Quella Rivoluzione di Velluto che da 30 anni è il brand di Praga

Sono stati gli studenti, l'intellighentsia, gli scampati alla repressione del Sessantotto, i figli di quelle vittime, i superstiti della “Primavera” arrotata dai carri armati sovietici, i veri protagonisti delle manifestazioni di protesta. Il leader morale di quella “Rivoluzione” non è stato un operaio, come l’elettricista Walesa in Polonia, bensì un intellettuale, un commediografo, quel   Vaclav Havel che passò in carcere la gran parte degli ultimi dieci anni di comunismo.  

di Vincenzo Maddaloni

Praga. Passerà alla Storia come la "Rivoluzione di Velluto”, (così definita perché il Partito comunista di Cecoslovacchia rinunciò pacificamente al potere) quella che nel giro di poco più di un mese, (metà novembre – fine di dicembre 1989) sull’onda del crollo del Muro di Berlino, con una serie di manifestazioni di protesta costrinse i vertici comunisti a dimettersi. 

Ian cover copyTutto si iniziò il 17 di novembre a Praga con 50 mila persone che si erano radunate in piazza san Venceslao per celebrare la Giornata internazionale degli Studenti. Sarà ricordata come la più grande manifestazione dai tempi dei funerali di Jan Palach, lo studente universitario che, nel tardo pomeriggio del 16 gennaio 1969 proprio in piazza San Venceslao, nel centro di Praga, si cosparse il corpo di benzina e si appiccò il fuoco con un accendino, per protestare contro l'invasione sovietica.

Negli della “Guerra Fredda”, Praga condivise con Berlino il primato della frontiera più ostica dei paesi del Patto di Varsavia, per via dei controlli esasperanti, dai quali non si scampava sebbene si scendesse dalla scaletta di un Ilyushin dell'Areoflot proveniente da Mosca con tanto di visto sovietico in mano, come spesso capitava a me, che in quegli anni ero corrispondente dalla capitale sovietica.

Ragion per cui, ogni volta volavo malvolentieri a Praga, come a Berlino del resto, Ma quella mattina del 22 novembre di trent’anni fa per la prima volta, mi parve di scorgere sul viso dei militari di frontiera un’ombra di sorriso, che con le operazioni di controllo veloci mi si confermò. Due segnali preziosi per il cronista perché anche i piccoli gesti come quelli, aiutavano a capire gli umori del potere, e in quel giorno furono uno spunto per me prezioso per capire che qualcosa stava accadendo nel Paese. All’epoca non c’erano gli smartphone, internet era sconosciuto e  il “copia e incolla” ancora non era in uso. Pertanto, confezionare la notizia era un lavoro faticoso, di puro artigianato.

Infatti, qualcosa era accaduto il 20 di novembre a Praga.
In piazza c’era mezzo milione di dimostranti, ragion per cui il segretario del Partito Comunista, Miloš Jakeš, si sentì costretto a dimettersi, dopo un ultimo tentativo di rimpasto del Praesidium. Una mossa infelice, perché sebbene gli uomini di ferrea ortodossia politica quali il presidente Gustav Husak, l'ideologo Jan Fojtik, il presidente del Parlamento Alois Indra fossero stati messi da parte, gli erano subentrati personaggi come Zdenek Horeni, direttore del giornale ufficiale del partito Rude Pravo, e Vasil Mohorita, presidente dell'Unione socialista della gioventù cecoslovacca, che non avevano certo fama di moderati.

Nel più e nel meno a Praga accadde quello che accadde in giornate diverse in tutti i paesi del Patto di Varsavia. Tuttavia, se la si guarda con occhi attenti, la Rivoluzione di Velluto ha avuto un suo svolgimento peculiare simile - ma con esito diverso - a quello di Piazza Teinamen, poiché i moti a Praga erano partiti dalle università, come accadde a giugno di quello stesso anno a Pechino.

Sono stati gli studenti, l'intellighentsia, gli scampati alla repressione del Sessantotto, i figli di quelle vittime, i superstiti della “Primavera” arrotata dai carri armati sovietici, i veri protagonisti delle manifestazione di protesta che culminarono con il ritorno sulla scena di Alexander Dubcek, accolto in quel venerdì 24 di novembre in piazza San Venceslao ricolma di praghesi pervasi di un entusiasmo epocale, che non riscontrai più da nessuna altra parte.

 
carta 77 0Nello scenario dei paesi dell’ex blocco sovietico la Rivoluzione di Velluto fa storia a sé, poiché il protagonista, il leader morale, non è stato un operaio, un elettricista come Walesa in Polonia, bensì un intellettuale, un commediografo che aveva passato in carcere gran parte degli ultimi dieci anni di comunismo.
Si chiama Vaclav Havel, aveva all’epoca 53 anni, e con Jiri Hajek, ministro degli Esteri del governo di Dubcek, era stato tra i primi firmatari di "Charta 77", il manifesto politico con il quale, negli anni del più pesante silenzio, i dissidenti di Praga rammentarono al mondo il loro impegno nella difesa dei diritti dell'uomo e nella lotta all'oppressione.
 

