E' un'invenzione berlinese la figura della "Trümmerfrauen", letteralmente "donna delle macerie". Il termine indica quelle donne che, dopo la fine della seconda guerra mondiale, hanno rimosso le macerie nelle città tedesche distrutte dai bombardamenti.
In effetti le cose non sono andate come il media mainstream dell'epoca le ha descritte. Le donne quel lavoro non lo fecero volontariamente, per quanto le foto che le ritraggono ce le offrono sorridenti e entusiaste anche nelle statue in cui tengono il mattone in mano. I monumenti ci sono ancora, ma nessuno li cerca più.
Un’icona smantellata ma a lungo ancorata alla memoria tedesca
Passeggiando a Berlino, in alcuni luoghi appartati, tra cespugli e verde, compaiono ogni tanto statue di donne che tengono un mattone in mano.
Sono piccoli monumenti, che un tempo erano percepiti come grandi e importanti; bussole nel discorso storico, perché ricordavano le famose Trümmerfrauen, letteralmente “le donne delle macerie”.
Ricordavano come, con disinteresse ed energia, le donne tedesche abbiano spazzato via le macerie dopo la seconda guerra mondiale e ricostruito le città tedesche. Così dice appunto la leggenda.
Una tale messa in scena, nella orchestrazione pianificata di un mito, che quei monumenti loro dedicati, oggi sono quasi scomodi nel paesaggio; ma così in bilico per la questione di genere, in società nella quale la donna deve sempre combattere, che pur trasudando mito e imbarazzo, totemici non vengono rimossi.
L'immagine delle donne tra le macerie che hanno ripulito a mani nude i mattoni dalla calce, così altruisticamente, ottimisticamente e felicemente, rappresentava la scintilla di quel nuovo inizio, per lasciarsi alle spalle quel tempo del nazismo per il quale ci si poteva solo vergognare.
Ma è così che si creano nuove identità nelle società, specie quando negli armadi ci sono più scheletri di quel che si pensa.
Ad avercene nella Germania post nazista, non c’erano nemmeno quelli: dietro di sé il paese lasciava le ceneri dei crematori e davanti aveva città incenerite dagli Alleati.
Un’icona smantellata, ma saldamente e a lungo ancorata alla memoria tedesca. Ecco perché i monumenti ci sono ancora, ma ecco perché nessuno li cerca più.
La donna dei relitti urbani è solo una minima parte della verità, la maggior parte di quei ruderi postbellici è stata rimossa invece da uomini e macchine pesanti.
Si sa che le donne quel lavoro non lo fecero volontariamente, per quanto le foto che le ritraggono ce le offrono sorridenti e entusiaste.
Pochissime furono coinvolte, specialmente a Berlino e nella zona di occupazione sovietica.
L'eliminazione dei detriti era un lavoro altamente stigmatizzato, un lavoro punitivo, perché durante l'era nazista i prigionieri di guerra e i prigionieri dei campi di concentramento furono costretti a farlo.
Dopo la guerra – appunto - le amministrazioni cittadine tedesche sotto le potenze occupanti alleate riadottarono il metodo senza soluzione di continuità, ma questa volta come lavoro punitivo per i criminali nazisti.
Furono schierati membri del NSDAP (Partito nazista) prigioniere e prigionieri di guerra, fuggiaschi tra i quadri nazisti.
Tra quelle donne, c’erano anche le guardie aguzzine del campo di concentramento femminile di Ravensbrück, rintracciate attraverso i registri delle assunzioni e delle paghe.
Loro sono state mandate a mani nude a ricavare da calce e mattoni, nuovi materiali per la ricostruzione delle città distrutte. Berlino è uno tra le migliaia di esempi sparsi in tutto il paese. Successivamente a questa fase, sono state cercate poche volontarie, mentre per il resto reclutati uomini e i disoccupati.
