Venezia come modello di speculazione

Quale turismo? È questa la domanda che dovremmo farci per frenare lo scempio della città lagunare, forse l'unica capace di risollevarsi da sola, sebbene colpita dal crollo verticale dei visitatori dovuto al Covid. Lo si è visto nei giorni di tregua pandemica, con Venezia di nuovo sommersa dai turisti, annientata dal malgoverno.

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L’ultima trovata di stagione a Venezia, è il gran finale di Miss Italia a Venezia, con le venti finaliste che promuoveranno, “ le eccellenze cittadine come cultura, sport e artigianato “, è la spiegazione. «Perché i turisti ci servono », esemplifica raggiante il sindaco della città Luigi Brugnaro. Servono a chi?  Perché continuare a diffondere questa bufala mediatica del turismo che porta ricchezza? Il turismo porta ricchezza  a pochi, lavori miserabili a molti, e lo scempio  delle città storiche.

Pertanto, siamo di fronte a l’ennesima operazione di marketing turistico sugli effetti della quale è bene riflettere, anche se brevemente ancora una volta. Come spesso accade nella vita, del ruolo della città si sono accorti prima i non veneziani. E’ cresciuta prima la domanda dell’offerta, i residenti sono arrivati in ritardo. Le strutture di governo cittadine si sono adeguate a una realtà imposta dal profitto, dalla speculazione, dai grandi gruppi d’interesse. Esse non sono state capaci di proporre alternative valide alla gente che vi risiede. C’è un  continuo rilancio di progetti sempre più dannosi, sempre più deliranti, avallati da amministrazioni troppo prone al richiamo dei soldi e ignare talvolta perfino del ridicolo o del grottesco. Come la proposta dei tornelli del numero chiuso, l’unica vera difesa – secondo la giunta che governa ora la città - dagli eccessi del turismo.

Al contrario il numero chiuso si tradurrebbe immediatamente in numero chiuso per i poveri, lasciando i centri storici alle scorribande dell’upper class internazionale, che   «paga il biglietto».  Il fatto è che il problema non è  la “gestione” o il  “contenimento” ordinato dei flussi , bensì quello di creare le condizioni perché i residenti non vengano espulsi e incoraggiare il rientro di quelli che lo sono stati, unico modo per evitare che  Venezia si completi come  una location a tutto tondo. Risultato? La città che nel Cinquecento aveva 170 mila abitanti se ne ritrova con meno di cinquanta mila. E’ da allora che i veneziani cominciarono a diminuire lentamente e inesorabilmente. Beninteso, anche per le ripetute pestilenze che colpirono la Serenissima durante i secoli; tuttavia mai con la velocità degli ultimi settant’anni del ventesimo secolo. I numeri parlano chiaro: se nel 1981 gli abitanti del centro storico erano circa 93 mila, nel 1991 poco più di 76 mila, mentre nel 2001 oltre 10mila in meno rispetto al decennio precedente, fino ad arrivare  ai 52 mila di oggi.

Moltissimo vi ha influito, appunto,  una politica culturale dagli effetti sempre più nefasti che da trent’anni a questa parte mira a fare di Venezia (uso un eufemismo) un centro di attrazioni,  trascura il residente veneziano, anzi lo ha relegato nelle periferie di  Marghera, Mestre, Carpenedo. Con la medesima tempistica si è mosso il saccheggio della città che fa leva sulla selvaggia lottizzazione immobiliare che non conosce crisi perché la pressante domanda della seconda casa sulla laguna mantiene i prezzi degli appartamenti alle stelle. Inavvicinabili per le coppie giovani, sicché risulta sempre di più una città di vecchi, di pensionati, che va perdendo l’anima originaria.

