Il corpo parla per “far parlare”

Il passaggio dal corpo nudo al corpo vestito ha deviato la storia della cultura, ha prodotto l’insorgere degli effetti più travolgenti dell’immaginazione. Si è modellata una nuova disposizione del pensiero. Al posto di idee semplici e distinte (la presenza del corpo nudo) sono nate idee confusissime, ondeggianti, vaghe, spiega Marco A. Bazzocchi in questo saggio sul tema del corpo che “parla” nella letteratura italiana. 

Quando compare sulla scena letteraria il corpo è sempre portatore di scandalo. Quando si mostra, si esibisce, ostenta le sue corpo7parti, e anche quando viene sottoposto a censura, è sempre per provocare: il corpo parla per “far parlare”. 

Il libro di Michail Bachtin su Dostoevskij esce in Italia nel ’68, mentre quello su Rabelais e la cultura popolare viene pubblicato in francese negli anni settanta e tradotto in italiano nel ’79 [2] . Non è un caso che due momenti storici in cui la fisicità, la presenza del corpo agiscono come motori di rivoluzione siano accompagnati dalla teoria antropologica del comico e della festa tra le più importanti elaborate nel nostro secolo. Il corpo grottesco della cultura medievale, il corpo osceno che si impossessa dello spazio e mette in scena se stesso mostrando tutto ciò che la cultura borghese ha censurato (la bestemmia, la sessualità, il legame tra cibo, sacro e sesso) torna alla ribalta attraverso lo studio di culture arcaiche ma denuncia anche la propria definitiva scomparsa. Un saggio di Gianni Celati abbozzato nel 1971 e poi uscito in Finzioni occidentali [3] parla proprio del passaggio dai «giganti buffoni» alla «coscienza infelice». Celati inizia citando Bachtin a proposito della «concezione del corpo grottesco senza un centro o un dentro, senza una fissazione sul modello perfetto adulto, ma luogo di perpetui flussi che vanno dentro e fuori in forma di cibo e di escrementi». È il corpo che si spreca, che si disperde nello spazio in opposizione all’assetto moderno della cultura occidentale, accentratrice, produttiva, logocentrica. Al contrario, una tradizione che risale alle teorie della malinconia aristotelica e che arriva fino al romanticismo e poi a Breton insegue il mito di un io superiore, ascetico, «il soggetto che riordina a distanza l’oggettività senza partecipare al gioco mondano». Questo io astratto e superiore è l’io borghese moderno, l’io che ha condannato per sempre il corpo comico, che ne ha censurato la gesticolazione per riportarla dentro la sfera della malattia psichica (la nevrosi).

Leopardi aveva elaborato nello Zibaldone una teoria del nudo che rientra in questa logica. Tutto parte dall’idea diffusa che niente sia più spontaneo dell’amore: «Qual cosa pare più naturale, più inartifiziale, più spontanea, meno fattizia, più ingenita, meno acquistabile, più indipendente e più disgiunta dalle circostanze e dagli accidenti, che quel tal genere di sensibilità con cui l’uomo suol riguardare la donna, e la donna l’uomo, ed essere trasportato l’uno verso l’altra (…)?» [4] . Ma la «sensibilità» per Leopardi non può essere innata, è anzi un prodotto culturale, della storia. «Il genere umano naturalmente è nudo»: il corpo nello stato di natura non è nascosto, ma si offre spontaneamente allo sguardo. E se non c’è niente di nascosto, non c’è altro desiderio che quello carnale. Gli uomini sono spinti da questo che all’origine è desiderio «interamente, unicamente e manifestissimamente materiale». C’è però un taglio nella storia dell’uomo, una cesura che sovverte questa logica e coincide con l’introduzione dei vestiti, e di quelle leggi «fattizie ed arbitrarie di società che impediscono o difficultano il torli di mezzo quando si voglia ed occorra». Si verifica così l’evento fondamentale che scatena ogni tipo di fantasia amorosa, ciò che fa nascere gli eccessi della «sensibilità» (e i tormenti dell’anima romantica): «la donna all’uomo (massime al giovane inesperto), e l’uomo alla donna sono divenuti esseri quasi misteriosi». Il corpo è diventato misterioso, nascosto, arcano. Il passaggio dal corpo nudo al corpo vestito ha deviato la storia della cultura, ha prodotto l’insorgere degli effetti più travolgenti dell’immaginazione. Si è modellata una nuova disposizione del pensiero. Al posto di idee semplici e distinte (la presenza del corpo nudo) sono nate idee confusissime, ondeggianti, vaghe. Da una circostanza così materiale come l’uso del vestito «nasce nell’uomo un effetto il più spirituale quasi, che abbia mai luogo nel suo animo».