Siccome Havel col passare degli anni, era diventato il simbolo della libertà che era la speranza prioritaria della gran parte del popolo ceco, ogni suo atto diventava un pretesto per relegarlo nelle prigioni dello Stato. Pensate, l'ultima sentenza lo condannò a nove mesi di carcere duro, per aver tentato di deporre un mazzo di fiori in piazza San Venceslao, dove Jan Palach si era dato fuoco, diventando così simbolo della resistenza anti-sovietica del suo Paese.

Le cronache ricordano che all’uscita dal tribunale circondato dai poliziotti, Havel si rivolse alla gente che l'aspettava all'esterno dell’edificio, pronunciando una sola frase che suonerà profetica: «Il potere raccoglierà quello che ha seminato: il frutto del suo disprezzo».

chartaInsomma, Havel riuscì a coagulare lo spontaneismo del moto studentesco con la variegata galassia dei gruppi di opposizione, fondando quel “Forum civico” con il quale il governo sarà costretto a scendere a patti. Per la prima volta i rappresentanti di "Charta 77", il più prestigioso movimento del dissenso dei paesi dell’Est Europa, si confronteranno nel “Palazzo” con i funzionari - che per anni li avevano perseguitati e incarcerati - privandoli di tutti i poteri.

Nella delegazione c'erano attori, intellettuali, docenti universitari, i leader dei diversi gruppi di opposizione e un solo minatore, uno soltanto a rappresentare della classe operaia, quanto bastava per disegnare lo scenario del dissenso nella Cecoslovacchia comunista. Perché furono gli intellettuali, non gli operai, i più colpiti dopo l’invasione sovietica che segnò la fine della Primavera di Praga. Decine di migliaia di persone – come Milan Kundera racconterà nel suo celebre, L'insostenibile leggerezza dell'essere - furono costrette ai lavori più umili, all'emarginazione più mortificante.

 

La classe operaia non visse questa tragedia.

Anzi, rispetto alle altre realtà del blocco sovietico è stata - come dire - privilegiata con i salari più alti, con una priorità assoluta nelle liste di attesa per l’acquisto della vettura, nelle assegnazione degli appartamenti, e nelle premiazioni di merito. Così amministrando, il regime comunista ceco s'era accaparrato il consenso delle masse, come usa dire.

A Praga, insomma, è successo il contrario di quanto è accaduto a Budapest e a Berlino Est dove gli studenti e gli intellettuali hanno avuto un ruolo marginale, o addirittura ignorati - accadde in Polonia - dal movimento operario di Solidarnosc che supportato da Papa Wojtyla aveva oscurato tutte le altre forme di resistenza. E non poteva essere diversamente dal momento che nella Polonia del Sessantotto, quando studenti e intellettuali si sollevarono contro il regime comunista al governo, gli operai non solidarizzarono e il movimento franò.

Una ragione c’è, poiché gli operai di Solidarnosc con il sindacalista Walesa che dai cantieri di Danzica sventolava la croce dovevano rappresentare agli occhi del mondo, l’immagine del cattolicesimo rampante polacco in lotta contro il marxismo che mal si conciliava, a giudizio del clero, con gli intellettuali dissenzienti e per giunta strenuamente laici.

A Praga, invece, c’era tutta altra aria.

Non mi ricordo di chiese affollate né di altari addobbati di fiori con i colori della bandiera nazionali, come è a Varsavia da sempre. Da Mosca intanto, Michail Gorbaciov aveva fatto sapere che la svolta in corso in Cecoslovacchia era «in sintonia con il contesto generale di un mondo in trasformazione, un mondo che sta cambiando sia all'Est sia all'Ovest». Una dichiarazione che certamente non giunse nuova alla vecchia dirigenza comunista praghese, tormentata dagli effetti della Perestrojka, ma che comunque l'aveva gettata nello sconcerto. Altrimenti, come si spiega la convocazione anticipata del Plenum, la richiesta di un colloquio che Miroslav Stepan, il segretario del Partito comunista di Praga, rivolse al cardinale Tomasek, il primate della Chiesa cattolica, il quale in ripetute occasioni aveva difeso con calore la causa dei dimostranti deplorando l'«intollerabilità» per quanto stava accadendo.

Da quei giorni, nel Paese che ancora per pochi anni si chiamerà Cecoslovacchia, prese avvio il pluralismo, il multipartitismo e la libertà di espressione, assieme alle prime tensioni etniche, fino ad allora opportunamente coartate dal regime comunista. Nel 1993, infatti, la Cecoslovacchia si divise pacificamente in due repubbliche, Repubblica Ceca e Repubblica Slovacca.

Ricordo che l’ultima volta che incontrai lo scrittore e poeta Bohumil Hrabal – qualche mese dopo la divisione del Paese, gli chiesi tra l’altro se sarebbe ritornato a Kladno, la città che dopo la separazione era rimasta ceca, dove egli aveva ambientato Allodole sul filo il suo romanzo che racconta di un deposito di rottami metallici trasformato negli anni Cinquanta in un campo di rieducazione per borghesi, che avevano cercato di espatriare clandestinamente, costretti a un lavoro manuale.

