La Venezia di tutti per il profitto di pochi
La «parola d’ordine è che le fabbriche diventino alberghi, gli operai camerieri», la Laguna «un terreno di conquista per investitori stranieri», l’Arsenale è stato «spartito», il Fontego dei Tedeschi regalato a Benetton. L' assurdo è che c'è anche chi si senta in dovere di ringraziare quei pochi che si stanno prendendo Venezia per un tozzo di pane. Quella che è stata la città per eccellenza nell’immaginario occidentale è stata, svuotata, privatizzata, devasta nel suo essere, come denuncia Paola Somma nel libro Privati di Venezia di cui pubblichiamo l'introduzione.
Apparentemente contraddittorie, le due visioni sono complementari e accomunate dal fatto che in entrambe non c'è spazio per gli abitanti. Non solo i rappresentanti delle pubbliche istituzioni hanno, da tempo, dichiarato loro guerra, ma anche chi auspica il ritorno di una popolazione stabile e il ripristino di una mescolanza di attività non allude a persone di reddito e status sociale paragonabile a quello di chi è stato cacciato, ma agli esponenti della cosiddetta "classe creativa", nomadi cosmopoliti in grado di apprezzare, e di pagare, la bellezza della città.
E a conferma che le previsioni, di chi pensava che dopo la pandemia sanità e servizi pubblici non sarebbero più tornati come prima, si sono realizzate, ma in senso opposto alle loro aspettative, non pochi degli edifici trasformati in albergo, o in corso di diventarlo, erano ospedali, residenze per anziani, conventi e scuole.
Ora, l'inizio del nuovo "rinascimento veneziano" è certificato dal ritorno delle grandi navi, dai maxifinanziamenti alla Biennale, che deve essere premiata per il suo ruolo di grande attratto re di turisti, e dai preparativi per la riunione del G20, durante la quale la città tornerà "zona rossa".
Le vicende di cui si parla nel volume sono note, ma non sembra sufficientemente diffusa la consapevolezza di come i singoli casi siano tra loro collegati e tutti trovino una logica collocazione nel progetto di ridisegnare la città per renderla appetibile agli investitori.
I primi sei capitoli si concentrano su aspetti particolari della privatizzazione di Venezia e sottolineano il contributo alla sua riconfigurazione e alla destinazione di ogni sua parte ad una specifica clientela: le isole della Laguna convertite in oasi a sette stelle; le aree attorno a piazza San Marco, a Rialto e alla stazione ferroviaria trasformate in recinti commerciali tra loro connessi da corridoi pattugliati dalla polizia municipale; la zona dal ponte dell' Accademia alla chiesa della Salute e le sempre più numerose location occupate dalla Biennale cedute al cosiddetto turismo d'arte. Solo lo spazio residuale al di fuori di questi compounds più o meno fortificati è lasciato ai cittadini superstiti che se lo devono contendere con il "turismo straccione".
Tale operazione non avrebbe potuto essere portata a termine senza il tenace e convinto lavoro della Pubblica amministrazione che, malgrado venga spesso tacciata di inefficienza, ha dimostrato una straordinaria operosità nell' assecondare, e perfino anticipare, le richieste dei padroni a danno dei cittadini. In particolare gli strumenti messi a punto dal Comune - dalle modifiche delle prescrizioni urbanistiche alle vendite di edifici, dalla costruzione di manufatti finalizzati a valorizzare gli interventi dei privati alla messa in moto di una ininterrotta campagna di marketing che usa la città come vetrina di sestessa - sono stati fondamentali per trasferire ricchezze e prerogative pubbliche ai privati.
Tre capitoli, infine, sono dedicati agli storici capisaldi della città, luoghi deputati, non solo simbolicamente, alla vita collettiva e ora sottratti ai cittadini: Rialto, il cuore commerciale della Serenissima, di fatto inglobato nel dominio del Fontego dei Tedeschi di proprietà dei Benetton; l'Arsenale, fulcro della potenza militare, spartito tra la Biennale e il Comune che lo usano come fiera commerciale; piazza San Marco, sede del potere politico e religioso, ridisegnata e presidiata dal potente gruppo finanziario delle Generali.
Privati di Venezia non è frutto di ricerche di archivio, ma della semplice rilettura delle cronache quotidiane' le cui informazioni ci sono passate davanti agli occhi ogni giorno e che non sempre abbiamo saputo/voluto connettere le une alle altre. Se lo avessimo fatto, ci saremmo resi conto che la privatizzazione di una città, che aveva uno dei patrimoni pubblici - abitazioni, palazzi, spazi non edificati - più estesi e preziosi d'Italia, era allo stesso tempo precondizione e risultato della sua riforma e modernizzazione, secondo i dettami di chi intendeva impadronirsene.
Certo, una simile lettura sarebbe stata più agevole se la ricerca indipendente e la vigilanza critica delle istituzioni culturali non fossero state pressoché assenti. Le università, anche quando non direttamente coinvolte in operazioni di sviluppo immobiliare o nella loro legittimazione, hanno rinunciato a indagare e documentare i meccanismi e gli attori che hanno fatto di Venezia il laboratorio dove applicare il modello globale di sviluppo del capitalismo postfordista, basato sulla rifunzionalizzazione di un'intera città.
E i mezzi di comunicazione, a parte qualche voce isolata, hanno acriticamente propagandato la figura degli investitori mecenati compiacendosi per il succedersi di riaperture, riconsegne, restituzioni alla città, dimenticando che, dei vari termini con i quali si esalta la rapina del patrimonio pubblico, 'restituzione' è forse quello più ingannevole, perché alla fine di tante "restituzioni", la collettività non possiede più nulla. Che si tratti di grandi complessi edilizi, il cui accesso era limitato o temporaneamente impedito, perché utilizzati per ospitare attività di interesse pubblico, o di pezzi di città che vengono ridisegnati in funzione della loro assegnazione ai privati, la loro cessione comporta che, sebbene talvolta tali beni diventino accessibili al pubblico, le modalità di fruizione sono lasciate alla totale discrezione dei privati.
Gli artifici retorici con cui si millanta la presunta equivalenza tra la privatizzazione dello spazio pubblico e la sua restituzione alla città, sostenendo che, per poter essere definito pubblico, uno spazio non deve necessariamente essere di proprietà pubblica, perché quello che conta è che esso sia utilizzabile, aperto al pubblico, non sono solo ossimori linguistici. In realtà, parlare di "spazio pubblico di proprietà privata" significa riconoscere ai privati, oltre ai profitti finanziari, la conquista dell'egemonia culturale nell'indirizzare il discorso sulla città.
Come è noto, in guerra, la prima vittima è la verità.
Paola Somma è, da anni, la voce più radicale e lucida sulla situazione drammatica, e sul destino, di Venezia. Ha insegnato Urbanistica presso lo IUAV di Venezia ed è stata visiting professor all’Università Americana di Beirut. Svolge ricerca indipendente con attenzione ai rapporti tra l’organizzazione fisica e la struttura economica e sociale del territorio. È membro del comitato editoriale della rivista «Open House International». Fra le sue pubblicazioni Venezia Nuova (1983), Spazio e Razzismo (1991), Beirut: guerre di quartiere e globalizzazione (2000), Privati di Venezia (2021).