La teoria di Leopardi, elaborata sui principi del sensismo, è semplice ma ancor oggi di grande suggestione. Soprattutto se si pensa che implicitamente Leopardi afferma l’impossibilità di un ritorno al corpo primitivo, nudo, se non nella prospettiva di un fenomeno che intorbida la direzione di marcia dell’amore romantico, quella complessa struttura di cui ancor oggi siamo gli eredi [5] . E tanto più interessante diventa Leopardi se si legge in controluce al suo discorso un’affermazione della Juliette di Sade: «il pudore è una chimera; è il solo risultato dei costumi e dell’educazione, ciò che generalmente si definisce un’abitudine; avendo la natura creato nudi l’uomo e la donna, è impossibile che abbia infuso loro allo stesso tempo dell’avversione o della vergogna per mostrarsi tali. Se l’uomo avesse seguito sempre i principi della natura, non conoscerebbe il pudore: fatale verità che prova che esistono certe virtù che non hanno altra culla se non l’oblio totale delle leggi di natura». Uno storico dell’arte che ha fatto estendere i confini del carnevalesco fino alla rivoluzione francese includendovi Goya e Sade, Victor I. Stoichita, ha preso proprio questa pagina per dimostrare come in Sade la verità derivi sempre da un ribaltamento della morale, esattamente come avviene durante la festa del carnevale. Con una sola differenza: «Nel carnevale sadiano l’uomo non si maschera, si smaschera, e la nudità non è altro che il crudele palesarsi del suo essere più profondo» [6] . L’uomo vestito di Leopardi e l’uomo nudo di Sade sono le due facce dello stesso meccanismo antropologico. Il discorso amoroso nasce per Leopardi dal vestito, che crea mistero, il discorso filosofico per Sade può emergere solo dall’eliminazione del vestito. I suoi libertini teorizzano solo quando sono nudi, e quando dirigono con la parola una serie di modificazioni sul corpo delle vittime, iniziate al loro verbo. Il corpo nudo dice la verità, il corpo vestito segue gli inganni della fantasia (inganni inutili per Sade, inganni poetici per Leopardi).

 

Nel corpo della modernità

Il novecento sembra oscillare continuamente entro la polarità che abbiamo visto. O meglio: i due termini vengono ripresi, ridiscussi, spesso ibridati. In ogni caso, la memoria del carnevalesco, la dialettica corpo nudo – corpo vestito, la forza eversiva del corpo e della sessualità sono una costante nella cultura letteraria moderna. Cercherò di seguirne alcune linee (non tutte, naturalmente), portando una campionatura per ogni possibile aspetto del problema.
Se si guarda all’Italia, i corpi più evidenti che troviamo in opere letterarie sono, nella prima parte del secolo, almeno due: il corpo di Santa nella Luna e i falò di Pavese e il corpo di Liliana nel Pasticciaccio di Gadda. Non è una caso che entrambi siano corpi femminili, che entrambi abbiano una forte connotazione sessuale, che entrambi emergano all’interno delle rispettive strutture testuali nel momento della morte cruenta, della profanazione che tocca insieme bellezza e sessualità. Santa viene uccisa e bruciata dai partigiani perché il suo corpo troppo bello non spinga, anche morto, ad azioni turpi, Liliana viene uccisa e intorno al suo corpo violato si crea l’attenzione morbosa del commissario Ingravallo, degli astanti e implicitamente del lettore. Gadda non risolve il mistero dell’uccisione, ma quel corpo inerte permea di sé l’intero romanzo. La logica di Pavese e di Gadda è di fare ruotare intorno al corpo femminile un sistema simbolico con forti implicazioni psicanalitiche senza che si arrivi ad una precisa definizione del significato che l’esibizione dei due corpi riveste all’interno dei romanzi. Anguilla, voce narrante in Pavese, riceve la rivelazione sul destino di santa dall’amico Nuto, al termine di un intricato percorso di ricerca che si conclude col falò del sacrificio umano, Ingravallo, l’eroe cercatore di Gadda, interroga la verità nel volto di una serva che forse sa, e intravede in quel volto lo stesso segno del mistero che era stato scoperto dall’assassino di Liliana, il segno del sesso.