De Michelis e Degan, Brunetta e Cacciari, Orsoni e Brugnaro, attualmente in carica, tanto per citare gli ultimi reggitori delle sorti della città. Tutte le giunte che si non succedute al governo della città, ma anche della Regione da sempre hanno dimostrato una grande miopia poiché tutte le scelte sono caparbiamente improntate alla difesa del poter,e in perfetta sintonia con il resto della nazione. Così, negli anni, Venezia è andata penalizzando il suo volto più “orientale”, quello della cortesia e dell’ospitalità e ha valorizzato invece quello “levantino” del baratto e del guadagno. In buona sostanza anch’essa si è adeguata al nuovo tempo, quello nel quale stiamo vivendo. “Eine Katastrophe”, una catastrofe, direbbero  i miei amici  tedeschi. Che, d’abitudine, vanno subito al sodo di ogni vicenda. 

E’ difficile però valutare le dimensioni del fenomeno perché i veneziani hanno per misura la rassegnazione e sono poco inclini alle manifestazioni vistose. Per stare al certo, si potrebbe dire che a Venezia, la politica, l’economia, la cultura in prevalenza mercantile hanno contribuito a rendere la gente sempre più schiva, immanincolita. Non c’è disperazione sociale, questo no, non c’è nemmeno la preoccupazione di sprofondare nella laguna, le preoccupazioni semmai sono altre. Prima di tutto la marginalità, la certezza di essere stati tagliati definitivamente fuori da ogni decisione sul governo della città. Poi, l’invadenza “forestiera”, i nuovi cittadini (italiani e stranieri) che hanno a Venezia la seconda casa, li hanno indotti su posizioni rinunciatarie, a fare ghetto, a difendersi da un modo di vivere che indubbiamente stravolge i valori e le tradizioni della città.

Dopotutto, come s’è detto il turismo porta ricchezza a “pochi”. E’ storia nota quella delle migliaia di precari iper-sfruttati nel settore turistico. Salari da fame, soprattutto se paragonati alle competenze richieste, a cominciare dalla conoscenza delle lingue, contratti inesistenti, caporalato mascherato, autosfruttamento, cottimo, eccetera. A Venezia non è che sia diverso. Naturalmente ci sono i gondolieri, i motoscafisti, ma questa fa classe a sé, i guadagni dei quali non sono certamente confrontabili, con quelli dei camerieri dei molti ristoranti di proprietà cinese che a Venezia imperano.

Infine, già si sono moltiplicati a dismisura i fenomeni allarmanti: la divisione, per esempio, tra centro e periferia che non ci  fu mai nella millenaria storia di equilibri policentrici dei Sestieri che suddividono in sei quartieri appunto il centro storico lagunare. Una città socialmente a “pelle di leopardo”, con quartieri ricchi e quartieri poveri, simile ai grandi centri urbani della terraferma i lagunari non l’accetterebbero mai , forti di una consapevolezza, freudiana se vi fa piacere, di appartenere a una città che per centinaia di anni fu capitale della cultura e della politica.

 Infatti, ogni qualvolta si tocca l’argomento, il confronto col “secolo dei lumi” è inevitabile, è una sorta di intima e ricorrente nostalgia, percorsa da personaggi illustri come Goldoni, Canaletto, Guardi, Casanova, dalle mille e una copertine delle Gazzette – le sole nell’Europa del tempo – a non essere soggette alle censure. Erano gli ultimi sprazzi di una Repubblica libera, dove il francese, il turco, l’ebreo potevano venire e convivere liberamente purché non facessero pubblica propaganda religiosa.

Nel 1739 Charles de Brosses, scrivendo di Venezia e del suo carnevale, raccontava: «Comincia già il cinque ottobre e ce n’è un altro di quindici giorni all’Ascensione, così che qui si possono contare all’incirca sei mesi in cui chiunque, compresi i preti, compreso il nunzio apostolico e il padre guardiano dei cappuccini, non esce che in maschera. Non scherzo: è l’uniforme di ordinanza». Insomma, divertimenti e quattrini in un’incredibile festa spontanea dei ricchi e dei poveri, internazionale e paesana dove «soltanto i morti i xe veci», come annotava Mozart.  

