La leggenda dei comunisti “mangiabambini”
Al V congresso del Pci (Roma, 29 dicembre 1945 - 6 gennaio 1946), dopo pressanti richieste di aiuto all’infanzia da parte dei rappresentanti territoriali, si decise di estendere l’iniziativa e radicarla a favore del Mezzogiorno.
Un esodo colossale, all’insegna della solidarietà, promosso e diretto da Teresa Noce che poi ha finito con contagiare centinaia, migliaia di sezioni comuniste. Con il passaparola le informazioni giungevano alle famiglie che, con uno slancio straordinario, si mettevano a disposizione per ospitare da sei mesi a due anni quell’infanzia altrimenti dimenticata.
Nei primi mesi del 1946 si avviò quindi il trasferimento a scaglioni di migliaia di bambini da Cassino e dal frusinate, terre devastate dalla guerra e dai bombardamenti alleati; e, quasi in contemporanea, altre migliaia da Roma, dalla sua periferia e dalle borgate più popolari. Nel 1947 si replicò con il trasferimento, forse il più imponente, da Napoli verso le regioni del Centro Nord, di circa 10 mila bambini, gli sciuscià sottratti alla strada e allo sfruttamento. Treni speciali continuarono a partire negli anni successivi, dal 1948 fino al 1952, dalla Calabria martoriata dall’alluvione, dalla Sicilia, dalla Sardegna, dalla Puglia e dal Polesine.
I primi treni partirono da Napoli e Roma in un clima di estrema diffidenza. Le istituzioni e le prefetture erano in piena emergenza e lasciarono fare, le Ferrovie offrirono collaborazione, ma la Chiesa si mise di traverso in ogni modo. Preti, suore, attivisti cattolici avvicinavano le famiglie povere mettendole in guardia del pericolo comunista, le madri soprattutto vennero bombardate dalle fake news dell’epoca: i comunisti mangiano i bambini, i comunisti li mandano in Siberia a lavorare, i comunisti ne fanno saponette, i comunisti gli tagliano le dita.
Il Pci e l’Udi, animatori principali dei comitati organizzatori, furono affiancati dai Comuni, dai Prefetti, dal Cln, dalla Cgil, dall’Anpi, dalla Croce rossa, dal Centro italiano femminile (Cif) di ispirazione cristiana, dalle cooperative e da tanti privati cittadini. Aiuti arrivarono anche dalle Ferrovie, dal ministero dell’Assistenza postbellica, dall’United Nations Relief and Rehabilitation Administration (Unrra). Protagoniste principali dell’organizzazione dei viaggi furono le militanti dell’Udi, che si occuparono di curare e vaccinare i bambini, raccolsero fondi e donazioni da privati, enti, commercianti, consigli di fabbrica, distribuirono indumenti e biancheria, calze e scarpe, organizzarono sedute di taglio di capelli e di eliminazione dei pidocchi.
Fu un lavoro gigantesco: bisognava selezionare i bambini più bisognosi – non solo quelli provenienti da famiglie ideologicamente “vicine” – andando casa per casa per conquistare la fiducia delle famiglie, verificare le condizioni di salute di ognuno, prepararne le schede personali e i cartellini di riconoscimento, abbinare ogni bambino alla famiglia di accoglienza, accompagnarli nel viaggio fornendo vitto e vestiario, mantenere i contatti tra le famiglie. Le donne dell’Udi furono sostenute dai militanti di tutte le sezioni del Pci, da moltissimi medici volontari, ma trovarono nelle Crocerossine, delegate all’assistenza nei vagoni, le più inaspettate e pragmatiche partner nei lunghi e faticosi viaggi in treno.
Decine di migliaia di bambini furono ospitati e accuditi dalle famiglie contadine e operaie della Toscana, delle Marche, dell’Emilia-Romagna, del Veneto e della Lombardia, presso le quali vennero rivestiti, curati, mandati a scuola. Ritornava spesso il detto: «Dove si mangia in sette si mangia anche in otto!». Nelle stazioni, a salutarli alla partenza e all’arrivo, c’erano le bande musicali di ferrovieri e tranvieri, i sindaci con intere giunte comunali, i militanti e le militanti dei Comitati di accoglienza che provvedevano alla collocazione dei bambini presso le famiglie ospitanti.
Molti bambini viaggiarono però traumatizzati da una propaganda feroce, operata soprattutto dai parroci del Sud, che costantemente facevano circolare voci che evocavano la leggenda dei comunisti “mangiabambini” o il loro trasferimento forzato in Russia, spaventando le famiglie. In Emilia-Romagna e in altre regioni del Centro Nord, invece, altri parroci e qualche vescovo parteciparono bonariamente ai comitati organizzatori. All’arrivo nelle nuove famiglie, la sorpresa dei bambini meridionali spesso fu scioccante, perché scoprivano agi e comodità sconosciuti, una società molto lontana da quella di provenienza. L’incontro tra queste due Italie e il confronto tra queste due culture fu il vero risultato della scelta, politica, della “solidarietà nazionale”.
Un’Italia popolare si sostituiva alle istituzioni, organizzando dal basso nuove forme di società solidale e la gestione collettiva della cosa pubblica. La politica diventava lo strumento collettivo, necessario e pragmatico per costruire il bene comune. Si scoprì inoltre «una solidarietà possibile tra Nord e Sud, tra operai e contadini – scrive Miriam Mafai in L’apprendistato della politica – un conoscersi tra gente che aveva vissuto in modo diverso le atrocità della guerra, il superamento da una parte e dall’altra di antiche incomprensioni e diffidenze, un entrare in contatto di mondi diversi: il mezzadro emiliano e il sottoproletario meridionale, con lo stabilirsi di rapporti di fraternità che resisteranno nel tempo».
“I treni della felicità”, come oggi chiamiamo quel movimento, non fu mai, in realtà, la sua definizione ufficiale, né una definizione propagandistica.
Non la troviamo in discorsi pubblici, né in documenti organizzativi, né sui giornali dell’epoca che titolavano In partenza il treno speciale, Parte il treno dei bambini, In viaggio con il più bel treno del mondo.
Una sola volta, viaggiando su uno di questi treni che riaccompagnava a Napoli i bambini ospitati nella sua città, il sindaco di Modena, Alfeo Corassori, rivolgendosi a una delle accompagnatrici Udi, ebbe a definirlo “il treno della felicità”. Sintetizzava, con queste parole, la difficile scelta dell’allontanamento dei bambini dai loro affetti e, insieme, la felicità della loro restituzione alle famiglie, dopo aver conosciuto nuovi affetti e sentimenti. La felicità negli occhi di quei bambini, nel guardare al futuro con minore paura e più fiducia.