"L'uomo e la tecnologia" in un'Italia che non c'è più
La natura ama il coraggio. Tu impegnati e la natura risponderà a tale impegno rimuovendo gli ostacoli impossibili. Sogna il sogno impossibile e il mondo non ti affliggerà, anzi ti solleverà. Così sognò Dario Fo.
Provocatore, dissacratore, giullare, anticonformista, Dario Fo ha passato la sua vita a schierarsi, politicamente e non solo. Il primo grande scandalo della TV italiana, non a caso, è a lui ascrivibile. A quando nei primi anni ’60 a Canzonissima parlò di morti bianche e fu cacciato, assieme a Franca Rame, dalla conduzione. Ma di polemiche e censure ne sono venute molte altre. Con la Chiesa, con i politici, con i giornalisti.
Tra i tanti contributi che ha dato alla storia del teatro contemporaneo, di sicuro il più importante è quello legato al grammelot. Cioè a quella lingua inventata, figlia della parlata dei cantastorie medievali, nata dalla fusione tra dialetti di diverse zone d’Europa, dalla Val Padana alla Francia.
In sintesi, si tratta di una lingua che non ha vere parole o strutture grammaticali, ma che imita le parole e le strutture grammaticali di varie altre lingue. Così ci sono parole che richiamano il dialetto lombardo, il francese, il veneto, il toscano, il piemontese, l'inglese senza soluzione di continuità.
Ma come si può comprendere una lingua che ha parole sostanzialmente inventate, che assomigliano a quelle degli altri idiomi ma che allo stesso tempo differiscono? Ci si arrangia in altro modo. Si coglie una parola ogni tanto e la si lega alla gestualità dell’attore sul palcoscenico, che col suo tono di voce, con la cadenza, col ritmo e con le azioni riesce a far seguire al pubblico il filo del suo discorso.
La magia dell’invenzione di Dario Fo sta tutta qui. Che mentre lui sul palco bofonchia per minuti e minuti suoni incomprensibili, il pubblico riesce a seguirlo. Riesce a ridere delle sue gag, a comprendere la satira sociale nascosta nelle sue parole, a percepire il cambiamento degli stati d’animo dei personaggi. Niente sfugge, neppure quando Fo abbandona una parlata simile a quella della Val Padana e si avventura su altri registri linguistici - vicini in questo caso all’inglese - dipingendo un'Italia che non c'è più.