Un secolo affatto dimenticato, anzi nei discorsi dei veneziani spesso additato, anche oggi,  come un confronto naturale col quale rapportarsi, nell’intento non ultimo di scrollarsi di dosso il mito romantico della “morte a Venezia” che li perseguita; poi  le inchieste sulla città che sprofonda che li avviliscono; poi ancora le cronache sugli effetti del Mose che li inquietano; e infine gli interventi degli esperti che vogliono salvarli.

Salvarli da chi? Si tenga a mente che da quando – trent’anni fa – ci si è accorti che i messaggi della città hanno indici di ascolto estremamente ampi in tutto il pianeta, nel senso che le genti di tutto il mondo vi partecipano fisicamente con il loro tempo e i loro quattrini, il “salvataggio” dei veneziani è diventato un problema secondario. E non poteva essere diversamente poiché nell’immaginario collettivo Venezia è sempre meno l’ex capitale della Serenissima, e sempre più un centro internazionale di aggregazione pilotata; perché le architetture, gli ambienti, i percorsi dove persino il traffico merci è distinto da quello pedonale, ne fanno una città  “a misura d’uomo”, come dettava Le Corbusier, e perciò un luogo unico e straordinario.  

Tutti questi elementi, amplificati a dismisura dai mass-media internazionali, hanno consolidato l’immagine di una città dove ogni cosa che si discute, si mostra, si elabora, si produce, si trasforma quasi sempre in un frastornante evento globale. Ragion per cui siccome il segno encomiastico della dimensione a “misura d’uomo” viene in ogni occasione esaltato dai media, fino a stravolgerlo, diventa sempre più ardua una valutazione equanime sul destino della città e dei suoi residenti, sull’impresa turistica a maggior rendimento al mondo, e sul mito della città “a misura d’uomo” dove – è evidente ogni giorno di più – non tutto luccica.

 Infatti, a chi viene a Venezia per visitarla sembra impossibile che ci siano poco più di 50 mila abitanti nel centro storico, tanto la città è affollata durante la bella stagione, nei week-end e durante le grandi manifestazioni. Accade infatti che a Venezia ci vengano di media più  50 mila turisti al giorno, ovvero 19 milioni di visitatori l'anno. Numero ampiamente superato: l'affluenza reale è stimata in circa 28 milioni all'anno (questa è la norma, la pandemia è temporanea per Venezia), ai quali si aggiungono  i  lavoratori pendolari e gli studenti delle varie facoltà universitarie presenti in città, più o meno altri venti mila. Una moltitudine, che non conosce sosta, anche di questi tempi se è diminuita per una città così minuta. La massiccia presenza è evidente, anche in questi giorni - ripeto -di rinnovate restrizioni pandemiche. Pertanto quel « ci servono i turisti », l’invocazione alla quale il sindaco Brugnaro sempre ricorre per giustificare le “celebrazioni” da marketing come questa a Miss Italia, è per la città mortificante, per i veneziani avvilente Tutto il resto ne sortisce impunito.

 

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Vincenzo Maddaloni
Vincenzo Maddaloni ha fondato e presiede il Centro Studi Berlin89, l'associazione nata nel 2018, che si propone di ripercorrere analizzandoli i grandi fatti del mondo prima e dopo la caduta del Muro di Berlino. Professionista dal 1961 (per un decennio e passa il più giovane giornalista italiano), come inviato speciale è stato testimone in molti luoghi che hanno fatto la storia del XX secolo. E’ stato corrispondente a Varsavia negli anni di Lech Wałęsa (leader di Solidarność) ed a Mosca durante l'èra di Michail Gorbačëv. Ha diretto il settimanale Il Borghese allontanandolo radicalmente dalle storiche posizioni di destra. Infatti, poco dopo è stato rimosso dalla direzione dello storico settimanale fondato da Leo Longanesi. È stato con Giulietto Chiesa tra i membri fondatori del World Political Forum presieduto da Michail Gorbačëv. È il direttore responsabile di Berlin89, rivista del Centro Studi Berlin89.
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