L'ineluttabile destino dei froci sovietici

I bolscevichi per primi al mondo, sull'onda della Rivoluzione d'Ottobre abolirono il reato di omosessualità maschile che era in vigore nell’Impero russo. Nel 1934 Stalin la rese di nuovo reato con migliaia di persone che furono imprigionate. Solo nel 1993 l'articolo 121 che criminalizzava i gay è stato rimosso dal Codice penale , e tuttavia anche nella Russia di Putin per i diversi non sono tutto rose e fiori.

bagni pubblici russiUn bagno pubblico a Leningrado (San Pietroburgo) nei primi anni Venti, uno dei luoghi frequentati dai gay ai quali il governo dei bolscevichi raccomandava la discrezione in cambio della libertà sessuale.

I guai per i pediski, (i froci n.d.t.)  ricominciarono nel 1934 quando Stalin reintrodusse il reato di omosessualità maschile. La ragione? All’origine c’è il capo dell’Nkvd (antenato del Kgb) Genrikh Jagoda il quale informò Stalin che i gay stavano organizzando “ una rete di ritrovi, dove poter raggruppare schiere di pediki  per trasformarli in spie antisovietiche”. Non è chiaro se una tale minaccia fosse reale, ma Stalin reagì con i suoi modi brutali, criminalizzando di nuovo l’omosessualità maschile con il micidiale articolo 121 del codice penale, che prevedeva una pena di cinque anni di reclusione. Per i gay sovietici si iniziò un nuovo dramma.

La propaganda ufficiale collegava l’omosessualità al fascismo; lo scrittore Maksim Gorkij giustificò addirittura la politica antiomosessuale staliniana, in nome della lotta antifascista. Nel suo sforzo di mobilitare i giovani per neutralizzare il loro potenziale rivoluzionario, spiegava lo scrittore, il fascismo pratica e promuove  l'omosessualità, sterilizzando così "l'energia proletaria". Quindi, " Sradicati gli omosessuali - il fascismo scomparirà ", andava predicando Gorkij.

Non è chiaro esattamente quante persone siano state imprigionate con l’accusa di omosessualità nell’èra di Stalin almeno così sostiene lo storico Dan Healey che, nel suo libro “Homosexual Desire in Revolutionary Russia”, scrive che i dati degli archivi dell’Nkvd riguardanti gli anni tra il 1934 e il 1950 “rimangono oscuri”.

E’ una vicenda per molti versi paradossale, poiché la Rivoluzione d’Ottobre cambiò radicalmente la situazione degli omosessuali in Russia, così come quella delle donne. Nel 1922 entrò in vigore il primo codice penale della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa (RSFSR). E' scritto nei libri di Storia che nel 1918 tutte le vecchie leggi zariste furono sospese e quando finalmente, dopo alcuni anni di dibattito, venne adottata la nuova legislazione, l’omosessualità – o la “sodomia” come allora era chiamata – fu depenalizzata. Questo rappresentò un' enorme conquista per gli omosessuali, che sotto lo zar potevano essere arrestati e condannati ad anni di prigione o di lavori forzati. Molto vi aveva influito anche il fatto che nell’ultimo periodo del regime zarista ci fu un significativo incremento nel numero di omosessuali condannati dai tribunali. C’era anche molta ipocrisia nell’applicazione della legge, con i membri delle classi più elevate che ricevevano un trattamento più mite. Quelli nelle alte sfere che conoscevano le persone giuste, potevano tirare i fili giusti per far insabbiare i loro casi. Per esempio vennero fermati diversi procedimenti contro omosessuali appartenenti alla famiglia reale.

Tutto ciò conferma che, la decisione del governo bolscevico di depenalizzare l’omosessualità poche settimane dopo la presa del potere aveva dei riferimenti storici ben precise. Tuttavia, la depenalizzazione non aprì la strada a una rivoluzione sessuale che sarebbe stata una componente essenziale della rivoluzione sociale. Beninteso, alcuni nella sinistra di quel tempo consideravano l’omosessualità come una “perversione” o una “depravazione"; tenendo conto dell'epoca non era una sorpresa. Resta in fatto che, qualsiasi fosse il punto di vista di singoli socialisti, il regime sovietico agì consapevolmente per legalizzare l’omosessualità e nessuna dose di revisionismo può negare appunto, questo dato di fatto.

