Come ricordare il passato e campare al presente

C'era il "mondo dopo" la caduta del muro di Berlino, oppure il "mondo dopo" l'11 settembre 2001. Oggi, c'è quello dopo la pandemia di Covid-19 che preannuncia una nuova era, felice per i più ottimisti o disastrosa, per i più radicali. Ma cosa cambia davvero quando la morte colpisce su una scala così massiccia (al 28 ottobre 2021, 4 milioni e 993 mila di esseri umani, secondo il worldometer)? E che dire sull'intervento statale, politico, mediatico?

In realtà, questa pandemia rivela molto di ciò che già sapevamo, e modifica in peggio ciò che le genti sono incapaci di cambiare. Un esempio tra i tanti? Le disuguaglianze, le condizioni di precarietà, di discriminazione al lavoro diventano più evidenti di fronte a una catastrofe che le aggrava.
Stando così le cose, “Chi non astrae da ciò che è dato, chi non collega i fatti ai fattori che li hanno prodotti, chi non disfà i fatti nella sua mente, in realtà non pensa.”, scriveva Herbert Marcuse, (L’uomo a una dimensione). E' il suo un ammonimento che ridiventa prezioso, poiché tutto ciò che ruota attorno a Covid-19, vaccini e Green Pass andando a investire le sfere politiche, economiche e sociali, è inquietante.

Pertanto, per immaginare il futuro dell’Italia post-pandemica un aiuto può arrivare dal suo passato prossimo durante il quale “molti dei fatti e dei fattori che li hanno prodotti”, sebbene nefasti sono sopravvissuti. E non potrebbe essere diversamente, basta guardarsi intorno, meglio ancora tuffarsi nel media mainstream.

 

Sono sopravvissuti  "I mostri" ?

così si chiede, in articolo sul Manifesto  del 1972, Luigi Pintor, giornalista, scrittore e comunista che così scriveva:

"Spesso ossuti e avvizziti, più spesso obesi e flaccidi, col viso marcato dalle nefandezze del loro mestiere, ogni anno ci appaiono Pintor LuigiLuigi Pintorvestiti da pagliacci, come non osano neppure gli alti prelati. Chi sono ? Sono gli alti magistrati che inaugurano l’anno giudiziario, per dirci che bisogna mettere più gente in galera e tenercela, e quale gente e perché.

Leggete altrove l’elenco minuto dei morti ammazzati in una industria di Stato in una sola città meridionale. Questi sono omicidi di cui è intessuto il progresso nazionale. Sono delitti di classe, dietro cui c’è lo sfruttamento quotidiano di milioni di uomini ma c’è anche la violazione di innumerevoli leggi. Eppure c’è un uomo che si permette, vestito di ermellino, con un grottesco cappuccio in testa, di infischiarsene totalmente. Può chiamarsi Guarnera, se parla a Roma con a fianco il presidente della repubblica; o in altro modo, se parla altrove col presidente del consiglio come sacrestano.

Esistono i reati contro il patrimonio, per questi supercarabinieri pagati come quindici operai, ed anche quelli contro la persona ma solo se un operaio schiaffeggia un padrone, non se un padrone lo deruba e lo ammazza.

 Questi personaggi sono l’immagine stessa del privilegio e dell’arbitrio. Dispongono del più illecito dei poteri, quello sulla libertà altrui. Ma sono intoccabili, ancora in un tempo in cui non c’è gerarchia che in qualche modo non debba render conto di sè. Dispongono di armi micidiali, leggi inique e meccanismi incontrollabili. E le maneggiano come e contro chi vogliono. Sono l’incarnazione dell’ipocrisia dell’ordine borghese.

La commissione di giustizia del partito socialista ha ieri espresso in un suo documento una comprensibile indignazione per i toni di questa inaugurazione dell’anno giudiziario, protestando contro la società dei consumi e i suoi effetti, contro i suoi disvalori, contro i delitti di classe impuniti, contro la rapina della speculazione, contro l’ideologia di destra e repressiva del Guarnera, e difendendo quei magistrati che cercano di fare della toga un altro uso.