L’esempio più sintomatico di un persistere di elementi simbolici legati al corpo lo troviamo nei romanzi di Elsa Morante. In particolare ne prendo in considerazione due situati ai poli opposti della vita dell’autrice,L’isola di Arturo del 1957 e Aracoeli del 1982. In entrambi questi romanzi il gioco simbolico è condotto attraverso tre poli, il figlio, la madre, e, in posizione defilata nel secondo, il padre. L’isola di Arturo è il romanzo del sogno e dell’immaginazione sfrenata, in Aracoeli il sogno è diventato allucinazione e incubo. Arturo è colui che racconta, in prima persona, la sua storia di bambino e adolescente che non conosce la realtà e che si avvia alla conoscenza, il quarantenne Manuele racconta, sempre in prima persona, il suo viaggio nello spazio e nel tempo per ricongiungersi idealmente alla madre morta, Aracoeli. Il processo è parallelo e inverso: Arturo deve abbandonare l’isola se vuole diventare adulto, Manuele deve trovare il luogo d’origine della madre se vuole pacificare le sue memorie tormentate. Dietro a queste due invenzioni narrative la Morante nasconde uno stesso nucleo di pensiero che si potrebbe riassumere così: può l’immaginazione modificare il corpo, e ottenere dalla mutilazione del corpo reale la pienezza del corpo ideale? Nello scrivere una lettera a Debenedetti in occasione dell’uscita del romanzo di Arturo, la Morante dichiara di aver voluto semplicemente raccontare una sua fantasia infantile, quella di incarnarsi in un corpo maschile. Debenedetti non trascura questa indicazione, e al termine del suo saggio cerca di liberare il racconto dall’ipoteca di un caso di narcisismo assoluto. In realtà l’avviso della Morante tocca un livello profondo del testo. Tutto nell’Isola di Arturo riguarda il principio della trasformazione del corpo, condotta attraverso un’immaginazione insieme sfrenata e perversa. L’isola è lo spazio assoluto della trasformazione, spazio magico, dove i segnali dell’anomalia e della mescolanza sono molteplici. Vi domina una fauna animale di tipo meraviglioso, al confine con l’irreale, ed è sottomessa al dominio fatato della madre morta, che permea per Arturo l’atmosfera, appare in cielo come una santa della religione, e impedisce l’allontanamento come le sirene del mito. Questo spazio fisico è a sua volta diviso in due principi opposti, il dominio del padre, Wilhelm, e il dominio della matrigna Nunziata, quasi coetanea di Arturo e suo oggetto d’amore insieme al padre. Wilhelm incarna l’ideale estremo della bellezza e dell’eroismo, Nunziata, come le altre donne, è brutta e insignificante, ma si mostra rapidamente capace di affascinare e suscitare desiderio. Il corpo neutro di Arturo (che spesso coincide con il corpo materno dell’isola) si modella su questa opposizione, sottoposta a un doppio tabù. Wilhelm è omosessuale, e il destino di Arturo potrebbe essere quello di seguirne le scelte, Nunziata è la matrigna, e prospetta il pericolo dell’incesto. La storia di Arturo è la storia della doppia liberazione dal dominio della padre e della matrigna, ambedue oggetti di desiderio. Ma per raccontare questa storia la Morante ci mette di fronte continui simboli di ibridazione, di contaminazione tra generi, stili, frammenti mitici e fiabeschi che indicano le polarità opposte del maschile e del femminile, del passaggio dal mondo infantile a quello adulto, dalla magia dell’invenzione alla prosa del reale. La storia finisce quando Arturo abbandona l’isola: è l’entrata nel mondo, che la Morante, sempre con Debenedetti, definiva come il ritrovarsi vecchia e in un corpo di donna.