Ne consegue la "morale sessuale proletaria". Siccome i bolscevichi vogliono creare la separazione tra vita "privata" e "pubblica", è il governo che ha il dovere e il diritto di regolamentare la sessualità. La spiegazione è semplice: poiché lo Stato socialista organizza la produzione del grano e dell'acciaio, gli compete pure la gestione della vita sociale, procreazione inclusa. Questo è il principio guida della questione (omo)sessuale, che determinò sia la depenalizzazione dell'omosessualità, sia la sua recriminalizzazione sotto Stalin quindici anni dopo la Rivoluzione d'Ottobre.

Del resto anche Lenin sull’argomento non  si era espresso col piglio rivoluzionario:

" Diffido delle teorie sessuali e di tutta questa letteratura speciale che cresce a profusione sullo sterco della società borghese. Diffido di coloro che vedono solo la questione sessuale […] Considero questa sovrabbondanza di teorie sessuali, che sono per la maggior parte ipotesi, e spesso arbitrarie, in quanto scaturite da un personale bisogno di giustificare dinanzi alla morale borghese la propria vita anormale o ipertrofica, o almeno di scusarla”.

Naturalmente Lenin si guardò bene dal lanciare una crociata contro i pediki (froci) nel suo Paese già stremato dal conflitto, e sprofondato in una sanguinosa guerra civile. Scelse il commento morbido:

Questo rispetto mascherato per la morale borghese mi è antipatico quanto questa importanza accordata alle questioni sessuali. Può sembrare rivoluzionario quanto vuole, è, in fondo, profondamente borghese. È soprattutto una moda da intellettuali. Non c'è posto per questo nel partito, nel proletariato cosciente.”.
In perfetta sintonia Lenin si lusingava anche di non capire nulla di espressionismo, futurismo, cubismo e di "tutte le nuove rivelazioni nell'ismo ", e rifiutava un'arte moderna che riguarda solo un'élite borghese: “L'arte appartiene alle persone. Deve affondare le sue radici il più profondamente possibile nel seno delle masse lavoratrici. Deve essere compresa e amata da loro. Deve legarli insieme ed elevarli nei loro sentimenti, pensieri e volontà. "

Dopotutto la politica sistematica del potere bolscevico resta uno dei tentativi estremi di applicare le leggi della scienza (quella del tempo, e interpretata secondo gli interessi del partito), per sbarazzarsi delle credenze religiose, creando così una morale completamente laica. Poco importa se un giovane psichiatra sovietico nel 1922 scrivesse che, l'omosessualità è una perversione, richiede cure mediche, ma non il carcere. Questa affermazione da sola non bastava ai reggitori del potere, poiché se l'ideologia si fonda sul materialismo, la sessualità rientra nelle "sovrastrutture", pertanto non è un male se viola un principio morale trascendente, bensì lo è se distrae gli uomini e le donne dall'attività produttiva e dalla militanza al servizio del partito. Il proletario lavora, il borghese è ozioso: questo lo slogan. Ragion per cui, chi non contribuisce alla (ri)produzione è antisociale, antisocialista,  soltanto l'eterosessualità a vocazione riproduttiva è "proletaria" è conforme e va esaltata.

Il reato di omosessualità fu depennato dal codice penale alla fine del 1917. Il provvedimento fu percepito da una minoranza, anche nel partito, come una conquista fondamentale, ma va anche detto i bolscevichi non avevano nel loro programma la “liberazione sessuale” : si trattava di tolleranza, non di accettazione. La linea generale era quella dell'igienismo al servizio delle masse; la necessità primaria era di avere corpi sani. La “questione sessuale” passava per un lusso inappropriato dal momento che i proletari avevano soprattutto bisogno di essere nutriti (la carestia del 1921-22 fece cinque milioni di vittime), alloggiati, curati… e messi al lavoro. Tutto questo lasciava poco spazio al "gioco d'amore" e alla libertà morale. Infatti la condizione prioritaria era di non superare i limiti del privaoa.

