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Da alcuni giorni circola in rete un video della cantante americana Joan Baez fatto in casa - nella sua cucina - quale tributo all’Italia che affronta di petto la virulenza del COVID-19.
“L’Italia che canta dai balconi è una fonte d’ispirazione e di forza”, dice la Baez, prima di imbracciare la sua chitarra e cantare in italiano il successo di Gianni Morandi del 1967 Un mondo d’amore.
È la canzone appartenuta da un certo momento in poi, quale ambasceria, al repertorio fisso della Baez quando veniva in Italia per esibirsi.
Ripensando infatti al 1967 di quella canzone, lo possiamo ricordare come l’anno della solidarietà perché fu proprio il mondo delle arti appunto a ribellarsi – da più parti – alle devastanti politiche di odio che funestavano il pianeta.
Fu l’anno della Guerra dei sei giorni tra Israele e Egitto, della Guerra civile in Nigeria, della Guerra civile in Sudan, del Golpe militare in Grecia, della morte di Che Guevara, dell’inizio della dittatura in Romania di Nicolae Ceaușescu e per finire del culmine della Guerra in Vietnam quale salasso fiscale e di vite per gli Stati Uniti.
Dove appunto tanti incominciarono a dire il loro No! a viso scoperto, contro la politica guerrafondaia che portò 58.000 soldati americani alla morte, come tra la popolazione del Vietnam – nell’incertezza degli storici – di una cifra da mezzo milione in su.
Con Un mondo d’amore Joan Baez apre in tutta dolcezza, col suo italiano un po’ stentato, e con eleganza femminile al massimo grado, la botola dell’imbarazzo esattamente laddove serve: in Europa.
Cantandola solidale verso l’Italia piagata dal Coronavirus, Joan Baez impone come icona la forza stessa della solidarietà, che non dovrebbe conoscere bandiere, ma affidarsi a un più alto valore nel senso di giustizia. Solidarietà che manca in decisioni finanziarie tra le nazioni della così detta Europa Unita in preda come sempre alle febbri degli egoismi nazionali, nella conta dei centesimi per affrontare – si millanta “insieme” - il Coronavirus.
Solidarietà carente nella famigerata vicenda di Siria e Nord Africa con le porte d’Europa chiuse in faccia ai rifugiati e il Mediterraneo come cimitero. Solidarietà che continua a mancare tra le nazioni tutte, intente a salvarsi da un virus da tanti negato, che pur mette a nudo il re nel richiudere i confini tra Paesi – come se servisse a sconfiggere il COVID-19 – e addirittura come in Ungheria a spingere un Parlamento a esautorarsi, per dare pieni poteri al populista, nazionalista di estrema destra Viktor Orbán.
Bianca e famosa in una società che si sente la più potente e indiscussa, ma senza previdenza sociale e per questo in ginocchio davanti al Coronavirus, Joan Baez continua a stringersi solidale nella lotta politica, come fece da ragazza per il Vietnam, per i diritti degli omosessuali e coesa – manganellate incluse - a un altro grande personaggio, stavolta nero, che in quello stesso 1967 con il suo No! reclamava insieme a Martin Luther King (ucciso nel 1968), la fratellanza tra i popoli tutti: il pugile afroamericano Muhammad Ali.
Lui era più veloce, più intelligente e mille volte più bello dei suoi avversari. Morto nel 2016, non è ancora solo il miglior pugile di tutti i tempi, ma anche la bocca più sfrontata di tante altre bocche del suo tempo e nello sport.
Nella primavera del 1967 era al culmine della sua carriera, quando il Presidente degli Stati Uniti Lyndon B. Johnson aumentò le truppe da combattimento statunitensi a 400.000 soldati in Vietnam. Circa il 40 per cento dei soldati era afroamericano, sebbene la loro quota nella popolazione fosse di poco superiore al dieci percento. Ali, che abbandonò - come diceva - il suo "nome da schiavo" Cassius Clay facendosi chiamare Muhammad Ali, quella guerra in Vietnam la respinse. "La mia coscienza non mi permette di sparare a un fratello.
Per cosa dovrei sparargli? Nessun Vietcong mi ha mai chiamato "negro " disse a un giornalista in strada dopo la sua liberazione dal carcere. Alì aveva da scegliere: poteva rimanere fedele al suo credo, con la punizione che spettava a un reticente alla causa della patria, o arruolarsi per il servizio militare, potendo continuare a battere i suoi avversari sul ring.
Alì prese una decisione: si rifiutò di prestare servizio militare e non gli fu concessa una licenza di boxe per tre anni, nel periodo di massimo splendore della propria resa fisica.
Fu condannato infatti a cinque anni di prigione e a una multa di 10.000 dollari. Restando però a piede libero dopo aver pagato anche la salatissima cauzione.
Grazie al suo No! l’attenzione mediatica intorno a lui, gli permise di avere medie entrate per sopravvivere.
Fu difatti invitato in diversi programmi televisivi, concesse tante interviste che frattanto lo trasformarono in un’icona culturale oltre che sportiva.
Nero, pacifista, profondamente attaccato al suo paese, ma non ciecamente coinvolto in una guerra che si dimostrò per gli Stati Uniti una disfatta non solo militare ma d’immagine.
Come le molte accumulate nella storia, anche recente. Fu quella sua ragione su tutti i fronti che tenne viva la fiamma dell’icona nello sport, pronta a riprendere il suo posto sul ring quando nel 1970 gli fu restituita la licenza.
Con Joan Baez, Muhammad Ali e da una generazione che le sue battaglie le ha iniziate e vinte, possiamo guardare al grande prato verde dove nascono speranze; è quel grande prato dell’amore.
Salvatore Trapani vive a Berlino dal 1998. Ha corrisposto per le pagine di cinema e cultura del periodico romano Shalom-Mensile e del quotidiano nazionale Il Giornale. Si occupa di memoria storica e arti visive cooperando come referente alla formazione per il Memoriale agli Ebrei uccisi d’Europa a Berlino, per il Memoriale dell’ex campo di concentramento femminile di Ravensbrück per l’Isituto Storico di Reggio Emilia, ISTORECO, dove ha fondato il progetto A.R.S. – Art Resistance Shoah. È anche autore di novelle (Edizioni Croce) e per saggistica (Editrice Viella). Si chiama Denoument il suo sito tutto dedicato al Cinema.(https://www.denouement.it/).