La marcia del percorso si inverte in Aracoeli, dove il cammino all’indietro nel tempo, sotto il dominio della fantasia che qui è allucinazione da droga, implica una ricomposizione del corpo smembrato e deformato dal tempo della crescita. Crescere per Manuele coincide con una doppia alterazione: il proprio corpo diventa brutto, e parallelamente il corpo della madre viene invaso da una malattia mentale che si scatena attraverso la ninfomania. Al contrario, il viaggio verso El Almendral, paese d’origine di Aracoeli, è anche il viaggio verso un “magico giardino” che corrisponde al mondo infantile di Totetaco, il nome con cui il bambino sillabava la residenza nel quartiere di Monte Sacro. Manuele cerca là l’immagine di Aracoeli bambina, cioè quell’Aracoeli che lui non ha conosciuto ma che corrisponde a un doppio di lui stesso. Anche qui la Morante prospetta una fantasia di ricongiunzione dove i poli della sessualità si annullano a vicenda in favore di un corpo perfetto e neutro, prodotto dalla sparizione del corpo di carne dell’uomo adulto. Tornati a uno stadio infantile, il figlio e la madre si ricongiungono specularmente in un’unione che abolisce le distinzioni volute dal tempo.

Questa fantasia è comunque destinata a essere ricacciata all’indietro nel corso stesso del racconto. La Morante non può lasciar sopravvivere un miraggio utopico di ricongiunzione. Ed è proprio un frammento del carnevalesco che torna fuori, nelle ultime pagine, a designare la cancellazione del corpo perfetto attraverso l’ostentazione del corpo comico e grottesco. Manuele ha appena fatto visita, per l’ultima volta, al padre, e si renderà conto, alla fine, di un amore per lui che non aveva mai voluto riconoscere (alcuni tratti del personaggio sono esplicitamente riconducibili alla figura di Pasolini). Nell’uscire dall’appartamento dove il padre gli si è rivelato con ribrezzo, degradato dalla malattia («Il ventre e lo stomaco sporgevano all’eccesso, innaturalmente, dal suo corpo smunto – sedentario e malnutrito; mentre certe chiazze sanguigne, estese e lievemente tumefatte, gli tendevano la pelle delle guance, colmandone i solchi e le rughe: per cui la sua faccia non compariva invecchiata, ma piuttosto regredita a una strana immaturità»), Manuele incontra una vecchia obesa che si trova alla fine delle scale, a terra, e gli ostacola il passaggio. Questo corpo deforme e grottesco che ride a sproposito, rovesciato a terra, senza che si riesca a farlo ritornare diritto, rappresenta la risoluzione comica della tragedia di Manuele. È il femminile nel suo aspetto perturbante e osceno, la maternità della vecchia Baubò che, nel mito greco, fa ridere Proserpina per favorire il ritorno della primavera e della rigenerazione. Non è un caso che la vecchia grassa e informe parli di morti e di tombe, e che alla fine Manuele la veda come «una morta annegata sull’orlo di una marina in tumulto». L’ultima immagine elaborata dalla Morante è l’immagine di un corpo che ingloba gli opposti, che ride della morte, che incarna il gigante irsuto delle favole infantili (il Coco, riconosce Manuele). Un corpo totale che rappresenta la molteplicità da cui ogni corpo individuale si distacca, con un processo tragico che la scrittrice ha messo al centro della sua opera. L’utopia infantile dell’isola di Arturo torna qui a incarnarsi, nel segno contrario della vecchiaia disgustosa alla quale solo la visionarietà allucinata di Manuele può sfuggire.

 

Il linguaggio del corpo

Secondo Michel Foucault tutti i discorsi che riguardano l’anomalia sono attraversati dal problema della sessualità. Dal XVI secolo le pratiche di confessione mettono il corpo del penitente al centro dell’attenzione, «il punto di focalizzazione dell’esame di coscienza … dev’essere adesso il corpo con tutti gli effetti di piacere che vi hanno sede» [7] . Mentre Foucault pronunciava queste parole, Pasolini stava girando, a ridosso della sua morte, il film ispirato a Sade e ambientato in una surreale Salò. Pasolini contamina le teorie sadiane, filtrate attraverso Barthes e Klossowski, con una struttura narrativa geometrica ispirata a Dante e Boccaccio. Al centro del film è il corpo nudo di alcuni ragazzi che vengono selezionati da quattro potenti signori e rinchiusi in una villa per essere sottoposti a ogni tipo di sevizie. Il potere mette in scena il teatro del corpo come teatro della crudeltà (Artaud è una presenza costante nella cultura italiana fin dagli anni sessanta).

