Tradimento, parola di largo consumo fra Germania e Italia
Verrat, tradimento. É una parola che rimbalza spesso fra Italia e Germania, fin dai primi anni dell'era volgare quando il germanico Arminio, ufficiale e cittadino romano, voltò le spalle al suo comandante Publio Quintilio Varo e trascinò le legioni nella trappola mortale della selva teutoburgica.
Ma è soprattutto in età contemporanea che risuona frequente l'accusa di venir meno ai patti, di mancare alla parola data, di tradire insomma, fino a diventare nell'immaginario tedesco uno dei tanti stereotipi a carico degli italiani.
Un'accusa a senso unico? Tutt'altro: dal triste gioco del “chi ha tradito chi” emerge un significativo tasso di reciprocità, e non soltanto per il lontano precedente di Arminio.
Ci sono persino esempi altrettanto significativi di autocritica. Prendiamo un libro, Verrat auf deutsch. Wie das Dritte Reich Italien ruinierte, uscito in Germania nel 1982 e successivamente pubblicato in Italia con il titolo Il tradimento tedesco. L'autore, il giornalista Erich Kuby, era particolarmente noto per i suoi attriti giovanili con la Freie Universität di Berlino, alla quale contestava in pieno spirito sessantottesco il diritto di proclamarsi “libera”.
Kuby rovescia dunque il luogo comune. Italiani traditori?
Questa etichetta venne applicata dopo gli eventi dell'estate-autunno 1943, culminati nell'armistizio dell'otto settembre e nella dichiarazione di guerra al Reich di poche settimane più tardi.
In quel turbinoso '43 le trasmissioni radiofoniche dalla Germania ascoltate dagli uomini della Wehrmacht dislocati in Italia distillavano una furente ostilità nei confronti dell'alleato che aveva gettato la spugna e cambiato campo.
Con l'eccezione, ovviamente, dei camerati fedeli a Mussolini e alla repubblica di Salò.
Nel 2008 da un incontro dei ministri degli esteri Frank-Walter Steinmeier e Franco Frattini scaturì una commissione italo-tedesca incaricata di elaborare quello scottante retaggio.
Tutto questo fornì una motivazione supplementare agli esecutori di certi ordini, come le rappresaglie e le atrocità contro la popolazione civile, con cui si cercava di arginare la guerra partigiana.
Anche allora la denuncia del tradimento ebbe potenti effetti psicologici sulle truppe impegnate in azione.
La battaglia degli altipiani, la grande offensiva austriaca che il generale Conrad von Hötzendorf sferrò fra il maggio e il giugno del 1916 contro l'esercito italiano, fu informalmente battezzata con il titolo di Strafexpedition, spedizione punitiva. Proprio quel voltafaccia si voleva punire ma com'è noto l'operazione fallì, gli italiani resistettero e respinsero l'offensiva austro-ungarica.
E un anno più tardi, quando la rivoluzione russa sottrasse all'Intesa il grande alleato orientale e decine di divisioni germaniche furono spostate sui fronti occidentali, fu proprio il risentimento anti-italiano a motivare le forze tedesche impegnate nelle valli di Caporetto.
C'era da quelle parti un giovane ufficiale dei reparti di montagna, Erwin Rommel, che fece il diavolo a quattro conquistando allori e medaglie, e contribuì da par suo a spezzare la difesa italiana.
Proprio lui, il futuro feldmaresciallo destinato, meno di trent'anni più tardi, a comandare un esercito italo-tedesco nei deserti africani...
Tornando a quei primi tragici anni Quaranta, ecco un bersaglio italiano preso di mira dai pregiudizi tedeschi.
Si tratta degli internati militari, circa seicentomila soldati e ufficiali che all'indomani dell'otto settembre furono disarmati e avviati ai campi di lavoro in Germania o in altre parti d'Europa occupate dai nazisti.
La loro condizione giuridica era ambigua, prima della dichiarazione di guerra del 13 ottobre non erano protetti dalla convenzione di Ginevra che imponeva regole di trattamento per i nemici prigionieri.
Del resto nemmeno più tardi il Reich riconobbe loro lo status di prigionieri di guerra. Per tutta la durata del loro internamento, venti interminabili mesi per chi fu deportato subito dopo l'armistizio, vissero un'esperienza crudele. Soltanto in piccola parte accettarono, di fronte al dilemma “o con noi o al lavoro forzato”, di riprendere le armi al fianco della Wehrmacht.
Tutti gli altri rifiutarono, praticando così quella che si chiamerà resistenza disarmata. Erano visti come spergiuri, trattati con ben pochi riguardi, costretti a faticosissimi lavori nell'industria degli armamenti bersagliata dalle incursioni aeree e nello sgombero delle macerie, malamente sorretti da una dieta insufficiente. Non a caso fu altissima la mortalità nei campi di lavoro.
La loro vicenda è ricordata nel centro di documentazione NS-Zwangsarbeit, aperto nel 2006 nel quartiere berlinese di Schöneweide
Se avessero conosciuto gli argomenti di Kuby, i militari internati avrebbero certamente addebitato il tradimento, come lui, alla controparte tedesca. Che non diversamente da Arminio li aveva ingannati, e portati a morire nella selva di Teutoburgo.