Non si vedono più i bambini nei campielli

Aumentano i turisti e diminuiscono i veneziani con una media che va da novecento ai mille persone ogni anno, per cui  i residenti ad oggi sono 52 mila.  Emigrano i giovani e aumentano i vecchi, tanti vecchi, "ultimi superstiti" della venezianità.

CarnevaleVenezia, Carnevale della Pantegana / Photo Nina AliDa sempre, il motivo principale dell'esodo da Venezia è la casa, ma la principale leva espulsiva è divenuta la conversione ad uso turistico del patrimonio abitativo cittadino. La possibilità di locare facilmente comuni abitazioni, tramite piattaforme internazionali ha infatti determinato una corsa al loro sfruttamento economico, consolidando un sistema di sussistenza basato sulla rendita fondiaria passiva, intorno alla quale si è costruito un saldo consenso sociale che, per quanto in maniera tacita, coinvolge una quota assai rilevante della popolazione.

Una criticità che si lega alla estrema scarsità dell'offerta e al livello insostenibile dei prezzi richiesti dai proprietari e che si accentua ulteriormente per determinate categorie di persone, in primo luogo giovani e single.

Inoltre, per gli inquilini al timore o all'effettività di un aumento progressivo del canone di locazione si somma spesso anche l'incognita costituita dai passaggi proprietari, fattore imprevedibile e sempre incombente, data l'anzianità diffusa tra i locatori veneziani. È infatti proprio in questa occasione che si registra il maggior numero di sfratti, incrementi degli affitti o trasformazioni di destinazione d'uso, laddove gli eredi o i nuovi acquirenti preferiscono posizionare la propria unità immobiliare sul mercato più redditizio dell'affittanza turistica, sottraendolo alla originaria funzione residenziale, ma sono anche prevedibili le manovre speculative dei grandi proprietari immobiliari.

Se da un lato il mercato immobiliare privato è stato monopolizzato da simili dinamiche, dall'altro lato le politiche abitative pubbliche versano in uno stato di sostanziale abbandono: un fenomeno che si è verificato su scala nazionale, ma che a Venezia ha avuto ripercussioni particolarmente intense.

Nell'ultimo bando di assegnazione di edilizia popolare di una certa consistenza nella città insulare (2010) sono state infatti presentate 2.821 domande per soli 46 alloggi, a dimostrazione di quanto la richiesta di risiedere in loco rimanga tutt'oggi elevata, ma non soddisfatta. Allo stesso tempo,il patrimonio esistente viene spesso lasciato all'incuria o non adeguatamente mantenuto, cosicché le case, una volta emigrato o deceduto l'inquilino che le occupava, tendono a rimanere chiuse, invece di essere riassegnate a nuova utenza.

Infine, fallimentari si sono rivelate le politiche finora destinate al reinserimento della classe media, la fascia di popolazione che più era stata colpita dal fenomeno dell'esodo, non rispondendo ai requisiti per accedere all'edilizia popolare e non avendo al contempo mezzi sufficienti per inseguire un mercato privato in continua lievitazione.
I progetti di cosiddetto social housing, annunciati dalle diverse amministrazioni dal 2002 ad oggi, sono infatti in prevalenza naufragati, garantendo la realizzazione di un centinaio di alloggi totali contro una programmazione annunciata di circa 5 mila.

Pertanto, se già appare difficile anche solamente rimanere in città, dato che l'aumento dei canoni di locazione rende precario e insicuro l'insediamento per i nuclei familiari, anche la possibilità di una nuova immissione di residenti di classe media appare ormai completamente bloccata a causa della difficoltà estrema di reperire abitazioni a prezzi accessibili.

È così che la casa è diventata un vero e proprio "privilegio", qualcosa che viene ripetutamente associato a termini quali "lusso" e "fortuna", con una difficoltà ulteriore per quanto riguarda l'orizzonte dell'affitto, intriso di un senso di precarietà esistenziale e temporaneità. La ricerca di uno spazio in locazione è infatti sempre più ardua, può durare anche molto a lungo e spesso ha successo solamente grazie al ricorso alle reti sociali o a conoscenze personali.

L'affitto è perciò implicitamente considerato come condizione fragile, che non garantisce una permanenza piena, duratura e serena in città e rischia di rappresentare una sorta di anticamera all'esodo. "lo ho la casa di proprietà, altrimenti sarei già dovuto andare via" è infatti una affermazione ricorrente tra i residenti.

Per effetto di tale precarietà, può mutare anche il tipo di legame che le persone intrattengono con la città.

Come sottolinea Wirth, infatti, la solidità del godimento dell'alloggio è una condizione necessaria per auto-percepirsi come cittadini a pieno titolo, ovvero per radicarsi stabilmente nel territorio e poter partecipare attivamente alla sua vita politica e sociale. La casa costituisce in questo senso, “una porta verso altri diritti, è una condizione che deve essere soddisfatta per garantire l'esercizio dell'appartenenza in tutti i suoi aspetti. Essere privati dell'accesso a un alloggio adeguato significa essere privati della possibilità stessa di far parte e di godere della vita della città.".

Quale organicità di inserimento può avere invece qualcuno che si percepisce come irrimediabilmente transitorio, non riuscendo a proiettare concretamente nel futuro la propria presenza nel tessuto urbano?
Abitare un luogo, infatti, è per sua natura, “diverso dal percorrere uno spazio, dall'attraversarlo. Abitare presuppone una certa relazione sia con il tempo che con lo spazio. Abitare incorpora il tempo lungo, quello delle stagioni, "degli anni, delle generazioni successive.
Presuppone la costruzione di relazioni particolari tanto con lo spazio considerato quanto con gli altri.
Presuppone anche legami di prossimità, ovvero spesso - anche se non sempre - legami di affettività.
Vivere non è squartare: è occupare, appropriarsi, sistemarsi, insediarsi, investire in un luogo in maniera durevole.". 