TeoremaNel suo film Teorema Pasolini vuole ironicamente dimostrare che un “corpo” estraneo penetrato in quel sistema perfetto che è la famiglia borghese contamina il sistema e lo fa saltare in aria.

I signori espongono le loro teorie perverse attraverso la confessione illustrata dal dominio sui giovani corpi a loro sottomessi. Nel film tutto è sottoposto alle leggi dell’ambiguità: maschile e femminile si mescolano, sia nelle identità dei signori che in quelle delle vittime, la tragedia si ribalta nel carnevalesco sottolineato dalla presenza dell’oscenità e dell’escrementizio, il piacere diventa dolore. Pasolini, per giustificare questa sregolata esibizione della sessualità, ricorre alle regole artistiche dell’allegoria: il film è allegoria del potere della società neocapitalistica che usa i corpi come oggetti, che modella i corpi secondo le leggi del mercato. Ma il film è anche una continua esibizione del corpo, della sua bellezza, della sua manipolazione, del suo uso, fino alle torture strazianti della fine. Qui il corpo nudo grida la sua verità, anche se questa verità è sempre messa sotto silenzio dai signori che giocano un rituale perverso. Non si può negare che, parallelamente a quanto avviene sul piano della scrittura con Petrolio, Pasolini sta mettendo in scena una fantasia di annullamento nella sessualità che percorre molte sue opere. I corpi sono mescolati, in gruppo, osservati nell’insieme indistinto, hanno perso le singole qualità che potevano contraddistinguerli nel mondo pre-borghese. Cosa dice Pasolini, negli stessi anni, a proposito dei capelli lunghi, il segno più evidente di come il corpo possa parlare al di là del linguaggio articolato? Dice che i capelli in un primo momento hanno parlato il linguaggio della ribellione al mondo borghese, dell’indipendenza dei figli verso i padri, ma ben presto sono diventati un segno ambiguo: i figli non sono riusciti a trasformare in discorso razionale questa nuova qualità corporea. Il capitalismo, invece, è riuscito a impossessarsene, e i capelli lunghi sono stati ridotti a merce, e come merce sono entrati nel circuito internazionale delle mode, oggetti come gli altri che si imitano e si adattano a ogni situazione. I corpi sono diventati oggetti d’uso. Il loro uso a fini di piacere sessuale è ciò che li annulla sul piano delle qualità, compresa la bellezza. Per questo, l’ultimo uso possibile è quello che distrugge il corpo, lo fa letteralmente a pezzi attraverso la tortura.

Salò si ricongiunge idealmente al film che, nel 1968, aveva decretato il valore del corpo e della sessualità come ultima sovversione al mondo borghese, Teorema. Teorema è anche un’anomala opera scritta, a metà tra la sceneggiatura e il poema in prosa. Pasolini vuole ironicamente dimostrare che un “corpo” estraneo penetrato in quel sistema perfetto che è la famiglia borghese contamina il sistema e lo fa saltare in aria. Un ospite misterioso e bellissimo arriva in una grande villa del Nord e seduce, uno dopo l’altro, tutti i membri della famiglia, a cominciare dalla serva Emilia e passando attraverso il figlio Pietro, la figlia Odetta, la madre Lucia e il padre Paolo. Il «sesso sacro dell’ospite» (così scrive Pasolini) riporta nel mondo moderno la concretezza eversiva che il sacro aveva nelle culture antiche. Toccarlo significa rimanerne segnati e perdere se stessi. Ogni personaggio, nella differenziazione dei cinque destini, prende una strada diversa che porta all’incomunicabilità. I cinque destini ricoprono tutti gli ambiti del pensiero: la religione, la follia, l’arte, il sesso, il potere. Secondo il filosofo Gilles Deleuze, ogni “caso” del teorema immaginato da Pasolini riduce il rispettivo personaggio allo stato di corpo mummificato: «la figlia paralizzata, la madre fossilizzata nella propria ricerca erotica, il figlio con gli occhi bendati che urina sul proprio quadro, la serva in preda alla levitazione mistica, il padre animalizzato, naturalizzato» [8] . Il contatto con l’Ospite li ha condotti nello spazio vuoto del «deserto», immagine ricorrente nel film ed evocata dalla scrittura attraverso il ricordo biblico degli ebrei che attraversano il deserto e modellano l’immagine di Dio su questo spazio uniforme e continuo. Dio in Teorema è diventato il corpo bellissimo dell’Ospite che scende a portare scandalo, che crea sconvolgimenti irrimediabili. È lo spazio vuoto e uniforme del «fuori» a sostituire l’interiorità degli uomini borghesi. Forse in questo momento Pasolini pensa alla possibilità di un nuovo inizio, di un cammino salvifico attraverso l’ignoto. In Salò il deserto sarà sostituito dallo spazio chiuso della villa neoclassica, dentro al quale tutto si mescola e finisce nell’indistinzione.