Una vera campagna mediatica iniziò sui quotidiani e sulle riviste femminili nel 1945/46, in cui furono introdotti sia il termine che l'immagine della donna delle macerie. Sono state scattate molte foto, le donne sono state parzialmente truccate e gli abiti da lavoro sono paragonabili a veri e propri costumi di scena.
Le immagini di donne che ancora oggi modellano quei monumenti per un’edulcorata memoria sono state create proprio in questo modo.
È stato creato un quadro per reinterpretare il duro e difficile lavoro di pulizia, a volte pericoloso, quasi fosse un compito positivo per le donne.
Quelle donne erano lungi dal vedere il loro lavoro un atto volontario ed eroico.
Poco più di un anno dopo la fine della guerra, alla rivista femminile berlinese Sie (“Lei”) molte scrissero lettere di reclamo al direttore.
Descrivendo con amarezza immagini di donne stanti in piedi sulle macerie, anche ultrasessantenni costrette a portare pietre, spingendo carrelli e buttando giù i mattoni. In alcune lettere si legge: “Usiamo i nostri ultimi stivali, l'ultimo vestito per guadagnarci da vivere, perché i nostri conti sono stati bloccati”.
Lo scenario si biforca al momento del conformarsi dei blocchi contrapposti tra ex Unione Sovietica e Alleati occidentali, fino alla Guerra fredda.
La donna delle macerie nella Germania Est ha avuto un ruolo fisso dagli anni '50 fino al 1989 come figura di identificazione positiva e prototipo della nuova donna socialista.
In Occidente, quasi scompare insignificante fino agli anni Ottanta.
La storiografia delle donne da un lato e il dibattito sulla politica pensionistica dall'altro contribuirono a far ripartire il mito.
“Noi donne più anziane siamo quelle che hanno ricostruito la Germania” urlavano da più parti alcune iniziative civili.
Nasceva il termine Trümmerfrauen e nasceva per questo il mito. Trasmettendo quella immagine coraggiosa della donna a un'intera generazione.
Allo stesso tempo, la storia delle donne si è sviluppata.
Si progettò un quadro secondo il quale le donne tedesche inizialmente vittime degli attacchi aerei durante la guerra, si trovarono con impeto e coraggio a ricostruire la Germania come "eroine".
Traslando un’idea di quella generazione da vilmente nazista, nel suo esatto opposto.
Le donne come gli uomini, un popolo tutto era stato parte del sistema e coinvolto nei modi più disparati, come responsabili dei crimini, zelanti volontari e stipendiati per i loro servigi al nazionalsocialismo.
E da donne, accontentandosi tra l’altro di una posizione di mezzo: non poteva essere altrimenti nella società tedesca sotto il nazismo, perché se eri femmina eri comunque inferiore al maschio.
Due tradizioni molto diverse tra Est e Ovest per le Trümmerfrauen, che poi si sono fuse, vincendo il modello occidentale e la sua corsa verso il corale dimenticatoio dell’Olocausto.
Smascherato poi dalla generazione appena successiva, con le immagini dei campi di sterminio che giravano il mondo.
Può essere che quelle stesse eroiche costruttrici fossero anche le tirapiedi del boia?
L’immagine non coincideva più.
Come non lo fa più la disseminata serie di monumenti silenti delle Trümmerfrauen, che raccontano la favola ma a un popolo ormai cresciuto sulle sue colpe.
Salvatore Trapani vive a Berlino dal 1998. Ha corrisposto per le pagine di cinema e cultura del periodico romano Shalom-Mensile e del quotidiano nazionale Il Giornale. Si occupa di memoria storica e arti visive cooperando come referente alla formazione per il Memoriale agli Ebrei uccisi d’Europa a Berlino, per il Memoriale dell’ex campo di concentramento femminile di Ravensbrück per l’Isituto Storico di Reggio Emilia, ISTORECO, dove ha fondato il progetto A.R.S. – Art Resistance Shoah. È anche autore di novelle (Edizioni Croce) e per saggistica (Editrice Viella). Si chiama Denoument il suo sito tutto dedicato al Cinema.(https://www.denouement.it/).