Il morso del comandante in capo d'America

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Giro di vite in Patria e strizzata di palle agli alleati europei. Bando alle rivolte. Joe Biden non scherza.

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L’assalto al Campidoglio considerato il tempio della democrazia americana, da parte dei supporter di Trump, si sta rivelando per Joe Biden, un inaspettato pretesto per rimettere in discussione le libertà civili e individuali negli Stati Uniti.
Nulla lasciava prevedere questo giro di vite che il presidente eletto sta mettendo in atto poiché, nel suo discorso inaugurale si era limitato a un generico invito a porre fine alla,  «guerra incivile che mette il rosso contro il blu, rurale contro urbano, conservatore contro liberale. Possiamo farlo, se apriamo le nostre anime invece di indurire i nostri cuori, se mostriamo un po’ di tolleranza, se siamo disposti a metterci nei panni dell’altra persona».
Quasi una appello il suo, dal sapore episcopale piuttosto di quello del comandante in capo della prima potenza mondiale.  
Certamente c'era stato più di un accenno alle scale di Capitol Hill invase da suprematisti, neonazisti, personaggi da circo e semplici trumpiani. Tuttavia da quel suo querulo , « la democrazia è fragile, ma ha prevalso», nessuno si sarebbe aspettato che  il neo presidente aveva in mente di rispolverare e ammodernare l’Usa Patriot Act per combattere il terrorismo domestico, dal momento che la legge s’era rivelata efficace contro il terrorismo islamico.
 
Infatti è subito dopo l’attentato alle Torri Gemelle (11 settembre 2001), che il presidente George W. Bush emana (26 ottobre 2001) l’USA Patriot Act.
Il nome della legge è una raffinata creazione degli esperti di comunicazione della Casa Bianca, “U.S.A. P.A.T.R.I.O.T.” è un acronimo che sta per “Uniting and Strengthening America by Providing Appropriate Tools Required to Intercept and Obstruct Terrorism” (“unire e fortificare l’America fornendo strumenti appropriati per intercettare e ostruire il terrorismo”). La legge non era la prima mossa dell’amministrazione statunitense per rispondere all’emergenza terrorismo: già il 20 settembre era stato istituito l’Office for Hmeland Security (l’ufficio per la sicurezza patria) ed era stata varata la legge antiterrorismo Sunset, un preludio del Patriot Act.
La differenza sostanziale di quest’ultimo rispetto ai provvedimenti precedenti è che il P.A. è permanente, se, infatti, alcuni articoli decadranno entro il 31 dicembre 2005, una gran parte dello statuto ha validità definitiva: è una legge degli Stati Uniti d’America.

Il denominatore comune del P.A. è stringere il collare del controllo; fra i titoli delle 150 sezioni della legge incontriamo: “Potenziare la sicurezza domestica contro il terrorismo”, “Procedure di sorveglianza potenziate”, “Proteggere i confini”, “Rimuovere gli ostacoli per investigare sul terrorismo”, “Intensificare la condivisione di informazioni”…, insomma sneak and peek, infiltrarsi e ficcanasare e “sorvegliare e punire”. In generale si vede una crescita enorme nei poteri dell’esecutivo e della polizia.

La legge permette la detenzione per un “tempo ragionevole”, quindi indeterminato, di cittadini non americani che il ministro della Giustizia abbia a ritenere “potenziali terroristi”, gli stranieri residenti negli Stati Uniti possono essere espulsi per qualunque rapporto con un’organizzazione terroristica. Si reintroduce il tristemente famoso “guilty by association”, come accadeva per la “caccia alle streghe” durante l’era McCarthy (’40 /’50) e come accadeva nei confronti degli americani di origine giapponese durante la seconda guerra mondiale; chi sostenga in qualunque modo sospette associazioni terroriste è incriminabile. Tra l’altro l’accezione del termine “terrorista” è estremamente ampia e vaga e può potenzialmente essere applicata a qualsiasi gruppo o individuo che abbia anche solo idealmente ammesso l’impiego di pratiche “violente”. Questa idea di “terrorismo interno” (articolo 802 del P.A.) si adatta di fatto a qualsiasi forma di manifestazione del dissenso: il primo novembre 2001, a Charleston (West Virginia) una studentessa di 15 anni era stata sospesa perché indossava una maglietta contro la guerra e perché stava cercando di fondare un club anarchico; sempre a novembre di quell’anno, a Nancy Oden, coordinatore dei verdi americani (il partito di Nader), era stato impedito di imbarcarsi su un volo nazionale da Bangor (Maine) per Chicago, perché il computer dava il suo nome come “problematico”, in quanto il Green Party si opponeva ai bombardamenti in Afghanistan; in ottobre il ventiduenne Neil Godfrey non era potuto salire sul volo Philadelphia-Phoenix perché nel suo bagaglio si annoverava un item pericoloso, The Monkey Wrench Gang, romanzo dell’autore ambientalista anarchico Edward Abbey.

