In «Siberia» in compagnia di Jack London
Abel Ferrara ha accanto a sé il suo complice, il suo vicino di casa al quartiere Esquilino di Roma dove si ostinano dopo anni a bofonchiare appena qualche parola in italiano, il padrino della sua piccola figlia avuta a 66 anni, l’attore con cui ha girato sei film, Willem Dafoe, che torna alla Berlinale due anni dopo l’Orso alla carriera.
Willem alter ego di Abel? I due sorridono, lo negano senza crederci troppo.
Abel, una volta in mare c’erano i messaggi nella bottiglia: qui, nella scena finale, appare un pesce parlante: cosa dice?
«Che ognuno di noi è responsabile delle proprie azioni, che è un po’ quello che sostenevo nel mio precedente film, Tommaso. E poi dice che la fine del mondo è vicina». Interviene Willem: «Di questa storia del pesce parlante, Abel me ne parla da anni. Mi ha raccontato che è una storia vera, di cui si parlò molto, avvenuta negli anni 90 in una pescheria della comunità ebraica di New York». Abel: «Il pesce giusto della scena l’ha scelto Willem. Eravamo sotto a una tempesta di neve e stavo cercando di trasformare un pesce in una esperienza cinematografica».
Il regista afferma che «realtà e sogno sono mondi paralleli non così distanti». Dice di non aver messo in scena i suoi incubi. Eppure Willem Dafoe nel viaggio interiore con la slitta, viene aggredito dai lupi, precipita in un dirupo, assiste a esecuzioni sommarie in una grotta, osserva una nana in carrozzina e giace con una mostruosa donna anziana che ha le viscere di fuori.
Chiediamo al regista come fa a professarsi buddhista, che è un invito alla meditazione, con gli antichi demoni che ancora abitano la sua mente, come si conciliano calma interiore e violenza? Non riesce bene a trovare le parole, poi dice: «Penso di essermi riconciliato col passato, quello che mi interessa è far emergere esperienze e potenzialità di ciò che siamo, mi interessa far emergere la vita». Il vento sibila, i cani abbaiano.
E c’è tanta neve. Questo paesaggio «mentale», il più distante dove un uomo può andare, lontano da un’idea di comunità, è stato ritrovato in Alto Adige. «Ho creato immagini e suggestioni con cui ho convissuto, è l’universo di Jack London. Ho pensato anche a Solgenitsin, non per cercare un legame tra l’esilio volontario del mio protagonista e il confino nel gulag dello scrittore russo, ma per il suo rapporto con la natura e il regno animale».
Valerio Cappelli