Alexanderplatz ridiventa simbolo della rivolta
Scomparsi gli operai. Presenti dai nuovi poveri ai precari.
L’anno 2021 era stato giudicato con largo anticipo nero. Era partito dichiaratamente all’insegna delle difficoltà economiche appesantite dalla pandemia, ragion per cui saremo costretti a prendere delle decisioni, personali e collettive che potrebbero scatenare nuovi e devastanti conflitti.
La peste da Covid19 ha disegnato uno scenario ideale per la classe eletta dell’economia globale, secondo la quale le persone non soltanto sono sempre meno necessarie, ma con le loro richieste di un salario sufficiente a vivere sono considerate una fonte primaria di inefficienza economica. David Korten, economista, professore emerito dell’ Harvard Business School conferma: «Le multinazionali globali si stanno purgando da questo peso indesiderato. Stanno creando un sistema che prevede meno persone e più tecnologia».
Con le quarantene sono emerse anche nel mondo del lavoro delle realtà scioccanti, con il capitalismo-postfordista che ha calcato la mano sul Flexible Capitalism, il nuovo regime di accumulazione basato sulla flessibilità del rapporto di lavoro. Flessibilità che sta - l’abbiamo imparato in fretta - per precarietà, in un mondo postindustriale dove da quattro lustri a questa parte, non si parla più, come scriveva il sociologo Ulrik Beck di divisione del lavoro, ma di “divisione della disoccupazione”. Pertanto non ci vuole molto a capirlo, che con il Coronavirus la fila dei nuovi poveri si è ispessita coinvolgendo anche il ceto medio. “Nuovi poveri” perché a differenza di quanto accadeva prima i senza lavoro vivono nel continuo e logorante sospetto di non essere all’altezza dei tempi che impongono nuovi standard, nuove regole di vita e di lavoro, da qui l'inquietudine permanente di rimanere in eterno disoccupati.
Insomma, la pandemia assieme alla minaccia di perdere il posto di lavoro, provoca nella gente un senso di fallimento, alimentato dall’incapacità di rispondere adeguatamente alle nuove sfide, che minano alle radici la percezione di continuità dell’esistenza e della tradizione, scollegano definitivamente il già mal conciliato tempo di lavoro e il tempo libero, creando così le condizioni di un conflitto permanente tra la personalità dell’individuo e la sua quotidiana esperienza di vita all’interno della comunità.
Per molti versi è il ritratto impietoso e inquietante che Walter Benjamin offrì della Germania di Weimar degli anni Venti, quando nelle grandi città tedesche, come nei piccoli centri di provincia, si diffondevano paura e insicurezza. L’interno borghese del passato guglielmino, simbolo di buon gusto e di piacevole agiatezza, non era più un luogo protettivo, ma un cadavere in putrefazione. La gente non riusciva a tirare avanti. Si parlava soltanto ed esclusivamente dei maledetti soldi, che mancavano sempre. Lo sfacelo era assoluto: vita grama, sudiciume, miseria. Si sopravviveva come relitti assediati, giorno dopo giorno, senza via di scampo. L’analisi sociologica di Benjamin è molto lucida, crudele allarmata. Erano gli anni nei quali Alexanderplatz era , “il cuore pulsante di una città cosmopolita come lo era Berlino”: così la definì Alfred Döblin nel suo celebre romanzo Berlin Alexanderplatz, del 1929.
I PROTAGONISTI DELLA SPARTAKUSBUND
Infatti, più di qualsiasi altra piazza essa era - cent’anni fa - il simbolo di Berlino capitale di cui viene coltivato con tanta cura il mito. Tutte le correnti culturali si incontravano e spesso si confondevano in quella piazza: l' espressionismo, il dadaismo, il futurismo, il cubismo, il costruttivismo, la Nuova Obiettività. Era la stagione nella quale una diciottenne di nome Marlene Dietrich, figlia di un tenente di polizia, faceva le sue prime apparizioni nei teatri, in cui regnava Max Reinhardt, e negli studi cinematografici, dove più tardi Sternberg l'avrebbe fatta recitare nell' Angelo Azzurro. Duecentocinquanta caffé e cabarets animavano la zona intorno ad Alexanderplatz fino a raggiungere Friedrichstrasse. I film di Fritz Lang offrono alcune immagini di quel cuore della città ansiosa di dimenticare la guerra e la rivoluzione, incapace di sfuggire alla crisi.
