro che non fosse quello sessuale, complicato affittare un alloggio, impossibile fruire di trattamenti di affermazione dell’identità di genere.
L’autodeterminazione delle donne trans si faceva con estrogeni di prima generazione e con antiandrogeni, recuperati in farmacia quando non serviva la ricetta o importati dalla Francia assieme a saperi incerti sulla loro azione e sui rischi legati all’assunzione. Alcune, se potevano disporre dell’ingente somma di denaro richiesta, si operavano a Casablanca, in Belgio, a Londra, a New York. Non esisteva un iter apposito per ottenere la rettifica dei documenti. L’articolo 454 del codice civile, infatti, prevedeva la rettifica degli atti di stato civile solo in caso di «omissioni, errori, smarrimenti» e da quei margini invisibili solo pochissime trovarono un modo per rientrare nella normale invisibilità di donne come tutte le altre.
In quei primi anni Ottanta, comunque, corpi, genere e sessualità erano già da tempo campi di battaglia.
Accanto alla stagione di conflittualità sociale dei movimenti antagonisti, il femminismo e il movimento omosessuale avevano creato i presupposti per rendere il personale politico e la cittadinanza sessuale un terreno di rivendicazione. Rendere visibile la propria differenza di genere e sessuale non era solo più un rischio, poteva essere un desiderio.
La legge 164 del 1982, «Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso», oggi vigente, si componeva di soli 7 articoli, abbastanza scarni da consentire interpretazioni contrastanti in dottrina e in giurisprudenza (soltanto nel 2015 la Corte di cassazione e la Corte costituzionale hanno riconosciuto come non obbligatorio, ai fini della rettifica, l’intervento chirurgico demolitivo).
Nel complesso, l’introduzione di quella legge ha consentito di attuare dei protocolli di accesso ai trattamenti per l’affermazione del genere, in tempi e modi diversi sui vari territori, e con regimi di rimborsabilità non uniformi. In Italia l’accesso ai percorsi di transizione è subordinato a una diagnosi psichiatrica e a una perizia tecnica. Paradossalmente giustificato come tutela, il gatekeeping medico è oggi il più grave rischio per la salute delle persone trans, che in molti casi preferiscono per questo non accedere a un percorso formale, o che vi si sottopongono subendo ostacoli, ricatti e ritardi, con tutte le conseguenze in termini di benessere e salute psicologica che ciò comporta. In questo senso, i percorsi di transizione rimangono tutt’ora processi fortemente regolamentati da una saldatura tra norma giuridica e prassi medica che insieme lasciano poco spazio all’autodeterminazione, al diritto alla salute, alla tutela dalla discriminazione.
L’attivismo trans oggi agisce a livello transnazionale per contrastare stigmatizzazione, violenza ed esclusione sociale.
Il percorso però è ancora lungo, tanto più quando la transfobia si innesta su razzismo, classismo e sessismo, rispetto a molteplici dimensioni in cui spesso la stessa persona trans si ritrova svantaggiata. E questo vale soprattutto in un Paese, come il nostro, primo in Europa per omicidi commessi contro le persone trans.
Questa espansione rende ancora più urgente continuare a praticare politiche della sessualità che rendano l’esperienza del transito più accessibile e più vivibile.
Elia A.G. Arfini
Fonte: La rivista il Mulino