La paura nucleare e l'effetto che fa
Chiedere accertamenti, ricercare la verità, dubitare di una versione preconfezionata su fatti ed eventi complessi sono presentati come istanze “inaccettabili”. Questa forma di violenza interpretativa è diventata nel mondo contemporaneo la nuova realtà. È l'epicentro del degrado odierno.
Un tempo, quando avevamo a che fare con fatti violenti, ad esempio un omicidio in città, eravamo soliti attendere gli accertamenti della magistratura, e finché questi non erano avvenuti i giornali nominavano i possibili colpevoli con espressioni tipo “l’indagato”, “il presunto sospetto”, ecc. per evitare colpevolizzazioni precoci. Oggi invece, davanti a un mucchio di morti nel contesto bellico di un paese straniero – cioè in condizioni donde le informazioni giungono sempre con difficoltà e condizionamenti – il giorno stesso dell’annuncio per la stampa internazionale era tutto chiaro e inchiodato ad un’unica versione possibile: autori, modalità, identità delle vittime, motivazioni. Qualche immagine, sezione istantanea del reale, è stata presentata come parte evidente di una storia già pronta.
Ora, né lo scrivente, né tutti quelli che hanno ricevuto la notizia di seconda mano (tra cui tutti i caporedattori dei quotidiani principali) sanno cosa sia accaduto. C’è spazio per congetture educate, deduzioni e controdeduzioni, ma non c’è conoscenza dei fatti. Ci asteniamo perciò dal proporre la nostra versione, e, in mancanza di un’indagine indipendente, proviamo a tener fermo il quadro d’insieme degli eventi, che è invece alquanto chiaro.
Un primo dato di cornice è legato alla classica questione che va sempre posta, soprattutto in situazioni di carenza di dati certi: “ A chi giova?”. Chiunque non sia sciocco o in malafede deve ammettere che c’è una parte, quella ucraina, che ha l’interesse a presentare incidenti che scandalizzino l’opinione pubblica internazionale (e spingano a sostenere la loro causa) e un’altra, quella russa, che ha l’interesse opposto.
Un secondo dato, che sostiene il primo è che la Russia sta procedendo in questa guerra con una strategia fortemente basata sulla fanteria, con combattimenti casa per casa (e dunque con elevati costi umani per le proprie truppe), invece di sfruttare la propria supremazia sul piano missilistico (dominio dello spazio aereo e sottomarini lanciamissili nel Mar Nero). Questa strategia ha un senso evidente: si vuole agire militarmente in modo più selettivo riducendo le vittime civili, sia per evitare il discredito internazionale, sia per lasciare una strada aperta ad una futura convivenza, visto che prima o poi questa guerra finirà.
Questi elementi di cornice non sostituiscono un accertamento dei fatti, e molti scenari restano possibili, anche quello accreditato dai media occidentali, tuttavia una cosa è sicura, ovvero che le probabilità di trovarsi di fronte ad una costruzione propagandistica sono alte e che, vista la gravità degli eventi, l’unica cosa che sarebbe stata appropriata era promuovere un’indagine indipendente, con osservatori bilaterali e neutrali, come si fa nei casi di accertamento di crimini di guerra.
Interpretazioni obbligatorie
Per capire l’essenza del dramma contemporaneo è invece necessario registrare come nessuna prospettiva del genere sia stata ospitata sui principali organi di informazione, o dalle principali forze politiche, in tutto il mondo occidentale. Come emblema di questa attitudine nel comparto mediatico-politico occidentale può essere preso l’intervento della parlamentare europea Picierno (PD), in replica alle richieste dell’on. Donato di promuovere un accertamento internazionale dei fatti di Bucha. La parlamentare del PD ha affermato perentoriamente, e in tono sdegnato, che mettere in dubbio la versione proposta dei fatti era inaccettabile, che l’aula del parlamento europeo non lo poteva consentire, che l’aula non era equidistante e che la controparte doveva farsene una ragione.
