Tra guerre umanitarie democrazie sessuali e scontro di civiltà
Fino agli anni Ottanta il corpo assieme all'abito non erano ancora i segni distintivi della collocazione sociale.
Tuttavia erano quasi del tutto scomparse le immagini di capelli lunghi e bisunti, di denti mancanti e delle donne sempre incinte e scarmigliate che connotavano le classi più povere degli anni Cinquanta. Oggi la pauperizzazione dei ceti medi, dei professionisti e dei lavoratori cognitivi segna profondamente, come negli anni Cinquanta, la visione del corpo.
La stru mentalizzazione delle diversità è stata uno dei veicoli attraverso i quali sono state promosse le guerre umanitarie, la tutela delle differenze sessuali, con una lettura asimmetrica, viene “scoperta” solo in Paesi non allineati all’occidente, per cui si è arrivati al paradosso tragico, che se circola in rete il blog di una lesbica di un certo Paese che denuncia persecuzione, siamo sicure che quel paese è nell’elenco dei paesi da invadere.
Ma l’assunto delle democrazie sessuali e delle guerre “umanitarie”, partendo dal presupposto di una nostra presunta civiltà, veicola il razzismo in maniera prepotente, per cui ci sono i corpi che vengono percepiti come” non bianchi”, comprendendo in questo non solo i corpi “non bianchi” in senso stretto ma , in una lettura allargata, i corpi che manifestamente sono percepiti come inferiori e schiavizzabili dai vincitori e, per un naturale trascinamento, anche i corpi che nelle nostre democrazie occidentali vengono, comunque, percepiti come più deboli e/o diversi.
Da qui il passaggio dalla detenzione per condizione dei corpi migranti alla detenzione per condizione dei corpi “altri” in senso lato è breve e da qui la diffusione della violenza come regolatrice dei rapporti tra oppressi. Il razzismo, sotto mentite e negate spoglie, attraversa e intride le nostre società occidentali in profondità. Da qui la necessità di rigettare, con forza, ogni forma di definizione e catalogazione dei corpi, delle menti e dei comportamenti attraverso gli esperti perché chiedere l’annullamento di questa o quella patologia comportamentale, che, magari, ci è più vicina, non fa altro che accettare e rafforzare il principio della catalogazione degli esseri umani.
La definizione dell’essere umano e del suo stesso corpo passa, prima ancora, attraverso l’impostazione delle menti, volta a tradurre tutto in merce, anche i sentimenti, i costumi, la cultura. E’ un processo omogeneizzante che attraversa le classi, che vuol far sparire la conflittualità sociale e la lotta di classe. Jacques Lacan, parlando della società capitalista afferma che, "agli antichi schiavi si sostituiscono uomini ridotti allo stato di “prodotti” consumabili né più né meno degli altri.”
Tutto questo è volto a uniformare, indifferenziare, scombinare i riferimenti classici e la scala di valori che, una volta, delle classi erano caratteristica e riconoscimento. Per esempio, il sottoproletariato, emarginato e ridotto a mera sopravvivenza, era stato escluso da Marx dal progetto rivoluzionario che si incardinava sulla sola classe operaia. E, in quella scia, Lenin aveva visto soltanto l’alleanza della classe operaia con i contadini.
I sottoproletari che abbiamo conosciuto negli anni Cinquanta e Sessnta, nelle manifestazioni esterne del corpo, denunciavano la loro collocazione sociale, i capelli lunghi e bisunti, i volti scavati, e, magari , qualche dente mancante, le donne sempre incinte e scarmigliate. Negli anni Settanta e Ottanta, questa connotazione, nelle sue manifestazioni più esteriori, è venuta meno come per altre immagini analoghe: le mani grandi e rozze del contadino che ci racconta Prospero Gallinari o l’abito-divisa dell’ operaio o il vestito della prima comunione di Barbara Balzerani.
L’aspetto fisico e l’abito/divisa erano i segni distintivi di appartenenza alla classe o alla frazione di classe, ereditati dalla seconda metà dell’ Ottocento. Negli anni Settanta e Ottanta questa forbice era stata, per tanti versi, ridimensionata, e non per un generico mutamento dei costumi, ma per via della lotta di classe. L’impegno politico colmava il ritardo nell’istruzione scolastica, la frequentazione dei collettivi permetteva un reciproco arricchimento a tutto campo, compresi gli aspetti esteriori e l’abbigliamento.
Le lotte permettevano l’accesso alla sanità, scomparivano le manifestazioni più esteriori della condizione sociale. Il titolo di studio non era più un miraggio: un boom di laureate/i in prima generazione. E questo valeva all’andata e al ritorno. Infatti la cocaina, la sostanza stupefacente per artisti e ricchi, approdava in tutte le classi. Ma, oggi, nella stagione neoliberista, tutto questo è venuto meno.
I tratti distintivi dell’appartenenza ad una classe sono e stanno ritornando prepotentemente come negli anni Cinquanta. La collocazione sociale segna profondamente, come negli anni Cinquanta, il corpo. Ma la novità, rispetto a quel periodo, è la pauperizzazione dei ceti medi, dei professionisti e dei lavoratori cognitivi che si manifesta anche nell’ omogeneizzazione dei corpi e dei tratti e delle manifestazioni culturali con i proletari e sottoproletari. Questo mentre è nata l’iper-borghesia che si riconosce, infatti, dall’abito/divisa e dai valori culturali da cui ha rimosso la cultura classica e ha promosso, al suo posto, la capacità di generare profitto e la reintroduzione del principio virtù pubbliche e vizi privati.
