L’Italia e lo scherno tedesco

 
Steinfeld L’Italia e lo scherno tedesco
di Thomas Steinfeld
Che ci sia un “Europa dei Vinti”, è chiaro dall’inizio della cosiddetta crisi finanziaria, cioè da circa 10 anni. Da allora, la ricchezza dei paesi che si sono uniti nella comune moneta europea (euro) cresce poco, almeno se confrontata con quella della Cina o degli Stati Uniti.
Prima questo era diverso: fino a quando c’era stata una crescita degna di questo nome, ogni singolo stato della comunità aveva potuto crescere, qualcuno di più, qualcuno di meno. Ma da quando non cresce quasi più niente, vince solamente colui che lo fa a spese degli altri. Vinti e vincitori divergono palesemente e questo è tanto più evidente quanto più rigide sono le regole della competizione alle quali gli uni e gli altri si sono impegnati a sottostare. E quando un paese appartiene ai vinti, anno dopo anno: come possiamo dirci veramente sorpresi, se questo paese non vuole più impegnarsi a rispettare le regole, o addirittura sogna di abbandonare la competizione? Questa è la condizione in cui si trova, dopo le ultime elezioni, la terza economia dell’Unione Europea: l’Italia.
Il paese ha trascurato “dieci anni di competitività ” ha sostenuto di recente Hans Werner Sinn, uno dei più famosi economisti tedeschi. Dal punto di vista italiano, le ragioni del fallimento sono altre. Perchè là (in Italia) la storia del paese, dopo la seconda guerra mondiale, viene presentata come una catena di enormi sforzi collettivi, e cioè l’aver acquisito quella capacità di essere competitivi – che si misura (compete) con i successi dei paesi del nord e della Germania in particolare.
Questa storia è iniziata con la formazione di enormi aziende statali nelle settori chiave dell’industria (acciaio, chimica, energia, un’eredità della politica economica fascista) e le enormi sovvenzioni statali al sud del paese, molto povero e a prevalenza agricola, dopo la seconda guerra mondiale.
L’Italia, e questo era chiaro non soltanto all’interno del paese, sarebbe dovuta diventare una delle grandi nazioni industriali della terra.

Un caos totale di delusioni, accuse di frode e razzismo
Questa storia ha condotto alla fine l’Italia alla partecipazione alla moneta unica, che, da lei voluta e promossa, sarebbe dovuta diventare il mezzo decisivo per compensare tutti i precedenti svantaggi competitivi: ossia permettere all’Italia l’accesso ai meriti di credito dell’intera comunità, a bassi tassi d’interesse, in una misura come mai le sarebbe stato possibile ottenere altrimenti da sola. 
Per 70 anni, ha avuto la volontà di rivendicare l’appartenenza ad una grande nazione internazionale di successo. Adesso, questo è perlomeno in dubbio, in un un caos totale di delusioni, accuse di frode e razzismo.
La storia dei ripetuti tentativi della nazione di vincere nella competizione internazionale, è visibile nel paesaggio del paese, con l’esempio delle rovine industriali. Il petrolchimico a Marghera, le acciaierie a Taranto, le raffinerie di Brindisi (e altri innumerevoli esempi) sono tutti monumenti di giganteschi tentativi, più o meno falliti, di far nascere complessi industriali sotto il controllo statale, che potessero misurarsi, per grandezza e competitività, con giganti come Thyssen o Krupp, Usinor o British Steel. Molte di queste industrie furono impiantate al sud, di per sè molto meno produttivo, appunto per cercare di contrastare le insopportabili differenze esistenti fra nord e sud del paese.
Il fatto che questi piani non abbiano funzionato, e che cioè lo stato continuasse a gestirle, ha creato, negli anni sessanta e settanta, le basi per un debito pubblico, che in seguito è esploso, a partire dai primi anni ottanta. E quando alla fine le fabbriche sono state distrutte e in gran parte privatizzate, e le sovvenzioni al sud terminate, e il governo centrale ha trasferito una grossa parte dei suoi debiti alle regioni e ai comuni, non è solo stata compiuta una razionalizzazione, ma è stata anche distrutta un’infrastruttura, che, pure tra luci ed ombre, aveva funzionato.