La naturalezza con cui affermazioni inquietanti come queste hanno potuto essere pronunciate è un indice interessante dell’abisso spirituale in cui siamo caduti, e di cui ancora troppo pochi hanno consapevolezza. Qui ci troviamo vicino all’epicentro del degrado odierno. Chiedere accertamenti, ricercare la verità, dubitare di una versione preconfezionata su fatti ed eventi complessi sono presentati come istanze “inaccettabili”. Questa forma di violenza interpretativa e di obbligo all’ortodossia è diventata nel mondo contemporaneo la nuova realtà. Analizziamo un momento questo punto.
Qual è la forma di questo nuovo “senso comune del potere”? La forma è quella per cui il giudizio sui fatti precede e fonda la determinazione dei fatti, è quella in cui un giudizio morale sulla realtà dà forma preliminare e ultimativa alla nostra determinazione della realtà.
È importante notare come il problema non stia nel fatto che vi possa essere un pregiudizio morale iniziale quando ci si approssima ai fatti. Questo accade quasi sempre e di per sé non impedisce l’accertamento della verità. No, il punto qualificante è che questo momento iniziale sia posto anche come momento finale: l’interpretazione pregiudiziale è anche tassativamente quella definitiva, e non è ammesso sia diversamente. Non c’è spazio per nessuna procedura di accertamento, non c’è spazio per nessun processo di ricerca della verità, e anzi, la richiesta stessa che un tale processo venga avviato è presentato come un’offesa, un’aggressione, una forma di lesa maestà.
Così oggi, l’interpretazione pregiudiziale, promossa dall’élite globalista che presiede le istituzioni apicali in Occidente, ha assunto un valore sacrale, rispetto a cui sollevare dubbi non è semplicemente sbagliato, è proprio offensivo, blasfemo.
Questo atteggiamento implica strutturalmente l’impossibilità di pervenire alla verità, che è sostituita da un simulacro di realtà, strumentale ad ottenere i risultati di volta in volta desiderati, ma anche capace di essere rapidamente rimpiazzata e sostituita da una nuova realtà virtuale, utile alla causa.
Il processo in corso nella trattazione della vicenda bellica è formalmente identico a quello avvenuto rispetto alla strategia pandemica, nell’insieme del mondo occidentale e anche in Italia. Come sul piano bellico, davanti a richieste di azione ponderata e di approfondimento si risponde oggi con lo sdegno “di fronte alle vittime civili”, così nel corso della pandemia a chi chiedeva azioni misurate e approfondimenti, si rispondeva con lo sdegno ”per le bare di Bergamo”. Una bolla di indignazione, coltivata nella serra dei telegiornali, ha rimpiazzato ogni opzione critica. Uno sfogo di irritazione moraleggiante, su cui sono innestate come baionette le conseguenze pratiche desiderate, fa piazza pulita di ogni tentennamento, di ogni precisazione, di ogni dubbio; e chi non vi si adegua è un “negazionista” (“no-vax”? “filoputiniano”?).
Nel corso della pandemia le reiterate richieste di un confronto “laico” sui pro e contro della strategia che si stava adottando sono state rigettate come inaccettabili. L’empito emozionale occupava l’intero campo di gioco della ragione. Che fosse “per terrore della morte” o “per rispetto delle vittime” c’era spazio soltanto per ciò che di volta in volta, giorno per giorno, era l’ultima verità promossa dall’alto. E che queste verità ultime mutassero ogni due mesi, che ogni singola affermazione apodittica – senza eccezioni – sia stata superata, riformulata o rimossa, questo non ha intaccato di un’unghia l’inappellabilità della verità-degli-esperti (preselezionati).
Rispetto alla pandemia, dove le menti erano meno preparate e gli ancoramenti alla realtà vissuta più scarsi, con la guerra esiste un elemento di realtà economica che fa qualche resistenza alla sua sostituzione integrale con l’universo della fiction mediatica. Il problema per l’apparato comunicativo oggi è che il malvagio di turno (la Russia) ci è anche economicamente indispensabile, e ciò crea una zavorra alla capacità della narrazione di rimpiazzare senza resti il reale. Se il “cattivo” invece di essere una superpotenza nucleare dalla cui produzione energetica dipendiamo, fosse stato un qualsiasi “Statocanaglistan” senza superpoteri, lo avremmo serenamente incaprettato, sgozzato e sprofondato negli inferi della damnatio memoriae occidentale. E l’anno prossimo Hollywood avrebbe riempito i film di temibili terroristi statocanaglistani.