Ed è esattamente questa possibilità di insediamento durevole, che la fragilizzazione delle locazioni ha minato dalle fondamenta, facendo di Venezia una città che si attraversa per periodi più o meno brevi, per motivi di studio, amore o lavoro, senza potervisi radicare, almeno che non si abbia accesso alla proprietà immobiliare.

In questo modo, anno dopo anno, l'esodo ha comportato il progressivo spopolamento della città e lo svuotamento dei quartieri, con il depauperamento di quel tessuto sociale e comunitario che la rendeva un modello urbanistico eccezionale. In seguito alla fuoriuscita di vicini di casa, negozianti, amici, conoscenti e parenti, è cioè venuta meno proprio quella rete relazionale diffusa e permanente che da sempre ha caratterizzato il territorio lagunare e che oggi rimane come uno dei principali oggetti nostalgici di coloro che non se ne sono andati.

Questo processo di impoverimento del tessuto relazionale collettivo e di conversione verso forme più anonime di utenza, è avvenuto su tutti i livelli della vita urbana, a partire dalla scomparsa del vicinato. Un processo che ha riconnotato interi quartieri, nei percorsi dei quali, la vita sociale pare scorrere molto più esigua e poco gratificante che in passato, a causa della scomparsa fisica di coloro che le abitavano. Nonostante il continuo sovraffollamento di cui soffrono gli spazi cittadini, dunque, la sensazione diffusa è quella di una sostanziale perdita di vitalità, cui si associa una percezione di desolazione, di vuoto, di estraniamento.

Una sensazione che viene ulteriormente accentuata dall'assenza di bambini che giocano tra calli e campielli: elemento che viene notato e sottolineato con profonda amarezza dalla quasi totalità delle persone intervistate. La loro sparizione è infatti sentita come una grave perdita, segno indelebile del progressivo invecchiamento della popolazione residente e quindi fattore di sfiducia e desolazione tanto nel presente, quanto nel futuro.

Ecco che allora le persone indicano i punti in cui venti, trenta anni prima vedevano stormi di bimbi correre e urlare e scuotendo la testa constatano come ora lì non ci sia più nessuno, o ci siano solamente i tavolini di un bar ristorante.
Mentre altri ricordano con straordinaria vividezza i loro giochi di infanti, le aree e gli edifici fatiscenti in cui si svolgevano le loro avventure e rilevano tristemente come tutto ciò sia progressi vamente scomparso.
L’assenza di gioventù, poi, si contrappone alla presenza sempre più numerosa dei vecchi, cui la città sembra ormai consegnata, "ultimi superstiti" delle travolgenti trasformazioni demografiche del territorio.
 
L’esodo si è infatti articolato intorno a una profonda linea di faglia, quella della generazionalità.
Oggi come ieri, abitare a Venezia è una possibilità realistica solo per una data generazione, mentre i giovani sembrano per lo più destinati all'emigrazione, sia perché impossibilitati a trovare un'abitazione in Laguna, sia perché spesso provenienti da famiglie benestanti, con un elevato grado d'istruzione, quindi desiderosi di trovare un lavoro più qualificato di quello che la monocoltura turistica può offrire loro.
In questo senso, oltre alla vita comunitaria di quartiere e alla disgregazione dei rapporti di vicinato, l'esodo ha finito per incidere anche sulle relazioni familiari.
Sono infatti innumerevoli i figli che vivono lontani dai genitori, i nipoti lontani dai nonni, con nuclei parentali che hanno la possibilità di riunirsi solo in alcuni momenti dell'anno.
Un fenomeno che è proprio dell'intera Europa, ma che a Venezia pare acuito, ancora una volta, dall'estrema difficoltà economica, lavorativa e d'insediamento che investe le giovani generazioni.

Tra chi è rimasto e chi è partito, poi, le esperienze e lo sguardo sul mondo si divaricano ed è assai difficile pensare che queste distanze, questi legami interrotti, potranno ricucirsi in futuro. Come nota l’antropologo Vito Teti, infatti, che ha studiato a lungo l’abbandono delle aree interne del Sud Italia, “la fuoriuscita non è mai pulita, netta, senza attriti. L’abbandono è un’esplosione, una detonazione lenta che frammenta, frattura, disintegra, incenerisce. L’abbandono pone in questione la struttura del mondo che si lascia; mette in tensione le relazioni; modifica la densità dei luoghi, cambia la morfologia dell’abitato e degli spazi; il loro aspetto formale e i loro usi.

Soprattutto, qualcuno resta” (Quel che resta, Donzelli 2017). Ed è proprio a partire dai “rimasti” che la Venezia contemporanea va ripensata dalle fondamenta, perché possa tornare ad essere una città, vivibile e vissuta.

 
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Zanardi ClaraClara Zanardi , antropologa urbana e attivista per una decrescita turistica. Laureata in Scienze filosofiche, ha conseguito nel 2020 un dottorato in Storia delle società e delle istituzioni presso l'Università di Trieste. Vive e lavora a Venezia, dove si occupa di turismo, diseguaglianze, processi di trasformazione urbana. Per Unicopli ha già pubblicato Sulfilo della presenza,  Ernesto De Martino fra filosofia e antropologia (2011). e da ultimo: La bonfica umana. Venezia dall'esodo al turismo (2020).

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