È nata l'umanità con il «complesso di Orfeo»
La digitalizzazione sta convertendo gli esseri umani in numeri e con essi la scala dei valori e la memoria stessa del passato.
Ho sempre deprecato il proliferare del lessico filosofico nel corso dei secoli, mi è sempre sembrato che la storia della filosofia fosse una storia di incomprensioni lessicali: sarebbe dunque onesto dichiarare, all’inizio di ogni nostro discorso, l’inaffidabilità dello strumento di cui ci serviamo.
Nell’ultimo anno molte delle parole e delle categorie che usavamo per definire la nostra realtà sociale hanno perso ogni consistenza. Ce ne sono state offerte prontamente delle altre quali distanziamento sociale, didattica a distanza, assembramento… Chiedo scusa dunque se quest’articolo procede a tentoni: a me mancano ancora le parole per descrivere tutto questo.
Un mio collega e amico si è dichiarato favorevole alla chiusura totale nel periodo natalizio: il problema sono gli ospedali e un “paese civile” non può far morire la gente. L’ha detto con convinzione e io, come con lui mi capita spesso, non ho saputo ribattere in alcun modo.
Qualche giorno fa un altro mio caro amico mi ha detto che non sarebbe passato a casa mia per chiacchierare delle nostre rispettive vite e stare un po’ assieme, così come avevamo concordato da qualche giorno. Mi scrive per dirmi che il giorno di Natale intende vedere i suoi genitori e che dunque, nei giorni precedenti, preferisce evitare ogni rischio di contagio e vedersi all’aperto. Ero dispiaciuta e un po’ irritata.
Mia nonna ha insistito perché la cena della vigilia fosse il più normale possibile, siamo andati da lei a due a due e abbiamo cenato in fretta e furia, per il resto è stato tutto uguale agli altri anni. Il mio fidanzato era contrario, non solo perché significava violare la legge, ma anche perché si sarebbe trattato di un assembramento. Posso dire a mia discolpa che l’ultimo decreto non era chiaro e che ci eravamo assembrati fino alla domenica prima e che quindi non ci sarebbe stata una gran differenza. Mi sono ugualmente sentita in colpa, per la nonna e per la legge. Gli ho detto, dopo averci pensato un po’ su, che poteva fare come desiderava e che non me la sarei presa in nessun caso; alla fine ha partecipato alla cena.
Scrivo questo articolo anche per rispondere a queste tre persone. Come mi è accaduto spesso nel corso della mia vita, infatti, mi trovo a dover ribattere non avendo subito sotto mano gli strumenti e le categorie linguistiche e di pensiero per farlo; giungere all’origine del mio dissenso mi costa dunque una certa fatica. Voglio dir loro che le mie prese di posizione non sono frutto di superficialità né sono legate solo al mio temperamento.
Come verrà chiamata la nostra epoca? Quale sarà il suo colore, la sua nota dominante, il suo sapore? Se ancora qualche anno fa mi ponevo questa domanda, ora la risposta mi è chiara: è l’epoca del iper-razionalismo e dello scientismo, un’epoca davvero digitale dove per digitale si intende, secondo il dizionario, di “apparecchi che trattano grandezze sotto forma numerica, cioè convertendo i loro valori in numeri”. L’era digitale è dunque il regno della quantità, della traduzione dell’uomo e della vita in numero, è un’era nella quale in ogni campo del sapere e dell’azione si pretende che, dato un input, sia prevedibile e calcolabile l’output. Si tenta, come mi è già capitato di affermare, di abolire ciò che sta nel mezzo, ossia l’essere umano. Lo si vede in ogni campo, da decenni; è questo il fondamento della cosiddetta digitalizzazione: la riduzione a numero.
Ogni fenomeno storico, però, non è assoluto, in gioco ci sono forze e controforze. Mi sono sempre immaginata la storia come una sorta di fiume che cambia colore a seconda dell’epoca che prendiamo in considerazione. Il colore dominante è uno per ogni epoca, ma nella corrente ci sono ruscelli sotterranei e mulinelli di altri colori, forze controcorrente, residui di correnti passate. Ognuno deve seguire la propria via e non ci si deve scoraggiare poi troppo se si fa parte di una forza che soccombe.