Il Metaverso e il Titanic
Il problema che ci si affaccia oggi con una violenza nuova e sorprendente è rappresentato dalla sostituzione del mondo vissuto con il mondo virtuale. Nel corso del tempo, sin dall’affacciarsi dei primi mezzi di comunicazione di massa, è avvenuto uno spostamento sempre più netto dei pesi da ciò che si esperisce direttamente nella propria vita a ciò che si ritiene reale in quanto mediato dall’informazione.
Da tempo oramai la quantità di cose cui crediamo, semplicemente perché sorgenti mediatiche “autorevoli” le hanno accreditate, ha superato di gran lunga ciò cui crediamo per averlo vissuto. Se nella nostra esistenza di prossimità (famiglia, comunità locale) le nostre credenze e i nostri rapporti sono ancora prevalentemente fondati sui vissuti, quanto più ampliamo la cerchia della nostra coscienza del mondo, tanto più il mondo ci appare attraverso un costrutto mediatico. Ma per molto tempo la nostra opinione sul mondo mediato dall’informazione non è stata decisiva per le decisioni locali, o lo è stato solo in peculiari grandi occasioni (es.: l’ingresso nella prima guerra mondiale, guidata dai giornali del tempo).
Negli ultimi trent’anni lo schema con cui, prima i media preparavano il “fronte interno” ad un intervento internazionale, e poi questo veniva deliberato, si è ripetuto più volte, sia in ambito bellico che economico.
Oggi siamo di fronte ad una nuova accelerazione, in cui i tempi tra l’emergere di una tesi mediatica e il trarne le conseguenze sono quasi azzerati: non c’è più bisogno che la gente “si abitui all’idea” o “si convinca”. I fatti vengono narrati con un’interpretazione obbligatoria annessa, e l’interpretazione ha già accluse le indicazioni pratiche da seguire. Con questo passo siamo già in pieno “Metaverso”, in un universo virtuale in cui ci muoviamo come se fosse reale, e in cui vengono somministrate le informazioni necessarie e sufficienti a muovere la maggioranza delle persone nella direzione voluta (non è necessario convincere tutti, spesso non è necessario neanche convincere la maggioranza, perché basta manipolare le redini mentali dei gruppi politicamente ed economicamente più influenti.)
Le “linee di comando” di queste operazioni sono oscure nei dettagli, ma chiare nella forma generale: la concentrazione di forze, capitali e interessi sul piano finanziario è oggi massima, e in questo ambito, già ristretto, basta un piccolo gruppo organizzato per orientare l’intero sistema. L’orientamento non avviene nel modo tradizionale, per ordini diretti, ma sprattutto attraverso la selezione premiale dei soggetti (direttori di giornale, intellettuali, politici) che aderiscono ad un certo progetto, ad una visione. (A trarre giovamento dalle teorizzazioni gramsciane sull’egemonia oggi sono soprattutto le élite economiche).
Il problema principale di questa nuova forma di egemonia culturale, mediaticamente armata, è che ha un contatto assai marginale con la realtà vissuta dai più (ed in generale se ne disinteressa), e ciò la mette nelle condizioni per promuovere in forme potenti visioni astratte, irresponsabili e distruttive. Abituati all’invincibilità e intoccabilità queste élite, come il comandante del Titanic, sono più attenti al dress code e alle partiture dell’orchestra che agli iceberg in superficie. Anche perché ritengono che eventuali iceberg saranno un problema solo per i passeggeri di terza classe.
Oggi i sogni e gli incubi di élite potenti ed autoreferenziali possono concretizzarsi senza opposizione, producendo una realtà virtuale in cui ci muoviamo come pesci in una boccia, in attesa di essere apparecchiati per il sushi.
Andrea Zhok è un filosofo e accademico italiano, professore di Antropologia filosofica e Filosofia morale all’Università degli Studi di Milano.