È nel cuore della capitale Berlino che nasce e si diffonde (1918-1919) la Lega di Spartaco (in tedesco Spartakusbund), un'organizzazione socialista rivoluzionaria d'ispirazione marxista. Il nome di Spartaco era stato voluto poiché richiamava in quel presente il passato mitico della rivolta degli schiavi nella Roma dei Cesari. Raccontano i libri di storia che costituitasi in seno al movimento pacifista tedesco, sorto in reazione agli orrori della Grande Guerra, la Spartakusbund divenne, di fronte all'imperante militarismo assunto dai socialdemocratici al potere, il primo nucleo di quello che sarà poi il Partito Comunista di Germania.
Il movimento avrà vita breve. Nel gennaio del 1919, gli spartachisti insorsero contro il governo socialdemocratico che aveva vanificato le loro richieste, ma vennenro brutalmente repressi dall'esercito tedesco e dai Freikorps ("Corpi franchi", organizzazioni paramilitari anticomuniste assoldati dallo stesso governo socialdemocratico al potere). Sono centinaia gli spartachisti che saranno assassinati, inclusi gli stessi fondatori del movimento, Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, la quale sarà gettata nel Landwehrkanal in prossimità del ponte di Lichtenstein. Pochi anni dopo Franz Hessel in uno dei suoi saggi raccolti in Spazieren in Berlin (1929), annotava che, “contemplando i riflessi dei rami nell' acqua, si stenta a immaginare che il silenzio di questo ponte fu profanato da delinquenti che, a qualche passo da qui, gettarono nell' acqua il corpo agonizzante di una nobile combattente che ha pagato con la vita la sua bontà e la sua bravura.”.
Naturalmente, mano a mano che la Germania diventava nazista, il centro di Berlino si spostava verso Ovest, abbandonando i quartieri popolari, e lasciandosi alle spalle Alexanderplatz e Friedrichstrasse, le quali non perdettero le vetrine e i caffé, ma conservarono soprattutto i disoccupati e le prostitute. Accadde perchè Il Nazismo nascente aveva bisogno di scenari ben diversi , puntava alla Kaiser-Wilhelm-Gedaechtniss-Kirche quella chiesa evangelica non ancora ferita dai bombardamenti angloamericani, intorno alla quale negli anni Venti e Trenta si raccoglievano i ricchi che poi sostennero Adolf Hitler nell’ascesa al potere.
Sono pagine di Storia che tornano alla mente da quando le manifestazioni, le proteste, le rivolte spesso molto violente, si vanno infittendo in Europa come altrove, da parte di una folla di disobbedienti molto variegata, nella quale numerosa è la presenza della classe media. Tant’è che in Europa, persino i moderati e i vecchi conservatori sono seriamente preoccupati per la tenuta del sistema sulla quale si regge la civile convivenza, al punto tale che ormai già si parla di “post-democrazia”, vuol dire che il peggio deve ancora arrivare.
Succede perchè la vita precaria intesa nella sua accezione più ampia, funziona come un collante sociale all’interno della dimensione pubblica. La protesta non è più nella fabbrica, ma è scivolata nella piazza. Come spiega la filosofa Judith Butler, «La libertà è qualcosa che si esercita il più delle volte insieme agli altri, e non necessariamente in modo unitario o conforme. Tale esercizio non presuppone né produce un’identità collettiva, quanto, piuttosto, un insieme di possibilità e di relazioni dinamiche che includono forme di supporto reciproco, conflitto, rotture, gioia, solidarietà».