Ma non c’è terreno che in questo dopoguerra sia rimasto, proteste o no, più impermeabile all’azione, di governo o di opposizione, delle forze democratiche. Nulla conferma, meglio della giustizia e delle sue oscenità, le invettive di Marx contro l’ordine capitalistico e l’analisi leninista dello stato. Ma non è bastato, in questi anni, un terzo del parlamento in mano ai partiti di tradizione operaia per applicare al sistema legislativo penale e all’ordine giudiziario neppure le conquiste più elementari della rivoluzione borghese di due secoli fa. Capitalismo e feudalesimo formano un solo impasto. E non basterebbe neppure la metà del parlamento: non ci vuol nulla a capire che senza una organizzazione intransigente della lotta operaia gli omicidi bianchi continueranno ad essere la proiezione estrema dello sfruttamento, e che senza una contestazione permanente delle istituzioni non c’è riforma legislativa che passi. Nell’attesa, l’anno giudiziario se lo inaugurino ai quarti piani, con finestre aperte. Avrà un valore di simbolo, ed eviterà il tanfo. ".

  

Era meglio morire democristiani?

Si chiede preoccupato Sergio Scorza, e nel suo blog Millepiani racconta:

"C’era una volta il Ministero delle partecipazioni statali. Era stato istituito alla fine del 1956 su spinta soprattutto di Giovanni prodiGronchi, un democristiano di sinistra eletto l’anno prima al Quirinale a sorpresa con un’operazione condotta da Giulio Andreotti (che di sinistra non era proprio) e soppresso fra il 1993 e il 1994 dal governo “tecnico” guidato da Carlo Azeglio Ciampi il quale fece chiudere materialmente quel dicastero dal “tecnico indipendente” Paolo Baratta.

Eravamo ormai all’epilogo della cosiddetta prima Repubblica, durante la quale per le partecipazioni statali era passata anche parte del finanziamento illegale della partiti ma che, fin lì, erano stato lo strumento principale di controllo pubblico sull’economia e sui servizi pubblici essenziali allora ancora accessibili a prezzi politici ed alla larga da quei privati senza scrupoli che hanno come unico fine esclusivo il perseguimento del massimo profitto.

Agli inizi degli anni Novanta, Romano Prodi, presidente dell’IRI, iniziò lo smantellamento di un Ente che contava 500 mila dipendenti. L’IRI gestiva Alitalia, Autostrade, Finmeccanica, Fincantieri e Aeroporti di Roma, i quali saranno poi immessi sul mercato ad uno ad uno. L’IRI, ormai svuotato di ogni suo ramo, venne messo in liquidazione il 28 giugno 2000.

Dopo fu la volta del Credito Italiano, che, peraltro, godeva di ottima salute, dell’IMI e della Banca Commerciale Italiana (Comit). Successe tutto tra il 1993 e il 1994.

Nel luglio 1996 furono avviate le prime privatizzazioni dei servizi pubblici locali grazie alla costituzione di società per azioni in cui i Comuni possono partecipare solo con quote minoritarie. Il 16 aprile 1997 venne privatizzato l’Istituto San Paolo di Torino.

Nel gennaio 1998 il Parlamento liberalizzó il commercio abolendo licenze e regole sugli orari. Poi venne il turno della liberalizzazione della telefonia fissa (febbraio 1998) e dell’energia elettrica, fino alla privatizzazione dell’ENEL (1999).
A maggio del 2000 venne liberalizzato il commercio del gas. Poi venne il turno delle TV. La legge Maccanico aprí alla privatizzazione della RAI e salvò così anche le reti televisive di Silvio Berlusconi.
Infine, sempre nel 1998, le Ferrovie dello Stato furono smembrate per poi costituire RFI (Rete ferroviaria italiana, pubblica) e Trenitalia (privata).
Stessa sorte toccò alle Poste, che divennnero SpA. Ed ancora, nel 1998, con l’approvazione della famigerata legge sull’ “autonomia scolastica” voluta dall’allora ministro della pubblica istruzione, Luigi Berlinguer, iniziò l’aziendalizzazione della Scuola, disarticolò uno dei migliori sistemi scolastici del mondo (nato da una legge del 1859) ed introdusse la parificazione tra scuole pubbliche e private.

Nel 1999 fu Massimo D’Alema a proseguire il disegno di Prodi approvando un disegno di legge che privatizzó definitivamente i servizi pubblici locali. Tutte le aziende municipalizzate che erogavano in regime di monopolio acqua, gas, elettricità, trasporti urbani, rifiuti urbani vennero trasformate in imprese private.

