Enzo di Svevia, ventinove anni da re e ventitré da prigioniero
L’imperatore Federico II stravede per il biondo ragazzo con una vena poetica che gli discende per li rami. A quasi otto secoli di distanza il suo fascino è intatto: Enzo impersona quell'intreccio fra vicende germaniche e italiane che punteggia la storia dei due Paesi, e spesso aiuta a capirla.
E vanne in Puglia piana, / la magna Capitana, / là dov'è lo mio core nott'e dia... Con questi versi un principe tedesco profondamente immerso nella cultura e nella storia d'Italia esprime la sua struggente nostalgia per la Capitanata pugliese, l'amata terra che non potrà più vedere perché il destino lo ha privato della libertà, e così sarà fino alla fine dei suoi giorni.
É nato nel 1220 a Cremona, la città ghibellina in cui la madre Adelheid, anche lei a quanto pare stregata dall'Italia, sceglierà di risiedere.
Il fatto è che l'imperatore stravede per il biondo ragazzo che gli assomiglia nel carattere e nella visione del mondo, in particolare nell'amore per la cultura.
Gli assomiglia anche fisicamente: “nella figura e nel sembiante è il nostro ritratto”, dice di lui Federico con paterno compiacimento, accresciuto dal fatto che Enzo è celebre per la bellezza dei tratti.
Dopo un periodo trascorso in Sardegna, riceve da Federico l'ordine di trasferirsi nel continente. La difficile lotta contro i guelfi induce l'imperatore a scagliare contro i nemici quel fulmine di guerra.
Lo nomina vicario imperiale e lo incarica di mantenere l'ordine nel Nord Italia e oltre. Lui non chiede di meglio, si prende la soddisfazione di strappare al papa Jesi, la città natale del padre, e alcune altre località delle Marche.
Il destino di re Enzo si decide in una piccola località, Fossalta, sulle rive del fiume Panaro.
É qui che il suo esercito, intervenuto a difendere la ghibellina Modena attaccata dai bolognesi, affronta una volta ancora le forze guelfe. Dopo il primo contatto le cose si mettono male per gli imperiali, che attaccati sul fianco dalla cavalleria nemica sono costretti a una precipitosa ritirata. Enzo combatte come una furia ma viene disarcionato, accerchiato, catturato.
L'imperatore infuriato lo vuole salvare e moltiplica le pressioni sui capi del comune guelfo. Ma Bologna intende celebrare il successo ospitando il rampollo imperiale vita natural durante. E così risponde per le rime alle minacciose sollecitazioni di Federico.
Ecco uno fra i più orgogliosi manifesti nella storia della diplomazia. “Non sperate di atterrirci con le vostre vane parole: non siamo canne palustri che ondeggiano a ogni soffio di vento, né siamo simili a piume, o a nebbie che si dileguano sotto i raggi del sole. Sappiate che re Enzo lo tenemmo, lo teniamo e lo terremo perché è nostro diritto; se volete punire l’offesa dovrete usare la forza... noi impugneremo le nostre spade e ruggiremo come leoni...”
Non ci sarà nessun confronto armato: un anno dopo la cattura di Enzo l'imperatore Federico muore, la causa ghibellina è ormai compromessa e nessuno verrà a liberare il re di Sardegna come era accaduto pochi anni prima, quando era finito in balia dei milanesi. Rimarrà per oltre vent'anni, fino alla morte, nel principesco carcere bolognese.
Del resto Enzo trova il modo di alleggerire quel destino amaro con qualche opportuna distrazione.
Lo vedono sospirare, mentre misura a lunghi passi i saloni della sua fastosa prigione, perché gli manca la libertà di cavalcare attraverso la diletta Italia, e soprattutto quella di menar le mani in battaglia, ma gli restano le occupazioni intellettuali. Compone versi pervasi di malinconia: Tempo vene ki sale e ki discende... E ancora: Và, canzonetta mia /e saluta messere /dilli lo mal k'i'aggio...
Uomo esuberante, cerca di compensare le privazioni carcerarie con adeguate soddisfazioni erotiche, alle quali provvedono disinvolte dame bolognesi che si contendono le attenzioni del prigioniero svevo.
Due delle tre figlie, Maddalena e Costanza, nascono negli anni della prigionia, lui nel testamento le nomina senza precisare chi siano le madri. La primogenita Elena, anche lei nata fuori dal matrimonio, va sposa a Guelfo della Gherardesca, uno dei figli del conte Ugolino che porta nel nome l'affiliazione politica legata al voltafaccia del padre, ciò che non gli impedisce d'imparentarsi con la dinastia ghibellina per eccellenza.
I Bentivoglio, una casata che all'epoca della signoria gestirà il potere a Bologna, si vanteranno di discendere proprio da Enzo attraverso un figlio di cui la storia non ha lasciato traccia. La leggenda l'attribuisce a un'attraente contadinella che il prigioniero era solito salutare così: ben ti voglio...
Quando lo sventurato ostaggio dei guelfi muore, nel 1272, il sogno italo-germanico di Federico II è ormai in frantumi: sei anni prima l'altro suo figlio naturale Manfredi è caduto in battaglia a Benevento, poi il giovanissimo duca Corradino è stato giustiziato a Napoli dai francesi chiamati dal papa. Bologna tributa onori solenni al suo ospite forzato, il corpo imbalsamato viene sepolto nella basilica di San Domenico.
La figura leggendaria, pre-umanistica e pre-romantica, del principe tedesco innamorato dell'Italia nonostante la lunga prigionia ispirerà scrittori, drammaturghi, poeti. Giovanni Pascoli gli dedicherà un racconto lirico rimasto incompiuto, le Canzoni di Re Enzio.
Nei primi anni del Novecento questo personaggio così intensamente drammatico sarà al centro di un'opera di Ottorino Respighi e di un film muto di Giuseppe De Liguoro.
A quasi otto secoli di distanza il suo fascino è intatto: Enzo impersona quell'intreccio fra vicende germaniche e italiane che punteggia la storia dei due Paesi, e spesso aiuta a capirla.
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