Queste rovine vengono considerate l’esempio di una tipica cattiva gestione all’italiana, mentre in realtà sono qualcos’altro: proiezioni di un futuro, che non si è mai avverato.
Lo sforzo più recente di competere con i ricchi paesi del nord, la partecipazione all’euro, sembra essere l’ultimo tentativo di dimostrare la propria sopravvivenza, nella concorrenza delle grandi nazioni: l’accesso al credito condiviso ha comportato l’impegno ad una concorrenza a parità di condizioni, mentre il fardello degli ultimi decenni, il debito pubblico, era ancora presente. Il paese sarebbe dovuto essere rinnovato completamente con le nuove liquidità ( nuovi soldi): è successo il contrario: nel confronto diretto delle forze produttive ha prevalso il capitale più forte.
“L’Ordoliberalismo Europeo” sostiene a riguardo l’economista Sergio Cesaratto, dell’Università di Siena, è una “ forma di nazionalismo del potere economico dominante” (Sergio Cesaratto, Chi non rispetta le regole? Imprimatur, Reggio Emilia, 2018) Cosi’ si percepisce in Italia, quello che in Germania è considerata una specifica incapacità tutta italiana.
In questo modo, la contraddizione di base dell’Unione Europea ha raggiunto la piena realizzazione: due dozzine (una ventina) di stati europei incompetizione tra loro si erano uniti con l’obiettivo di cercare insieme il rispettivo interesse personale. Al museo dell’automobile di Torino si puo’ vedere una grande cartina, sulla quale lampeggiavano tutti i punti della città, dove una volta erano presenti industrie che lavoravano in questo settore. Quello che ptima deve essere sembrato un cielo pieno di stelle, adesso appare buio. Cartine simili si potrebbero fare per tutta l’Italia e per svariati settori industriali, per i produttori di elettrodomestici (Zanussi, Merloni) o di apparecchiature per ufficio (Olivetti), per l’industria del mobile, così come per i produttori di strumenti musicali.
Negli anni successivi alla cosiddetta crisi finanziaria, la produzione industriale in Italia è diminuita di circa un quinto. Un milione di posti di lavoro sono stati distrutti. Non facciamo finta di nulla: da qualche il surplus di commercio estero degli stati come la Germania deve pur avere conseguenze. La produzione industriale cresce di nuovo dal 2015, dall’1 al 2% all’anno. Adesso ha raggiunto il livello della fine degli anni Novanta.
Una malvagia distorsione delle circostanze
“Gli scrocconi di Roma” cosi’ vengono adesso derisi gli italiani dalla stampa tedesca, in un terribile rovesciamento dei fatti. Questo è da vigliacchi, perchè rifiuta la semplice idea che in una competizione, se ci sono dei vincitori, ci debbano essere necessariamente anche dei perdenti. E invece denigra gli sconfitti, per il fatto di non appartenere alla cerchia dei vincitori. Non solo è sbagliato, ma è anche espressione di cecità nazionalistica, il voler personalizzare i colpevoli di questo fallimento, sia riferendosi agli uomini, sia sotto forma di presunti aspetti caratteriali (la dolce vita) che al sud sembrerebbero molto diffusi.
E’ ovvio che l’Italia, spinta com’era dalla volontà indomita di partecipare all’unione monetaria, avesse tenuto un atteggiamento di eccessiva compiacenza nei confronti delle proprie reali possibilità, e questo nonostante le esperienze del passato – dei 6 marchi che si ottenevano con mille lire nel 1970, alla fine degli anni Novanta non ne era rimasto nemmeno uno.
D’altra parte, agli altri stati che stavano per entrare nell’Euro non era affatto sfuggito come si fosse flessibili in Italia nei riguardi dei parametri di adesione, e loro stessi non erano meno flessibili. Il desiderio di formare una comunità, più grande e potente possibile, fu più forte della volontà di far rispettare tali parametri, due dei quali, tetto massimo del debito pubblico al 60% del PIL e 3% annuo di indebitamento massimo, rispecchiavano fedelmente le condizioni dell’ economia tedesca.