Il progetto neoliberista, nel suo delirio darwinista, pretende di annullare la “plebe” che è nei corpi, attraverso l’abrogazione di tutti i simboli e i valori personali, azzerando la ricchezza delle diversità, imponendo la legge del più forte. Il disciplinamento dei corpi che avviene nelle istituzioni totali, dove non si ha più storia personale e dimensione collettiva, oggi permea tutta la società, trasformata in un Panopticon. Gli essere umani devono sbarazzarsi, secondo questo progetto, di tutto quello che è più personale che, un tempo, garantiva le loro relazioni, perché non c’è niente all’infuori dei valori mercantili.
Per questo, la “riduzione delle menti” si accompagna, di pari passo, all’ alterazione dei corpi. La visibilità esteriore, che si sta riaffermando con forza, è accompagnata, con altrettanta forza, dall’impegno e dal progetto di abolire l’umanità che c’è nella persona. Fino a ieri, gli individui parlavano attraverso gli esperti, oggi, parla per loro il mercato. Per questo, va coltivata ogni forma di resistenza e reso esplicito quello che è manifesto: il silenzio da cui è circondata questa operazione.
Al mercato non interessa più l’essere umano in quanto tale e l’attacco è diretto alle sue forme di resistenza. Ma, queste, non sono innate. L’innatismo è una categoria idealistica sulla quale non si costruisce niente, il che sarebbe il male minore, se non venisse presa come dato in sé. Le resistenze si costruiscono nel percorso della nostra vita, attraverso le letture, le esperienze, le lotte….
Queste sono le gambe su cui camminano e si formano. E’ sempre da una lettura materialista della nostra storia che dobbiamo cominciare. Il materialismo, spesso accettato a livello teorico, ha il suo più grande nemico nella difficoltà di tradurlo in pratica nella quotidianità.
Da questo dobbiamo sempre ricominciare. Ridefinire o, più precisamente, riaffermare, perché, da questo punto di vista non inventiamo niente, ma apparteniamo ad una grande tradizione, le basi materialistiche dell’umanità, ci permette di riformare lo spirito e di salvaguardare la “plebe” e le ” resistenze” che ci sono in ciascuno di noi. Le resistenze non nascono dallo spirito, lo spirito non ha vita autonoma e valori propri.
E’ il divenire dell’umanità che plasma lo spirito e le resistenze. Da qui, la necessità di non buttare il bambino con l’acqua sporca, di non rinunciare alla lettura di classe e, allo stesso tempo, di non assumere la lettura di classe come unico strumento di conoscenza e di risposta, ma di utilizzarla come uno dei termini di un rapporto dialettico che deve avere con l’etnia, il genere, le aspirazioni all’indipendenza.
E’ la dialettica il grimaldello attraverso cui recuperare lo spirito originario del femminismo. Ma gli stessi tratti distintivi che, pure, sono presenti in tutti i corpi non sono innati. Non c’è niente nella coscienza degli esseri umani che nasca con loro. E’ sempre il loro essere sociale, il divenire della materia, che determina la loro coscienza e tutte quelle forme che vengono, impropriamente, chiamate innate. Non solo la nostra coscienza della natura, ma anche la nostra conoscenza della natura è determinata dal nostro essere sociale.
Da una determinata articolazione della società nasce il rapporto con la natura tutta, comprese tutte le qualità inerenti al corpo, tutte figlie di una determinata forma della società. Non si tratta tanto di recuperare Marx, quanto il materialismo, e fare i conti con lo spiritualismo che, cacciato dal portone, spesso rientra dalla finestra. Questo significa riconoscere in sé l’interazione dialettica di soggettività e oggettività. Serve a riaffermare il modo e il fondamento dell’ oggettività/materia.
Pertanto, se ci sono situazioni e tratti oggettivi, questi non sono predeterminati e statici e, ne segue, che non è dato, che lo sviluppo storico non ne possa produrre nuovi e, a loro volta, non possano produrre oggettive forme di movimento ovvero dei momenti dialettici. Comprendere il carattere dialettico dei tratti e della conoscenza significa comprenderla, al tempo stesso, come processo storico.
Se i tratti distintivi esteriori del corpo sono facilmente definibili attraverso le categorie marxiste, quelli “plebei” di resistenza. che sono trasversali e presenti in tutti i corpi e travalicano la collocazione sociale, non sono innati, ma sono anche questi figli del processo sociale. Il neoliberismo vuole ridurre a merce tutte le forme in cui si organizzano i corpi e la società, comprese le preferenze e le inclinazioni sessuali, ma, tutto quello che è forma di resistenza, per il suo dispiegarsi, lo vuole distruggere. Perciò, anche quelle forme di resistenza trasversali, che, pure, sono presenti nei corpi, ha necessità di farle venire meno. L’ideologia neoliberista, forma compiuta ed attuale del divenire del capitale, non vuole la liberazione degli esseri umani, ma pretende, addirittura, la fine di ogni forma simbolica a vantaggio esclusivo del valore mercantile.
La violenza del neoliberismo si manifesta nella sua pretesa di vietare ogni forma di conflitto, di differenza e di declinare tutto nel suo interesse e di sacrificare tutto alla sua conservazione ed autoespansione. Le singolarità e i corpi non ubbidiscono a giudizi di valore a prescindere, possono rendersi complici della missione di sottomettere con ogni mezzo le molteplici culture, diversità e inclinazioni o rifiutarsi di piegarsi al pensiero unico e dominante senza neanche essere, a loro volta, un contropensiero unico, inventando il proprio gioco, le proprie regole del gioco, conservando un’irriducibile alterità e, in questo, realizzandosi.