Tra i tanti democratici (e quasi tutti i repubblicani) che l’avevano votata c’era il senatore Jo Biden, che all’epoca era il presidente della Commissione per le relazioni estere del Senato. Biden non soltanto votò a favore, ma si vantava con fervore che molte delle sue convinzioni erano servite a dare sostanza al disegno di legge.

 
Tutt’altro era stato il giudizio dell’American Civil Liberties Union, che l’aveva additata come legge che “trasforma i normali cittadini in sospetti”.
Vent’anni dopo,“gli Stati Uniti stanno per commettere di nuovo lo stesso errore: sacrificare la libertà in cerca di protezione”, scrive il Foreign Policy – the Global Magazine. Il Politico quotidiano della Virginia rincara soffermandosi sulle dichiarazioni degli esperti della sicurezza nazionale, secondo i quali Biden potrebbe affrontare la minaccia del “terrorismo domestico” in tre modi: ordinare al Dipartimento di Giustizia, all’FBI e al Consiglio di Sicurezza Nazionale di dare priorità al “terrorismo domestico”; approvare una nuova legislazione; o fare entrambe le cose .

E’ l’emergenza sanitaria dovuta alla pandemia di Covid-19, unita alle proteste in tutti gli Stati dei Black Lives Matter contro il razzismo sistemico e la brutalità della polizia negli Stati Uniti (la morte di George Floyd, l'afroamericano soffocato dal ginocchio del poliziotto a Minneapolis. Ricordate?),  che hanno fornito ai militanti di estrema destra l’occasione per uscire dall’ombra e scendere in strada, armi in pugno, presentandosi come vigilantes schierati a difesa dell’ordine pubblico e della proprietà privata.

Sono un insieme piuttosto variegato di pulsioni autoritarie, comportamenti suprematisti, deliri complottisti ma anche di articolate condizioni sociali.

E’ il loro un estremismo violento, straordinariamente letale nei suoi “ripugnanti attacchi mirati” messi in atto per “indurre un cambiamento ideologico negli Stati Uniti servendosi di violenza, morte e distruzione”. Suprematismo bianco lo definisce il Dipartimento della sicurezza nazionale. Il direttore dell’Fbi Christopher Wray lo classifica come, “estremismo violento di matrice etnica e razziale” che è diventato “la prima causa di incidenti ideologicamente motivati” negli Stati Uniti. Un primato che dall’11 settembre 2001 in poi era sempre spettato alla minaccia jihadista.

L’ Usa Patriot Act, la legislazione antiterrorismo, promulgata in un contesto di emergenza nazionale - tuttora valida - non riguarda soltanto gli immigrati e i cittadini di origine straniera, ma tutti gli americani, introducendo limitazioni sostanziali e durature nei diritti costituzionali sanciti dal primo e dal quarto emendamento.

Il primo emendamento, per intenderci, è quello che afferma la libertà di espressione: “Il Congresso non potrà fare alcuna legge per il riconoscimento di qualsiasi religione, o per proibirne il libero culto; o per limitare la libertà di parola o di stampa; o il diritto che hanno i cittadini di riunirsi in forma pacifica e di inoltrare petizioni al governo per la riparazione di torti subiti.

Il quarto emendamento riguarda  la privacy e recita: “Il diritto dei cittadini a godere della sicurezza riguardo la loro persona, la loro casa, le loro carte e le loro cose, contro le perquisizioni e sequestri ingiustificati, non potrà essere violato…”.

