E' la realtà narrata in “Welcome Venice” un film che spiega come la città è stata profondamente cambiata dall’industria turistica e il suo stesso spazio è divenuto un qualcosa da ‘vampirizzare’, una bellezza da rubare e da portare via, che ha trasformato Venezia in una sorta di non luogo.
Il protagonista del recente film di Andrea Segre, Welcome Venice (2021), è sicuramente lo spazio. Uno spazio urbano soggetto a un profondo cambiamento, come quello di Venezia. La storia è incentrata sui difficili rapporti fra tre fratelli, Piero, Alvise e Toni, pescatori di moeche (piccoli granchi che vengono pescati nel loro periodo di muta) dell’isola di Giudecca. Per una serie di circostanze, Piero e Alvise dovranno decidere se affidare la loro casa natale della Giudecca all’industria immobiliare che sta cambiando il volto di Venezia: Piero vorrebbe restare ma Alvise ha già preso la decisione di trasformare l’abitazione in un bed and breakfast per turisti.
Lo spazio veneziano tratteggiato nel film, come nel precedente documentario realizzato dal regista, Molecole (2020), è segnato nel profondo dall’emergenza pandemica e dalle conseguenti chiusure e viene mostrato mentre i suoi abitanti cercano di uscire da una situazione di estrema crisi.
Merito del film è sicuramente quello di offrire una visione ‘alternativa’ di Venezia, una città da sempre oggetto di una sovraesposizione spettacolare nel cinema e nelle pubblicità. Non ci viene mostrata la parte più esteticamente attraente della città, quella divenuta una vera e propria icona dell’industria dello spettacolo e del turismo, ma la parte più popolare, meno nota, l’isola di Giudecca e le “barene” (terreni lagunari periodicamente sommersi dalle maree) dove si recano i pescatori di moeche.
E comunque, nei rari momenti in cui vediamo Piazza San Marco e la Venezia più ‘turistica’, quest’ultima viene inquadrata da lontano, carezzata dalle luci del tramonto e incastonata perciò in uno sguardo poetico che la libera di qualsiasi incrostazione spettacolare.
Il cambiamento cui è soggetto lo spazio veneziano è lo stesso che investe i centri storici di diverse altre città ma Venezia ha la particolarità di essere costruita sull’acqua, un luogo in cui ci si sposta soltanto a piedi o in barca. Si tratta di un cambiamento sottoposto ai processi di gentrificazione (termine che traduce l’inglese gentrification), per cui uno spazio cittadino ‘autentico’ e proletario si trasforma in un luogo di pregio, dove le abitazioni originariamente semplici e popolari, una volta ristrutturate e riqualificate, diventano di lusso.
Cambia quindi profondamente anche la composizione sociale di questi spazi: al posto degli abitanti ‘nativi’, costretti a emigrare fuori città o nelle periferie, subentrano ricchi abitanti stranieri che trasformano quelle case in residenze per le vacanze, perciò chiuse per gran parte dell’anno. Il film racconta assai bene questa trasformazione: Alvise vuole entrare a far parte della nuova industria immobiliare che sta trasformando Venezia mentre Piero cerca di opporre una resistenza che diviene anche una significativa resistenza culturale. Del resto, il personaggio di Piero non è tratteggiato in modo banale, non è l’ingenuo e ottuso pescatore che non vuole lasciare il proprio luogo natìo. Si tratta invece di una figura molto complessa, piena di contraddizioni, alle prese con un passato non facile (diversi anni di galera alle spalle), quasi egli stesso ‘straniero’ nella sua piccola comunità. Appare perciò simile alla figura di Bepi, soprannominato “il Poeta”, il pescatore di Chioggia che stringe amicizia con Shun Li, immigrata dalla Cina, in un precedente film di Segre, Io sono Li (2011).
Come il “Poeta”, immigrato dalla Jugoslavia nella piccola comunità di Chioggia trenta anni prima, anche Piero, a causa della sua vita irregolare, sembra vivere ai margini della sua comunità, che comunque ama e sente sua. Proprio per questo, il pescatore veneziano sembra così ostinatamente attaccato ai suoi piccoli spazi di libertà.