Scriveva nel 1944 T.S. Elliot:
Nell’epoca nostra, quando gli uomini sembrano essere più portati a confondere la saggezza con la dottrina e la dottrina con l’informazione e a cercare di risolvere i problemi della vita in termini di ingegneria, sta sviluppandosi una nuova specie di provincialismo che forse merita anch’esso un nome nuovo. È un provincialismo non di spazio, ma di tempo, per cui la storia non è che la cronaca delle invenzioni umane via via superate e messe da parte, e il mondo proprietà esclusiva dei vivi, una proprietà di cui i morti non possiedono azioni
L’uomo del XXI secolo, o per lo meno l’uomo che fa parte della corrente storica dominante, è un provinciale del tempo, un senza memoria, un nano che ha ben pensato di scendere dalle spalle dei giganti. Non vuole più girarsi indietro, ha quello che Jean-Claud Michea chiama “il complesso di Orfeo”. Vede solo se stesso, i propri modelli, la propria spiegazione del mondo e il proprio criterio di verità. Se ricordiamo poi che per Platone la memoria è la via del sapere e che conoscere significa solo richiamare alla memoria una conoscenza che è già in noi, il quadro si fa desolante.
Anche senza supporre che esistano diverse visioni del mondo, è lo stesso paradigma dei provinciali del tempo a soffrire di una fallacia logica. Essi stessi affermano che la medicina, fino ad un certo punto, ha fatto più danni che altro, essi stessi ritengono quasi ogni teoria medica passata risibile, sciocca, frutto di ignoranza e superstizione. Ridono degli uomini di due secoli fa, di cent’anni fa, di dieci anni fa: ridono insomma, uomini senza memoria né scienza, di se stessi. Il tempo, al giorno d’oggi, pare correre sempre più veloce, presto la scienza vedrà le cose da un altro punto di vista, offrirà nuovi modelli, nuove interpretazioni, nuove cure: i provinciali le accoglieranno come nuove verità e rideranno di quelle odierne come menzogne superate.
All’interno dello stesso mondo medico-scientifico ci sono uomini sciocchi e uomini intelligenti, uomini provinciali e uomini che non lo sono affatto. L’interpretazione che ci viene data in pasto dai media non può né deve essere definita quella scientifica sic et simpliciter.
Ci sono moltissimi uomini di scienza che sono ben degni di questo nome e sanno pertanto che la loro disciplina è il luogo dell’incertezza e del dibattito, che ogni teoria è un modello, un’approssimazione, non una verità. Definirei, per tanto, l’interpretazione che ci viene offerta da quasi tutti i mezzi di informazione come un’iper-semplificazione figlia di uno scientismo populista. Esistono, infatti, tre fattori principali che determinano l’insorgere di una malattia di natura virale o batterica: l’agente patogeno, l’ambiente e l’organismo ospitante.
Nell’interpretazione dominante tutto viene ridotto, per semplicità, all’agente patogeno, all’input. Se io entro in contatto con il virus sto male (unico output previsto) e ciò determina un pericolo per la sopravvivenza mia e degli altri uomini, se io non entro in contatto con il virus non sto male e non vi è pericolo. Gli uomini sono veicolo di contagio. Se io dunque evito ogni forma di contatto con l’altro uomo, evito di propagare il contagio e di mettere in pericolo me stesso e gli altri. Bisogna dunque evitare ogni forma di contatto con gli esseri umani (unica soluzione prevista: l’abolizione del prossimo di cui parla Agamben in A che punto siamo?).
Secondo tale interpretazione, quindi, non solo si parte dal presupposto che l’uomo è solo un corpo e che la vita è solo sopravvivenza del corpo, ma viene del tutto annullata la complessità del fenomeno. Viene offerta una spiegazione semplice. Falsa anche secondo i criteri di verità che lo stesso mondo medico-scientifico si dà, ma semplice. Mi è stato detto da un amico che, come i ragazzini, anche la gente ha bisogno di regole semplici.
In ogni caso, però, esistono tuttora e sono sempre esistite altre interpretazioni dei fenomeni rispetto a quella che, in senso lato questa volta, possiamo chiamare scientifica. Una delle più antiche domande del genere umano, infatti, riguarda le ragioni dell’esistenza del male: perché la vecchiaia, la malattia, la morte? Vi sono state, nel corso dei secoli diverse risposte: il male come punizione di una colpa, il male come necessità, il male come fonte di conoscenza e crescita interiore, il male come mistero. Tutte dimenticate e abolite dallo scientismo populista, così come da decenni la nostra società ha abolito la dignità della vecchiaia e il pensiero stesso della morte. Quando morire era più semplice, la gente ne aveva meno paura. Quando morire era più semplice, la gente aveva più energia e più amore per la vita nel senso più pieno del termine.