La Costituzione prevede che sia un magistrato a convalidare qualunque attività investigativa, ma il Patriot Act elimina questa garanzia, autorizzando le agenzie federali a controlli illimitati senza mandato, in nome della sicurezza nazionale.
Si estende anche ai cittadini americani la legge FISA (Foreign Intelligence Surveillance Act) del 1978, che sottomette l’autorizzazione a perquisizioni, intercettazioni e infiltrazioni ad un tribunale segreto le cui decisioni non sono appellabili e i cui giudici sono nominati direttamente dal ministero della giustizia.
L’Fbi può tenere sotto controllo qualsiasi telefono o computer utilizzato da una persona sospetta, può intercettare i messaggi di posta elettronica ancor prima che questi giungano al destinatario, può infiltrare agenti nelle organizzazioni. Una delle trovate insieme più ironiche e sconcertanti della legislazione è il controllo su librerie e biblioteche: le autorità possono investigare sulla circolazione di testi e l’acquisto di dischi, libri o componenti elettroniche.
 
Quello che allora stupiva del Patriot Act  era che una legge tanto articolata e complessa fosse stata approvata con una rapidità record e senza sollevare alcun dibattito parlamentare. Come se fosse scaduta la quarantena da shock post attentato alle Torri, in 45 giorni le 342 pagine del P.A. erano state stese, passate al vaglio della Camera con voto di 356 sì contro 66 contrari.
La legge era arrivata subito al Senato che l’aveva approvata all’ unanimità, con la sola opposizione del senatore del Winsconsin.

Il presidente Biden ha costruito tutta la sua campagna elettorale su immagini positive e rassicuranti del futuro. In Campidoglio ha presentato un governo che trova un punto di equilibrio tra le diversità razziali, di genere e di orientamento sessuale. Nella squadra di Joe Biden il cinquanta per cento sono donne, ci sono afroamericani, latini, nativi ed etero, gay e transgender: un governo come fotografia della società.

Tuttavia, questa voglia manifestata di recuperare il Patriot Act non introduce alcuna discontinuità rispetto a Trump e allo stesso Obama che ritoccò la legge redendola ancora più coercitiva.

Questo è Jo Biden, il dem. americano che con l’elezione alla Casa Bianca ha inorgoglito i democratici europei. Vero, falso?
L'altro giorno è intervenuto in videoconferenza al vertice straordinario dei G7 con una ben altra impronta. Un discorso coi denti stretti e un giù pesante.  «Il progresso democratico è a rischio anche in Europa, siamo a un punto di flesso epocale: da una parte ci sono coloro che pensano che il sistema migliore sia l’autocrazia, dall’altra parte coloro che comprendono che la democrazia dev'essere al  centro degli interessi. La democrazia deve prevalere e dobbiamo combattere per difenderla.». Più che di un’esortazione aveva tutta l’aria di un comando. Infatti non ha allentato la presa,  «Abbiamo un’opportunità storica per costruire un’alleanza più forte, riguadagnare la fiducia e rafforzare la nostra unità. Nessun Paese e nessun continente può farlo da solo. Al contrario, dobbiamo fare di più insieme. », aveva concluso con vigore Joe Biden.  
Nel più e nel meno è quanto andava predicando il 42° presidente degli Stati Uniti George Herbert Walker Bush,  30 anni fa. Subito dopo scoppiò la guerra del Golfo, la prima guerra del villaggio globale.

 

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Vincenzo Maddaloni
Vincenzo Maddaloni ha fondato e presiede il Centro Studi Berlin89, l'associazione nata nel 2018, che si propone di ripercorrere analizzandoli i grandi fatti del mondo prima e dopo la caduta del Muro di Berlino. Professionista dal 1961 (per un decennio e passa il più giovane giornalista italiano), come inviato speciale è stato testimone in molti luoghi che hanno fatto la storia del XX secolo. E’ stato corrispondente a Varsavia negli anni di Lech Wałęsa (leader di Solidarność) ed a Mosca durante l'èra di Michail Gorbačëv. Ha diretto il settimanale Il Borghese allontanandolo radicalmente dalle storiche posizioni di destra. Infatti, poco dopo è stato rimosso dalla direzione dello storico settimanale fondato da Leo Longanesi. È stato con Giulietto Chiesa tra i membri fondatori del World Political Forum presieduto da Michail Gorbačëv. È il direttore responsabile di Berlin89, rivista del Centro Studi Berlin89.
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