L’Italia ha resistito agli effetti immediati della crisi finanziaria del 2008 con un danno relativamente basso. Nessuna delle banche italiane ha dovuto essere salvata, mentre al contrario le banche tedesche sono state aiutate con 226 miliardi, e il rapporto debito/Pil della Repubblica federale è aumentato dal 64 all 81 per cento. E naturalmente, c’era anche l”italia (fra i donors), quando è stato varato il “pacchetto di salvataggio” per la Grecia o il Portogallo, mentre l’anno scorso, il salvataggio di due banche regionali italiane (17 miliardi di euro in tutto) è stato trattato come uno scandalo e come una questione strettamente nazionale.
Gli effetti indiretti della crisi si sono poi rivelati ancora più devastanti: durante la lunga recessione, che ha seguito la cosiddetta crisi bancaria, l’intero mercato si è riorganizzato, a tutto svantaggio della piccola e media impresa italiana, con perdite crescenti anche nel Nord – mentre parti importanti dell’industria italiana, in particolare il gruppo automobilistico Fiat, hanno spostato non solo la produzione, ma anche l’amministrazione e la responsabilità fiscale all’estero.
Le promesse del “Movimento 5 Stelle” e della Lega non sono così avventate come vengono rappresentate qui da noi (in Germania)
Ecco perché sembra una beffa, quello che sostiene Hans-Werner Sinn, che l’Italia abbia trascurato la “competitività”. È vero il contrario: se ne sono occupati senza sosta. In realtà, in questo paese, dalla chiusura della “Cassa per il Mezzogiorno” (1984) all’abbassamento delle pensioni (in più fasi, l’ultima nel 2011 con Mario Monti), dalla fine della “scala mobile”, la regolazione automatica dei salari per l’inflazione (1992), fino al programma di”valorizzazione” dei beni culturali (2014) non hanno lasciato nulla di intentato per migliorare la “competitività”, per ridurre la spesa pubblica e aumentare le entrate: gli sforzi, tuttavia, non sono stati sufficienti, a causa di una concorrenza superiore, ma anche per motivi interni, il più importante dei quali, oltre alla corruzione e alla burocrazia, è la mancanza di produttività economica nel Sud.
Succede quindi che semplicemente non è rimasto denaro per aumentare la “competitività”, ad esempio sotto forma di infrastrutture migliorate. Questa “abilità” deve essere pagata. E come può essere, se lo Stato incassa troppo poco delle imposte con una crescita minima, mentre devono essere pagati i tassi di interesse per un debito di più di due trilioni di euro?
Le promesse dell’alleanza ora al governo tra il Movimento 5 Stelle e la Lega, a partire dall’annuncio di una migliore assistenza sociale (che è erroneamente chiamato “reddito di base”), al desiderio di farsi cancellare 250 miliardi di euro di debito dalla BCE sono quindi lontani dall’essere avventurosi, come vengono rappresentati qui in Germania. Questo desiderio nasconde solo due semplici intuizioni: primo, che la partecipazione all’euro in Italia non può più essere vista come una promessa di successo, al contrario, e in secondo luogo, che lo stato italiano deve in qualche modo riguadagnare la sua capacità di agire all’interno della propria economia. Questo include la volontà di ampie fasce della popolazione (e di molte aziende) di comportarsi diversamente e di spendere più denaro rispetto agli anni precedenti.
Se ciò non dovesse riuscire, in Italia probabilmente arriveranno al potere forze molto più radicali rispetto agli idealisti nazionali, fondamentalmente apolitici, del Movimento 5 Stelle. È probabile che la riduzione del debito dalla BCE si riveli col senno di poi una via di uscita dalla crisi, al momento sfortunatamente bloccata, anche se relativamente più economica. Dopotutto, anche questo fa parte dell’unione monetaria: alla fine, gli stati che hanno spinto i loro concorrenti fuori dal mercato devono garantire i loro debiti, in modo che l’attività comune possa continuare.

 Traduzione di Giovanni Fosella  Fonte: Politica&EconomiaBlog
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