Naturalmente i pediki , non dovendo più temere la repressione poliziesca, potevano “muoversi” liberamente, almeno nei centri urbani... a condizione, appunto, di restare nell'ombra. Un esempio? Tutti i leader di partito sapevano che Georgy Chicherin, Commissario per gli affari Esteri, era gay, ma non ne parlavano, proprio come nei regimi borghesi fino alla fine del XX ° secolo. Va pure aggiunto che, non soltanto la maggior parte dei membri e dei dirigenti del partito considerava l'omosessualità un difetto borghese, ma lo definivano un residuo feudale, rurale, persino religioso, e quindi antisociale e antisocialista.

Ragion per cui nelle periferie dell'Urss, nelle regioni a maggioranza musulmana, nel Caucaso, dove il partito comunista stava conducendo una “rivoluzione culturale” in nome della modernità contro l'arcaismo, l’omosessualità era messa all’indice. Infatti, la propaganda antireligiosa ufficiale fondeva l'omosessualità con la pedofilia e la descriveva come un vizio caro ai monaci rintanati nei monasteri. Nel contempo l'ateismo militante denunciava le pratiche omosessuali come una forma particolarmente odiosa di “sfruttamento dell'uomo sull'uomo”.

Insomma, il regime esaltava i principi laici del modello proletario incarnato dall'operaio russo, e condannava la “barbaria asiatica dei popoli arretrati”, come quelli dell’Uzbekistan e del Turkmenistan dove vigeva una tradizione di bordelli, di poligamia, di matrimoni forzati. 
Siccome il bolscevichi si arrogarono il diritto di interpretare la Storia e i perché della Natura , avevano bisogno di un inconfutabile supporto scientifico, pertanto era indispensabile che gli specialisti dibattessero sulle "cause" dell'omosessualità, preferibilmente alla luce del marxismo, poichè la possibilità umana di rimodellare la natura rientra nei dettati del regime. Sebbene non pochi scienziati, stabilissero che l'omosessualità deriva da anomalie ormonali, curabili con un trattamento adeguato, l'edizione del 1930 della Grande Enciclopedia (sintesi e vetrina della scienza ufficiale) parlava di " attrazione sessuale innaturale ”, che deve essere tollerata e controllata.

Ma poi arrivò Stalin il quale condannò i pediki alla damnatio in vita. Tant’è che nel maggio 1934, Harry Whyte, 27 anni, membro del Partito comunista britannico dal 1931, e corrispondente da Mosca del Moscow Daily News , scrisse una lettera di quattro mila parole "Al caro compagno Stalin" per sottolineargli che la recente " politica anti-sodomia dell'Urss " contraddiceva sia la realtà della vita che i principi marxisti-leninisti.
Ho un interesse personale su questo problema perché sono omosessuale anch'io. […] Ho contattato la GPU [polizia politica, ex-Cheka, poi NKVD, infine KGB] in seguito all'arresto di una certa persona con cui avevo avuto rapporti omosessuali. Mi è stato detto che nulla mi incriminava . […]Ritengo che la condizione degli omosessuali, siano essi di origine operaia o essi stessi lavoratori, sia analoga alla condizione delle donne sotto il regime capitalista e alle razze di colore oppresse dall'imperialismo. Questa condizione è per molti versi simile anche alla condizione degli ebrei sotto la dittatura hitleriana, e in generale non è difficile intravedere un'analogia con la condizione di qualsiasi strato sociale sottoposto a sfruttamento e persecuzione sotto il dominio capitalista. ".

La lettera rimase senza risposta, ma gli archivi ci dicono che Stalin aveva qualificato il suo autore come " idiota e degenerato". Harry Whyte lasciò la Russia qualche mese dopo, evitando così le epurazioni che spazzarono via molti membri stranieri dei pc che vivevano in Urss, rinunciò al marxismo-leninismo militante pur rimanendo di sinistra, e morì a Istanbul nel 1960, lasciando - si dice - al suo compagno turco l'eredità di una sterlina.

L’articolo 121 che criminalizzava i rapporti sessuali maschili è stato rimosso dal codice penale nel 1993, ma la Russia di Putin, al pari dei paesi occidentali non è immune dagli episodi di omofobia e di transfobia. Insomma, anche in Russia i gay non vivono in Paradiso, ma almeno non temono più di essere imprigionati perché prediligono il diverso.


Traduzione di Marisa Fiori

Anatoliy Novikov, sociologo, membro del Comitato scientifico del Centro Studi Berlin89, è professore emerito dell'Herzen State Pedagogical University of Russia con sede a San Pietroburgo. 

 
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