 

Corpo comico e corpo tragico

Come ho accennato all’inizio, il tentativo più esplicito di riportare alla ribalta della scena culturale l’eversività del corpo festoso avviene nel corso degli anni settanta in parallelo all’esperienza della contestazione giovanile. Ho già fatto il nome di Celati, che di sicuro mette in atto strategie completamente opposte a quelle di Pasolini e pubblica nel 1976 sul «Verri» un discorso sui comici americani (i fratelli Marx, Stannlio e Ollio, Buster Keaton) dal titolo Il corpo comico nello spazio, interamente impostato sull’idea di Merleau-Ponty dell’opposizione tra corpo «come strumento di occupazione dello spazio» e corpo «come separazione e interpretazione a distanza dello spazio». Tutto quello che Celati a scritto fino a questo momento può essere letto in base al primo polo dell’opposizione, aggiungendovi un’originalissima interpretazione della letteratura comica (Swift, Joyce, Céline), uno specifico sperimentalismo linguistico che rimanda ai linguaggi anomali della follia (implicitamente, un discorso dove si incrociano Foucault e Deleuze) e un’attenzione al corpo che discende proprio dalle letture fenomenologiche. Nel retro di copertina di La banda dei sospiri Celati definisce l’opera un «romanzo d’infanzia» ambientato in una famiglia che è «un luogo concentrazionario come il manicomio, la fabbrica, la prigione il servizio militare», e aggiunge che il linguaggio della famiglia è scritto nel corpo di tutti, e che il suo racconto nasce dall’indiscrezione di «far parlare il corpo matto» [9] . Come è chiaro, tutti fatti che scavano in una direzione diversa da quella di Pasolini (in Teorema nessun corpo parla, alcuni lunghi monologhi teatrali sono impostati sul linguaggio della poesia), anche se forse non si dovrebbe dimenticare l’esperimento narrativo di Ragazzi di vita, dove l’occupazione corporea dello spazio è allargata a un’intera città e il linguaggio si fa pura scarica di tensioni corporee, anche se la presenza della voce autoriale (soprattutto nel versante lirico – descrittivo) è lontanissima da quanto la sperimentazione letteraria tenta a partire dagli anni settanta.