TRA DOSTOEVSKIj AGAMBEN E LA "RELIGIONE DELLA SALUTE"
Tali diverse interpretazioni dovrebbero, in teoria, esistere tuttora: la questione del male, infatti, è una delle questioni principali per numerosi sistemi filosofici e per pressoché tutte le religioni. Dobbiamo tristemente constatare, però, che l’unico credo rimasto a livello globale è quello che Agamben chiama nuova “religione della salute”, un culto che propone regole semplici e rapide soluzioni, non lascia posto alla complessità, non al dubbio né al dissenso. Se, come ricorda lo stesso Agamben, la maggior parte di noi è stata disposta a rinunciare del tutto alle proprie idee, alle proprie credenze e alla propria quotidianità in nome di questo nuovo culto, significa, purtroppo, che ciò che avevamo era privo di un vero e stabile fondamento, era solo un paravento dietro al quale nascondevamo quell’invincibile noia che caratterizza l’uomo contemporaneo, noia che ora è stata sostituita dalla paura. Forse però la libertà, soprattutto quella di pensiero, è sempre stata troppo dolorosa e quindi mal accetta dal genere umano, “giacché nulla mai è stato per l’uomo e per la società umana più intollerabile della libertà”, così ne I fratelli Karamazov il Grande Inquisitore rinfaccia a Cristo l’assurdità del libero arbitrio.
Complessità, dubbio, dissenso si chiamano oggi negazionismo e complottismo. La spiegazione dei media, fornita a livello globale, è considerata la più semplice, la più razionale e, credo, la più funzionale. I cosiddetti complottisti di contro offrono una spiegazione altrettanto semplice e razionale, che ha il pregio, però, di non voler sistematicamente abolire la variabile umana e che, anzi, dei suoi lati deteriori tiene ben conto. Ma anche non volendo sottoscrivere la teoria del Great Reset, mi sembra che ci siamo del tutto dimenticati di tremila anni di storia del pensiero.
Un “paese civile” non lascia morire la gente negli ospedali? Può essere, ma non lascia nemmeno soli gli anziani nelle case di riposo senza possibilità di vedere per mesi e mesi i propri cari. Chiediamolo a loro se preferiscono una sopravvivenza simile a quella del vegetale o una carezza da parte dei loro figli. Anche in questo caso vige la regola della quantità: i vecchi sopravvivono un anno un giorno un mese in più, ma, senza gli affetti, non vivono davvero. Un “paese civile” non impedisce (vale sempre la pena ricordarlo) di celebrare le esequie funebri, così come è accaduto nel marzo scorso. Non impedisce ai ragazzi di vivere la propria adolescenza, di crescere e di cogliere le possibilità che la vita offre loro. Anche considerando le cose da un punto di vista scientifico, alla condizione psicofisica dell’organismo ospitante prima di entrare in contatto con il virus nessuno pensa più: sarebbe troppo complesso, poco prevedibile e difficilmente calcolabile. Forse, invece, abbracci e carezze ci renderebbero tutti più forti e più umani.
Mi si chiede: cosa ti costa rimandare a tempi migliori un aperitivo o un pranzo in famiglia? Voglio testimoniare, per quanto mi è possibile, la complessità di questa situazione, la complessità di ogni situazione. Voglio ragionare in termini di qualità e non di quantità. Non voglio che la vita umana sia ridotta a quella biologica e l’uomo al suo corpo. Voglio per lo meno ricordare che ci sono state epoche per le quali la vita, la morte e l’uomo erano molto più di una semplice questione biochimica. Per quanto io sia ben consapevole di non far parte della corrente dominante di questo secolo, credo sia necessario che ognuno faccia la propria parte perché, come ricorda la Bhagavad-Gita è sempre meglio morire seguendo la propria legge che sopravvivere seguendo quella degli altri.
Eleonora Zeper ha studiato lettere classiche e filosofia antica fra Trieste e Roma, collabora con il periodico culturale Charta Sporca e insegna con passione materie umanistiche in un liceo della sua città, Trieste.