L’idea di Prodi era quella di “smantellare il Paese pezzo per pezzo” ( cit. da un suo celebre discorso pubblico del 17 gennaio 1998 in provincia di Lecce). E ci riuscì benissimo perché il più grande partito di “sinistra”(PDS-DS poi PD) e le tre principali organizzazioni sindacali gli fornirono quel sostegno politico e sociale senza il quale Prodi non avrebbe cavato un ragno dal buco. E lo strumento principale di questa poderosa attività di smantellamento del sistema pubblico del paese fu, sicuramente, la “concertazione sociale” formalizzata nel Protocollo del 23 luglio 1993.

Nel 2012, il governo di Mario Monti con il decisivo sostegno del PD ea tacita approvazione di CGIL, CISL e UIL, abbatté la sua pesante scure sulla sanità pubblica italiana con il “Decreto Cresci Italia” ed il “Decreto Balduzzi”: un salasso da 9,4 miliardi euro ai danni del Fondo sanitario spalmati dal 2012 al 2015, non a caso, avviati contestualmente alla frettolosa approvazione della Legge 1/2012 che ha introdusse in Costituzione il “principio del pareggio di bilancio”. Venne così spianata la strada allo smembramento della medicina territoriale e del Servizio Sanitario Nazionale ed allo spostamento dell’offerta sanitaria verso le strutture sanitarie private in convenzione.

Intanto, al centro di questo snodo pubblico-privato i partiti che erano al governo delle Regioni, continuavano ad alimentare poderosamente i loro sistemi di potere proprio attraverso la gestione dei servizi sanitari dopo la riformulazione del Titolo V della Costituzione del 2001 che aveva introdotto la competenza concorrente di Stato e Regioni in materia di tutela della salute.

Dunque, se nel Cile fu Pinochet, in seguito al colpo di stato cruento del settembre 1973, a prendere contatto con diversi economisti appartenenti alla Scuola di Chicago (i cosiddetti “Chicago boys”) tra i quali il fondatore della scuola Milton Friedman, in Italia, dagli inizi degli anni novanta, gli alfieri delle riforme neoliberiste miranti alla deregolamentazione (deregulation), al conservatorismo fiscale, alla privatizzazione del patrimonio statale, ai tagli alla spesa sociale ed alle politiche liberiste aperte agli investimenti selvaggi dei mercati internazionali e delle multinazionali, sono stati, senza dubbio, i governi di centro-sinistra.

Dal dispiegamento di quella travolgente sistematica ondata neoliberista sul paese ad opera dei vari governi sia “tecnici” che politici in cui la “sinistra” svolse un ruolo centrale o comunque decisivo, la dicotomia destra-sinistra perse definitivamente qualsiasi relazione con il significato che gli avevamo attribuito in precedenza e prese forma qualcosa che affonda le proprie radici nelle vicende legate al conflitto politico e sociale degli anni settanta.

Oggi il nostro è un paese smembrato, privo di infrastrutture strategiche, con salari da fame e servizi pubblici sempre più costosi e inefficienti; un paese senza una visione strategica del proprio futuro; un paese senza speranze da cui i giovani migliori sono costretti a scappare per sfuggire ad una vita di stenti e di lavoretti precari; un paese in mano a padroni avidi e rentiers; un paese paralizzato da una burocrazia elefantiaca e da una magistratura classista, in mano ai sistemi di potere ed alle massonerie e sempre più subalterna agli esecutivi di turno.

E tutto ciò lo si deve innanzitutto a quei governi “tecnici” e di centro-sinistra che sono riusciti a fare le cose che un tempo chiamavamo “di destra”, prima e meglio della destra. Si, perché, nel confronto tra le due destre, quella tecnocratica e quella plebiscitaria, ha sempre avuto la meglio la prima. Tecnicamente…".


scorza sergioSergio Scorza è nato a Catanzaro. Vive e lavora tra Firenze e Prato. Ha studiato sociologia presso l’Università di Urbino e diritto pubblico presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università la Sapienza di Roma. Blogger, attivista, giornalista freelance, si interessa di conflitti sociali, ecologia e diritti umani. Partigiano, odia gli indifferenti.

 

 

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