La Venezia di tutti per il profitto di pochi

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La «parola d’ordine è che le fabbriche diventino alberghi, gli operai camerieri», la Laguna «un terreno di conquista per investitori stranieri», l’Arsenale è stato «spartito», il Fontego dei Tedeschi regalato a Benetton. L' assurdo è che c'è anche chi si senta in dovere di ringraziare quei pochi che si stanno prendendo Venezia per un tozzo di pane. Quella che è stata la città per eccellenza nell’immaginario occidentale è stata, svuotata, privatizzata, devasta nel suo essere, come denuncia Paola Somma nel libro Privati di Venezia di cui pubblichiamo l'introduzione.

Nell'anno del Covid, le immagini di Venezia sgombra di turisti sono servite da illustrazione a due tipi di racconto.
Calli deserte e finestre sbarrate hanno indotto qualche commentatore a vagheggiare un possibile ripopolamento della città, come se il mero fatto di essersi momentaneamente svuotata di turisti fosse sufficiente a ripristinare le funzioni che la rendevano viva, prima di essere svuotata per i turisti.
Il fronte compatto degli amministratori locali e degli operatori del turismo, invece, ha reclamato interventi statali per far tornare alla normalità la città desolata e ha ottenuto ingenti elargizioni per riaccalappiare masse di visitatori con alta capacità e propensione di spesa, rifiutando ogni ipotesi di riconversione, nemmeno parziale, di un tessuto economico organizzato in funzione di una domanda drogata e da tenere alta con denaro pubblico, sia attraverso massicce erogazioni sia con un regime di vacanza fiscale.

acApparentemente contraddittorie, le due visioni sono complementari e accomunate dal fatto che in entrambe non c'è spazio per gli abitanti. Non solo i rappresentanti delle pubbliche istituzioni hanno, da tempo, dichiarato loro guerra, ma anche chi auspica il ritorno di una popolazione stabile e il ripristino di una mescolanza di attività non allude a persone di reddito e status sociale paragonabile a quello di chi è stato cacciato, ma agli esponenti della cosiddetta "classe creativa", nomadi cosmopoliti in grado di apprezzare, e di pagare, la bellezza della città.

Non stupisce, quindi, che nell'anno del Covid, anche quando c'erano poche persone in strada e il Comune teneva i musei civici chiusi per la mancanza dei turisti, al cui consumo li ritiene destinati, la  città sia sempre rimasta aperta per "asporto & export".
Ricchi e famosi hanno continuato a comprar casa, diventando così veneziani per diritto di proprietà - ad alcuni il Demanio dello Stato ha ceduto addirittura intere isole - e la conversione di edifici pubblici in alberghi di lusso non si è mai fermata.

ospedalemareveneziaIl progetto approvato dal Comune dell'area ex Ospedale al Mare prevede la realizzazione, al posto del vecchio ospedale, di un complesso turistico all’interno del quale ci saranno un albergo del Gruppo TH Resort e un resort 5 stelle gestito da Club Med. Sempre nell’area ci saranno una Scuola Internazionale di Turismo e un centro benessere privato aperto al pubblico.E a conferma che le previsioni, di chi pensava che dopo la pandemia sanità e servizi pubblici non sarebbero più tornati come prima, si sono realizzate, ma in senso opposto alle loro aspettative, non pochi degli edifici trasformati in albergo, o in corso di diventarlo, erano ospedali, residenze per anziani, conventi e scuole.

 Ora, l'inizio del nuovo "rinascimento veneziano" è certificato dal ritorno delle grandi navi, dai maxifinanziamenti alla Biennale, che deve essere premiata per il suo ruolo di grande attratto re di turisti, e dai preparativi per la riunione del G20, durante la quale la città tornerà "zona rossa".

Superfluo notare che gli stessi amministratori, che si sono scagliati contro le restrizioni motivate dall'emergenza sanitaria, plaudono alle limitazioni dei diritti di movimento dei cittadini e alla requisizione dello spazio pubblico se servono per le cerimonie del potere. 
Di fronte ai lugubri segnali di cosa significhi la ripartenza magnificata dal padronato e alla con testuale notizia che i residenti si sono ormai ridotti a cinquantamila la stampa non parla più di esodo né di declino demografico, ma di spegnimento della città, occuparsi ancora di Venezia può sembrare un esercizio futile.
Se pensiamo, però, che "l'anno zero del futuro", come è stato pomposamente definito l'anno del Covid, segni anche per il governo delle trasformazioni urbane la fine di un ciclo e l'avvio di una nuova fase di sfruttamento del territorio, allora, questo può essere il momento giusto per descrivere la strategia e gli strumenti messi a punto, e applicati con successo, nelle varie fasi della presa di Venezia e della spartizione delle sue spoglie.
 