Piero è vittima di un vero e proprio sradicamento dal suo spazio: come un nuovo migrante, vittima della gentrificazione, è costretto ad abbandonare l’isola di Giudecca per andare a vivere a Mestre. Si tratta “solo di dieci chilometri più in là, cosa vuoi che sia”, gli dice Alvise, ma sembra proprio che quei dieci chilometri rappresentino uno spazio insormontabile, una distanza incolmabile come quella che separa dai loro paesi di origine altre figure di immigrati raccontati dal cinema di Andrea Segre, come la già citata Shun Li, giovane cinese emigrata prima a Roma poi a Chioggia in Io sono Li, o il togolese Dani che, dopo aver attraversato il Mediterraneo a rischio della propria vita, è accolto con la sua bambina in una comunità del Trentino in La prima neve (2013).
È in una prospettiva straniante che la macchina da presa ci mostra il risveglio di Piero nella sua nuova casa di Mestre, nel momento in cui si affaccia alla finestra e scruta i tetti cittadini solcati da fumi industriali mentre lo sfondo sonoro è occupato dagli invasivi rumori del traffico. È un altro mondo, estremamente lontano dagli spazi della casa della Giudecca, in cui Piero cucinava i suoi granchi all’aperto, in un affaccio sulla laguna.
Il mutamento cui è stato sottoposto lo spazio cittadino veneziano può essere leggibile attraverso la chiave di interpretazione offerta da Franco La Cecla in Mente locale, la cui analisi procede secondo un’ottica diacronica, prendendo in considerazione il cambiamento cui è stato sottoposto lo spazio abitativo cittadino. L’assunto principale è che il «nostro spazio», oggi, «è sempre meno nostro». La dimensione spaziale cittadina, dai marciapiedi alle strade fino agli spazi interni degli appartamenti, è stata sottoposta a un graduale processo di incasellamento, di creazione di griglie e di canali, di flussi preordinati entro i quali si svolge la nostra vita.
La ricollocazione turistica degli spazi urbani ha agito quasi come le demolizioni e gli sventramenti cittadini operati nel corso del Novecento. Secondo La Cecla, «viene spazzato via dal paesaggio urbano uno spazio irregolare e invadente, quello di un abitare fuori e dentro la porta e di un modellare per casupole, banconi, affacci, tende, mercati, impasses e cortili lo spazio delle città, delle piazze e dei monumenti».
La pratica di incasellamento cui le città sono state sottoposte – continua lo studioso – provoca un vero e proprio «spazio sradicato» generando negli ultimi decenni una sempre più frequente «mobilità volontaria o forzata», che «non è quella del muoversi dei nomadi, ma del vagare di chi si è perduto».
Anche Piero vaga come chi si è perduto: al mattino lo vediamo seduto in un autobus diretto da Mestre a Venezia, in uno spazio non suo, solcato dagli impianti industriali. Il personaggio è stato sradicato dal suo piccolo spazio di libertà che, a fatica, si era riguadagnato dopo le sue vicissitudini esistenziali. È stato allontanato dalla laguna, dall’isola di Giudecca e dal suo microcosmo popolare.
Venezia è stata profondamente cambiata dall’industria turistica e il suo stesso spazio è divenuto qualcosa da ‘vampirizzare’, una bellezza da rubare e da portare via. La città si è trasformata in una sorta di non luogo: ai turisti che vediamo nel film e che hanno affittato il bed and breakfast, alla fine, non importa nulla vivere lo spazio veneziano. Se ne sono stati tutto il tempo del loro soggiorno chiusi in casa a mangiare pizza e sushi, anch’essi cibi che caratterizzano i ‘non luoghi’ perché si possono trovare ormai in qualsiasi parte del mondo globalizzato. Il turismo, come ha osservato Rodolphe Christin, velocizza e spersonalizza qualsiasi dimensione di viaggio compiendo una vera e propria «usura del mondo».