 La prima fase della scrittura di Celati si chiude in un certo senso con la sistematizzazione teorica di Finzioni occidentali, nel 1975 (l’anno dopo esce Lunario del paradiso). Al di là della previsione apocalittica di Pasolini il corpo riesce ancora a parlare, a trovare posture espressive che gli consentono di muoversi tra gli ingranaggi dell’universo borghese. A ridosso dell’insegnamento di Celati, il giovane Pier Vittorio Tondelli pubblica nel 1980 Altri libertini, un “road-movie” per il quale vengono spesi i nomi di Arbasino (il “parlato” come colonna sonora continua che risale a Fratelli d’Italia) e della “beat generation” (l’ambientazione negli spazi sordidi della provincia, l’ansia liberatoria del viaggio di iniziazione). Ancora una volta siamo in uno spazio del “fuori”, il corpo si esibisce secondo modalità comiche (l’esigenza di introiettare “roba”, di scambiare merci, di rovesciarsi nell’esteriorità fisica del sesso e del cibo), con l’aggiunta di un esplicito registro lirico-sentimentale che fa da collante, che rivela i tormenti di un desiderio non riconducibile solo a pura materialità. Questo secondo registro diventa dominante nell’ultimo romanzo di Tondelli, Camere separate. Qui il corpo può parlare solo a patto di scegliere la voce del patetico e del sentimentale (naturalmente, da intendere in accezione tecnica e non come giudizio di valore). Il romanzo è costruito attraverso l’incastro di una serie di immagini del corpo: il corpo malato di Thomas oggi, il corpo festoso degli amanti ieri, il corpo inerte del protagonista dopo la perdita di Thomas, il corpo in preda al desiderio omosessuale di tipo masochistico, il corpo dello scrittore che decide di annettere la vitalità dei corpi giovani nel corpo delle sue opere future. Anzi potremmo sintetizzare in un’unica formula: il libro racconta l’ edificazione di uno spazio di sopravvivenza postuma per il corpo dell’autore che prende coscienza della propria morte elaborando le pulsioni di tipo sessuale. Di fronte all’esperienza drammatica della perdita, Tondelli riesce a trovare una via d’uscita solo a patto di ricorrere al tema del romanzo di formazione dell’artista: non può rinunciare a congiungere nel nome della scrittura le due esperienze lancinanti della sessualità e della morte.

È ancora una ricaduta nel tragico che caratterizza questa esperienza centrale nella nostra letteratura. Da qui, e dal rapporto tra questa opera e l’iniziale Altri libertini, nasce gran parte delle scrittura dell’ultimo ventennio in Italia. Il corpo si trova stretto nella morsa del dilemma: o corpo che esibisce parossisticamente i propri organi nelle esperienza definite «cannibali» (non per niente, dei mangiatori di carne), dove tutto è ricondotto alla dimensione della merce e dei discorsi sulla merce (la televisione), o corpo che cerca un riscatto alleggerendosi nelle strutture rarefatte della confessione e dell’auscultazione della fisicità, come avviene nel recentissimo Nel condominio di carne di Valerio Magrelli [10] (che rovescia programmaticamente l’esperienza dei cannibali).

Note

[1] Questo breve percorso è la sintesi di un volume dedicato al corpo nella letteratura che l’autore pubblicherà presso Bruno Mondadori nel 2004 [Il saggio cui si fa menzione è Corpi che parlano. Il nudo nella letteratura italiana del Novecento,  uscito nel 2005 per Bruno Mondadori, Milano. Ndr.].
[2] Rispettivamente M. Bachtin, Dostoevskij: poetica e stilistica, Torino, Einaudi, 1968 e L’opera di Rabelais e la cultura popolare: riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Torino, Einaudi, 1979.[3] G. Celati, Finzioni occidentali, Torino, Einaudi, 1975.
[4] G. Leopardi, Zibaldone, a c. di R. Damiani, Milano, Meridiani Mondadori, 1997, (Zib. 1303-1306).
[5] Rimando al capitolo “L’amore romantico e altri legami”, in A. Giddens, La trasformazione dell’intimità: sessualità, amore ed erotismo nelle società moderne, Bologna, Il Mulino, 1990.
[6] V.I. Stoichita, A.M. Coderch, L’ultimo carnevale, Milano, Il Saggiatore, 2002, p.124.
[7] M. Foucault, Gli anormali, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 169. Si tratta del corso al Collège de France del 1974-75.
[8] G. Deleuze, L’immagine-tempo, Milano, Ubulibri, 1989, p. 189.
[9] G. Celati, La banda dei sospiri, Torino, Einaudi, 1976.
[10] V. Magrelli, Nel condominio di carne, Torino, Einaudi, 2003.


Bazzocchi MarcoAntonioMarco Antonio Bazzocchi è professore ordinario di Letteratura italiana contemporanea e Letteratura dell’età romantica. Tra i suoi interessi principali l'ermeneutica letteraria dedicata ad autori dell'800 e del 900, in particolare Leopardi, Pascoli, Pasolini, Campana. Gli ambiti di ricerca riguardano la rappresentazione della corporeità nel testo come veicolo di rappresentazioni simboliche, il rapporto tra letteratura e antropologia e la funzione della visualità nelle opere letterarie. Ha pubblicato saggi su Pasolini, Leopardi, la trasformazione dell'Italia attraverso la letteratura moderna.

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