Quarant'anni fa, i seguaci del credo neoliberista decisero che le città valevano troppo per essere lasciate alle comunità che vi abitavano e lavoravano e che bisognava trasformarle in portafoglio di occasioni di investimento.
Da allora la riconversione dei luoghi più ricchi di giacimenti d'arte in fabbriche di eventi e in condensatori di rendita immobiliare e fondiaria ha proceduto parallelamente su tre fronti: alterazione irreversibile del tessuto demografico in termini quantitativi e, soprattutto, qualitativi; interventi sulla struttura fisica per facilitare l'arrivo e il soggiorno di quantità sempre crescenti di turisti; modifica del ruolo dello Stato che, a tutti i livelli di governo, è diventato l'esecutore delle direttive del mercato.
A questo paradigma si sono rapidamente adeguate le amministrazioni locali, per le quali lo smantellamento del nostro patrimonio è diventato una sorta di imperativo morale e che fanno a gara per cedere beni che non sono di loro proprietà, ma di cui sono fedifraghi tutori, comportandosi come consigli di amministrazione di una qualsiasi multinazionale, la cui missione è di far sì che la vendita del prodotto, cioè la città, produca sempre maggiori utili e dividendi agli azionisti.
L'applicazione di questo modello ha avuto effetti devastanti ovunque, ma è a Venezia che l'esperimento di distruggere una comunità per venderne le pietre è stato condotto con più sistematicità e compiutezza.
Non si sa con precisione quanto denaro valga oggi la città ripulita dagli abitanti e da ogni attività che non appartenga alla filiera turistica, quanta ricchezza pubblica sia stata estratta e trasferita ai privati investitori, quale sia il costo pagato dai cittadini per incrementare il suo valore.
È certo, però, che la sua privatizzazione, oltre a impoverire la collettività, ha contribuito a consegnare al conglomerato di interessi che ci ha privati di Venezia anche il compito/diritto di progettarne il futuro e a legittimare il suo primato nel determinare le scelte del governo urbano.

Le vicende di cui si parla nel volume sono note, ma non sembra sufficientemente diffusa la consapevolezza di come i singoli casi siano tra loro collegati e tutti trovino una logica collocazione nel progetto di ridisegnare la città per renderla appetibile agli investitori.

I primi sei capitoli si concentrano su aspetti particolari della privatizzazione di Venezia e sottolineano il contributo alla sua riconfigurazione e alla destinazione di ogni sua parte ad una specifica clientela: le isole della Laguna convertite in oasi a sette stelle; le aree attorno a piazza San Marco, a Rialto e alla stazione ferroviaria trasformate in recinti commerciali tra loro connessi da corridoi pattugliati dalla polizia municipale; la zona dal ponte dell' Accademia alla chiesa della Salute e le sempre più numerose location occupate dalla Biennale cedute al cosiddetto turismo d'arte. Solo lo spazio residuale al di fuori di questi compounds più o meno fortificati è lasciato ai cittadini superstiti che se lo devono contendere con il "turismo straccione".

Tale operazione non avrebbe potuto essere portata a termine senza il tenace e convinto lavoro della Pubblica amministrazione che, malgrado venga spesso tacciata di inefficienza, ha dimostrato una straordinaria operosità nell' assecondare, e perfino anticipare, le richieste dei padroni a danno dei cittadini. In particolare gli strumenti messi a punto dal Comune - dalle modifiche delle prescrizioni urbanistiche alle vendite di edifici, dalla costruzione di manufatti finalizzati a valorizzare gli interventi dei privati alla messa in moto di una ininterrotta campagna di marketing che usa la città come vetrina di sestessa - sono stati fondamentali per trasferire ricchezze e prerogative pubbliche ai privati.