Forse, gli unici spazi veneziani rimasti autentici sono quelli in cui si recano i pescatori a svolgere il proprio lavoro, caratterizzati da una natura ostile. La macchina da presa inquadra i personaggi inseriti nello scenario lagunare e sembra iconograficamente consegnarli alla propria solitudine, fra i pochi rimasti a svolgere il loro lavoro tradizionale, fra i pochi rimasti a potersi permettere di vivere in una città che da anni sta inesorabilmente cambiando.
Perché ormai, come sottolinea il regista in un incontro col pubblico dopo la proiezione del film, sono davvero pochi i veneziani che possono permettersi di vivere a Venezia. Sono davvero poche le persone ‘normali’, con uno stipendio ‘normale’, che possono rimanere nella propria città, trasformatasi in una sorta di museo a cielo aperto e, per questo, ormai troppo costosa per essere vissuta a meno di non essere ricchi uomini d’affari o milionari americani o inglesi che comprano appartamenti per abitarli sì e no quaranta giorni all’anno.
Il centro storico di Venezia si è ormai trasformato in un museo e in una boutique. Come sottolinea ancora La Cecla, alla luce dell’emergenza Covid, è necessario liberare i centri storici dalla boutiquizzazione, che non vuol dire liberarli da negozi e mercati, ma farvi tornare una densa residenza. E poi l’insieme delle città dovrebbero prendere la strada del plein air, considerare come la chiusura della gente nelle proprie case sia il principio di diffusione dei contagi.
La vita all’aperto, in centro, significa tornare a una città di gallerie, passages, pensiline, cortili, ponti sospesi, giardini pensili, campi da gioco, tavoli e sedie, esposizioni, padiglioni, chioschi, giardini, corridoi di piante, fruttivendoli, friggitorie, banchetti di venditori, barbieri, teatri e cinema di strada, fiorai, musicisti e funamboli, rigattieri. Se vi sembra una visione del passato, aggiungeteci quello che vi piace, dal digitale per strada all’intelligenza artificiale, ma attenzione perché le smart cities sono già un fallimento dentro alla pandemia, anzi sono quello che la pandemia ci offre, un surrogato di vita en plein air e in presenza.
Non dimentichiamo, infatti, che la Venezia mostrata dal regista è anche uno spazio reso fantasma dall’emergenza pandemica, come già nel precedente Molecole. La troupe si trova a girare in spazi quasi surreali e intende testimoniare narrativamente la condizione quasi ‘surreale’ di una città attraversata da mille problemi e contraddizioni, anche legate alla stringente attualità. Il cinema di Andrea Segre si conferma ancora una volta potentemente militante, un cinema che riesce a parlarci del mondo reale e delle sue contraddizioni, qui e ora.
A parlarci di spazi contemporanei in cui a dover fare i conti con la realtà sono, più che mai, esseri umani immersi fino al collo in quella stessa realtà, come ad esempio i migranti, coloro che per cause indipendenti dalla loro volontà sono costretti a lasciare i propri luoghi e i propri cari.
Una realtà che però non suona mai banale, sempre guardata per mezzo di un filtro artistico e poetico. Un filtro che, comunque, non nasconde le sue mille problematiche e contraddizioni ma che, anzi, per mezzo di un sapiente gioco di contrasti, sembra metterle ancora più in evidenza.
Paolo Lago è dottore di ricerca in Letterature e Scienze della Letteratura e in Scienze Linguistiche, filologiche e letterarie. Si è occupato di romanzo latino, ritorno dell’antico, estetica del romanzo, letteratura e cinema. Fra le sue monografie più recenti: L’ombra corsara di Menippo. La linea culturale menippea, fra letteratura e cinema, da Pasolini a Arbasino e Fellini (Le Monnier, 2007); La nave, lo spazio e l’Altro. L’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema (Mimesis, 2016); Il vampiro, il mostro, il folle. Tre incontri con l’Altro in Herzog, Lynch, Tarkowskij (Clinamen, 2019); Lo spazio e il deserto nel cinema di Pasolini, Edipo re, Teorema, Porcile, Medea (Mimesis, 2020). Ha pubblicato le raccolte di poesie I pirati del Sud (Campanotto, 2018) e La rosa di Pola (Transeuropa, 2019). Collabora con diverse riviste cartacee e online, fra cui “Carmilla”, “Il Pickwick”, “Alias”.