Il riferimento è a un framework che abbraccia tutti i soggetti «precari», dunque le persone definite «vulnerabili» perché esposte alle disparità economiche, alle discriminazioni di genere, relegate a una scarsa o pregiudizievole visibilità all’interno dello spazio pubblico come i migranti, i disabili, i transessuali. Allora, i soggetti performano la loro precarietà, rivendicano le loro modalità di azione, inscenano i loro bisogni all’interno di uno spazio, la piazza appunto, che è di tutti. Vivono uno accanto all’altro, dormono in piazza nel caso delle occupazioni. Sono i soggetti esclusi, sono i borghesi impoveriti i nuovi protagonisti delle rivolte.
COSA C'ENTRA LA PANDEMIA CON LE RIVOLTE
E' più che naturale che dagli squilibri provocati della pandemia sia nato un desiderio ansioso di interrogarsi, che ha avviato una ricerca profonda sui valori che accomunano gli uomini, sui criteri che li regolano, sui perché le regole tradizionali si scontrano con le nuove con effetti laceranti, e infine sul senso stesso dell’esistenza.
Nell’immaginario collettivo, l’evoluzione del sistema economico degli ultimi decenni ha progressivamente condotto all’implicito diktat “l’efficienza precede l’equità”, sicché viene accettato come se fosse una cosa naturale, che le disuguaglianze economiche siano il prezzo da pagare per garantire la continua crescita delle nostre economie avanzate.
Dopotutto, c'è una presa di distanza contagiosa della politica, che accomuna gli Stati europei, sulle «questioni sociali», poiché esse sono difficili da gestire, perchè l' oggetto del contendere non sono le ragioni di lavoro, bensì le condizioni di vita che si prestano facilmente a infinite manipolazioni mediatiche e populiste. Nessuno, e tanto meno la sinistra di tutta Europa cerca di dare una dimensione a questo malessere che rischia di degenerare con la pandemia, e che dilania le comunità che ne sono afflitte, mettendo in discussione l'insieme dei rapporti sociali. A gestire il malessere ci pensano le destre a conduzione alla Salvini, "presenti" e "vincenti" in Germania, Polonia, Ungheria, Italia, Lituania.
Quale sarà il futuro comune della coesistenza? Prevarrà la cultura del rispetto dei diritti umani o quella dell’human security con la quale si limiteranno gli spazi democratici e si privilegeranno le leggi coercitive che ben conosciamo? Prevarranno le libertà civili o le leggi di sicurezza, gli imperativi dei sacri testi? Sono queste le domande ricorrenti, benché il media mainstream volutamente le ignorino, perché - assicurano - è inutile immaginare un mondo diverso. A rafforzare l’invito alla rassegnazione molto vi contribuisce il chiasso intorno alla scoperta del vaccino, al "che bravi che siamo" che suona come un richiamo ad accontentarsi, ad essere pragmatici, a rispolverare la saggezza spicciola che predica la conquista del proprio tornaconto personale, come una ragione di vita.
Dopotutto, l'enfatizzazione a livello planetario della “scoperta” del vaccino anti Coronavirus, è diventata un insospettabile sipario dietro il quale si nasconde e opera una nuova compagine di comando eletta dalla globalizzazione, che unisce dirigenti politici, uomini d’affari, multinazionali, rappresentanti dei media, tutti convinti della pericolosità del “ proprio popolo” ogni qualvolta esso constata che nella stagione della pandemia dell'emergenza, l’economia è affidata al governo degli "esperti" che penalizzano gli aspetti sociali con il sostegno della polizia.
Stando così le cose, la protesta è destinata a perpetuarsi nonostante i ricordi terribili, come quello di Rosa Luxemburg alla quale spaccarono il cranio con il calcio di un fucile, prima di gettarne il corpo nel canale. O i più recenti, altrettanto orribili, come quello di George Floyd l'afroamericano soffocato dal poliziotto a Minneapolis. Non a caso il suo "I can't breathe", "Non respiro", è divenuto l’inno delle rivolte, la denuncia del sistema del Capitale che ha reso il respiro un privilegio di pochi e ha condannato i poveri (vecchi e nuovi) all’asfissia per spogliarli del diritto della rivolta, cioè del diritto di esistere.