Tre capitoli, infine, sono dedicati agli storici capisaldi della città, luoghi deputati, non solo simbolicamente, alla vita collettiva e ora sottratti ai cittadini: Rialto, il cuore commerciale della Serenissima, di fatto inglobato nel dominio del Fontego dei Tedeschi di proprietà dei Benetton; l'Arsenale, fulcro della potenza militare, spartito tra la Biennale e il Comune che lo usano come fiera commerciale; piazza San Marco, sede del potere politico e religioso, ridisegnata e presidiata dal potente gruppo finanziario delle Generali.

Privati di Venezia non è frutto di ricerche di archivio, ma della semplice rilettura delle cronache quotidiane' le cui informazioni ci sono passate davanti agli occhi ogni giorno e che non sempre abbiamo saputo/voluto connettere le une alle altre. Se lo avessimo fatto, ci saremmo resi conto che la privatizzazione di una città, che aveva uno dei patrimoni pubblici - abitazioni, palazzi, spazi non edificati - più estesi e preziosi d'Italia, era allo stesso tempo precondizione e risultato della sua riforma e modernizzazione, secondo i dettami di chi intendeva impadronirsene. 

Certo, una simile lettura sarebbe stata più agevole se la ricerca indipendente e la vigilanza critica delle istituzioni culturali non fossero state pressoché assenti. Le università, anche quando non direttamente coinvolte in operazioni di sviluppo immobiliare o nella loro legittimazione, hanno rinunciato a indagare e documentare i meccanismi e gli attori che hanno fatto di Venezia il laboratorio dove applicare il modello globale di sviluppo del capitalismo postfordista, basato sulla rifunzionalizzazione di un'intera città.

E i mezzi di comunicazione, a parte qualche voce isolata, hanno acriticamente propagandato la figura degli investitori mecenati compiacendosi per il succedersi di riaperture, riconsegne, restituzioni alla città, dimenticando che, dei vari termini con i quali si esalta la rapina del patrimonio pubblico, 'restituzione' è forse quello più ingannevole, perché alla fine di tante "restituzioni", la collettività non possiede più nulla. Che si tratti di grandi complessi edilizi, il cui accesso era limitato o temporaneamente impedito, perché utilizzati per ospitare attività di interesse pubblico, o di pezzi di città che vengono ridisegnati in funzione della loro assegnazione ai privati, la loro cessione comporta che, sebbene talvolta tali beni diventino accessibili al pubblico, le modalità di fruizione sono lasciate alla totale discrezione dei privati.

Gli artifici retorici con cui si millanta la presunta equivalenza tra la privatizzazione dello spazio pubblico e la sua restituzione alla città, sostenendo che, per poter essere definito pubblico, uno spazio non deve necessariamente essere di proprietà pubblica, perché quello che conta è che esso sia utilizzabile, aperto al pubblico, non sono solo ossimori linguistici. In realtà, parlare di "spazio pubblico di proprietà privata" significa riconoscere ai privati, oltre ai profitti finanziari, la conquista dell'egemonia culturale nell'indirizzare il discorso sulla città.

Privati di veneziaSenza suggerire ricette per il futuro di Venezia, ormai nelle buone mani di chi sa farla fruttare, la speranza è che questo libro possa servire da avvertimento ai cittadini di altri luoghi che, di fronte alla distruzione delle opportunità di lavoro e al degrado delle loro condizioni di vita, sono indotti a pensare che il turismo sia l'unico modo per sopravvivere e che il patrimonio pubblico sia un fardello di cui è bene liberarsi.
In ogni caso, intende proporre una versione dei fatti alternativa a quella dominante, affinché la nostra storia non sia scritta dai vincitori.

Come è noto, in guerra, la prima vittima è la verità.


Paola SommaPaola Somma è, da anni, la voce più radicale e lucida sulla situazione drammatica, e sul destino, di Venezia.  Ha insegnato Urbanistica presso lo IUAV di Venezia ed è stata visiting professor all’Università Americana di Beirut. Svolge ricerca indipendente con attenzione ai rapporti tra l’organizzazione fisica e la struttura economica e sociale del territorio. È membro del comitato editoriale della rivista «Open House International». Fra le sue pubblicazioni Venezia Nuova (1983), Spazio e Razzismo (1991), Beirut: guerre di quartiere e globalizzazione (2000),  Privati di Venezia (2021).

 

 

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