Una satira arguta sull’assurdo quotidiano e la stupidità burocratica di un regime stalinista che egli iniziò a scrivere durante la “primavera di Praga” del ’68, e la terminò nell’anno seguente, quando il Paese era tornato in mano ai comunisti. Proibito dalla censura, disseppellito vent’anni dopo il romanzo era stato tradotto in un film che vinse alla Berlinale l’Orso d’oro del 1990. Era il mio soltanto un pretesto per sentire il suo pensiero sulla divisione in due del suo Paese.

Clinton PavelNell’osteria U Zlatého tygra, Dalla Tigre d’oro, (dove riuscì persino a trascinarvi il presidente Havel e il presidente Clinton), egli mi rispose con un’alzata di spalle, un sorriso e la levata del bicchiere di birra com’era solito quando non aveva voglia di replicare se la domanda non gli piaceva. Questo accadeva sovente se la domanda riguardava l’attualità.

Accadde anche nell’ agosto dell’ Ottantuno, un anno dopo la rivolta di Solidarnosc in Polonia, la comparsa del nuovo papa – Karol Wojtyla – che con le sue esternazioni stupiva il mondo. Anche allora Hrabal non si lasciò prendere dall’entusiasmo, dall’emozione.
Come la principessa Libuše (la principessa del popolo Ceco che secondo la leggenda fondò Praga nell’VIII secolo, più esattamente nel 730) egli sussurrò un augurio: «speriamo che duri».
Infatti accadde, ma dopo che la Polonia attraversò il colpo di Stato del generale Jaruzelski e altri sei anni di governo comunista.

Dopotutto Hrabal era per molti versi un personaggio che apparteneva al surreale come i suoi racconti, i suoi romanzi che traboccano di descrizioni anti-eroiche, di vicende quotidiane minime sempre al limite del paradosso. E’ il suo un acuto e perciò prezioso bric-à-brac – un flusso ininterrotto di invenzioni e di “chiacchiere” – da Marché aux Puces, che gli diede subito notorietà e lo rese scrittore amato, perché imprevedibile, surreale appunto. Un surrealismo inteso – si badi bene – come ribellione alle convenzioni culturali e sociali, concepito come una trasformazione totale della vita. Considerata l’epoca, con il mondo diviso in due blocchi, meglio si valuta la forza del suo messaggio.

santaE così di ritorno a Praga, in questa vigilia di celebrazioni di trentennali, mi è tornato in mente Bohumil Hrabal guardando la principessa Libuše seduta su un balcone di via Karlova. Di certo la principessa di Praga che s’era augurata fondandola, «una città nel mondo illustre e la cui gloria raggiungerà le stelle», sarebbe perplessa, per non dire allibita dalla vista della sua capitale trasformata – con le bancarelle e i massaggi Thai – in una sorta di Disneyland dentro alla quale ogni giorno si accalcano decine di migliaia di turisti, che poco sanno della Rivoluzione di Velluto e di quello che ne seguì, mentre affollano gli spazi del mitico castello, il più ampio a corpo unico del mondo, come informano le guide.

Se questo è oggi il clima in piazza san Venceslao, verrebbe facile la domanda su quanti giovanissimi praghesi conoscono che il 29 dicembre di trent’anni fa Havel venne nominato Presidente della Repubblica e Alexander Dubcek, l’eroe della “Primavera di Praga”, fu eletto presidente del Parlamento federale cecoslovacco. Il commediografo innamorato della libertà e l’inventore del "socialismo dal volto umano". Una coppia singolare ai vertici del governo di un Paese che scelse il velluto per abbinarlo alla parola “Rivoluzione” che poi si rivelò di essere un “brand” strepitoso, poiché mai prima di allora, era stata pensata una così contrastante unione.

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Vincenzo Maddaloni
Vincenzo Maddaloni ha fondato e presiede il Centro Studi Berlin89, l'associazione nata nel 2018, che si propone di ripercorrere analizzandoli i grandi fatti del mondo prima e dopo la caduta del Muro di Berlino. Professionista dal 1961 (per un decennio e passa il più giovane giornalista italiano), come inviato speciale è stato testimone in molti luoghi che hanno fatto la storia del XX secolo. E’ stato corrispondente a Varsavia negli anni di Lech Wałęsa (leader di Solidarność) ed a Mosca durante l'èra di Michail Gorbačëv. Ha diretto il settimanale Il Borghese allontanandolo radicalmente dalle storiche posizioni di destra. Infatti, poco dopo è stato rimosso dalla direzione dello storico settimanale fondato da Leo Longanesi. È stato con Giulietto Chiesa tra i membri fondatori del World Political Forum presieduto da Michail Gorbačëv. È il direttore responsabile di Berlin89, rivista del Centro Studi Berlin89.
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