A difendere il 'diritto di amare' ci pensano i transessuali
Alla vigilia del Pride di Berlino (27 luglio 2019) uno dei più importanti se non altro per la sede e la sua storia, ci pare utile un bilancio su un orizzonte LGBTQ per nulla omogeneo ma percepito come tale, causa il ricco calendario di parate, che si susseguono nel periodo estivo.
Ci siamo persuasi del villaggio globale, ma è una mera illusione, se facciamo nostre le conquiste di altri senza alcun cenno. Da dove veniamo? Nella presente generazione LGBTQ a questa domanda ben pochi darebbero una risposta sicura. Perché si combatte? A questa invece arriverebbe - tutti impettiti - subito: "per il diritto di amare". A che serve guardare alla storia, se di mezzo c’è l’amore? Sentimento dei sentimenti e per tutti la conquista. No, che non c’è bisogno di permessi per amare.
Difatti, dove non c’è pericolo si scende in piazza, dove ancora il pericolo persiste tutti in silenzio nella negazione stessa di esistenze braccate, perché scompaiano dallo scenario pubblico. Questo è il bandolo. Una serie TV Netflix di successo, Pose (2018) del genio di tante altre famose serie, Ryan Murphy (Glee, American Horror Story, Feud) ha per certi aspetti aperto a sorpresa una botola rimasta chiusa per decenni sulla storia del movimento LGBT (ancora senza la Q di Queer, aggiuntasi da poco), non del tutto nella forma del puro intrattenimento e più che altro conscia e sovrana di una denuncia.
Chi si ricordava o sapeva prima di Pose delle House newyorkesi negli anni Ottanta come luoghi di mutuo soccorso di afroamericani e latinoamericani contro l’emarginazione di omosessuali, transgender e Drag Queen bannati e sulle strade? Voci che Murphy ha letteralmente riesumato, di quasi tutti uccisi dall’AIDS. Causa di quella morte sociale, che ha anticipato quella fisica del grosso di una comunità di gente in lotta per "essere", più che per "amare".
Una lotta combattuta tra sete e parrucche in sale da ballo, unici luoghi di libertà espressiva dove questi semidei travestiti si esibivano e sfidavano in categorie fashion (narrative) di vario genere, sfaccettate nell’illusorio voguing. Invisibili talmente in quel loro universo di accettazione e in disparte – ma finalmente al sicuro - che Madonna si è appropriata degli elementi più estetici di quella battaglia, facendo milioni con il disco Vogue (1990) aprendo così per sé un decennio di successo e per chi quello stile se lo era inventato, di funerali. Quando muore l’inventore sconosciuto è facile appropriarsi dell’idea. Più filisteo invece è usare la sua idea, quando è ancora in vita ma non ha voce, perché da una minoranza calpestata.
Il diritto di essere ciò che si è, questo vale l’eterna battaglia. Impensabile vien di dire, perché nell’odierna comunità LGBTQ le idee non sono affatto chiare, nelle divisioni, nella percezione e dunque nel riflesso a tutto tondo delle così dette democrazie occidentali.
I fatti di Bialystok, in Polonia orientale, con la violenza civile durante l’ultimo Pride (20 luglio) ci dicono proprio che le cose non stanno andando affatto nella giusta direzione. Un corteo di quasi mille persone è stato attaccato da una minoranza di ultradestra nazionalista con petardi, bottiglie e pietre lanciati anche alla stessa polizia intervenuta. Scene alle quali siamo abituati, purtroppo, nel cui sfondo però ci sono evidenze più drammatiche, dei fatti stessi. Sono una trentina gli enti locali polacchi, con assemblee regionali e cittadine che si sono dichiarate "zone libere da ideologie LGBTQ", con una campagna omofoba entrata a piè pari tra i temi principali delle prossime legislative. In EU succede questo.
Tra gli slogan della parata polacca alcuni erano più che chiari: "Uguaglianza è Amore". Qui c’è lo statement degli statement. Da qui si deve partire. Siamo tutti uguali. Verbo “essere” al primo posto. E il risvolto sta proprio nel fatto che se raggiungessimo uno stadio di democratica uguaglianza avremmo per effetto (a proposito, con meno rifugiati lasciati affogare nel Mediterraneo) anche la via libera all’amore a ognuno come più gli va. Solo che in EU, nel secondo parlamento più grande del mondo, legiferano stati differentemente approdati a politiche più o meno a favore delle comunità LGBTQ, ma all’unisono nell’aver equivocato – a quanto pare - il principio fondamentale democratico: "essere", questo è il diritto. Viversi nella qualità più alta, che è il sé.
Elementi di un patrimonio collettivo ci passano tutti i giorni sotto gli occhi, nell’ipocrisia del mainstream che si è appropriato di un passato decurtandolo della sua valenza di testamento e degradandolo a Pop. Non paia un’inezia. Mitizzata in TV nelle glorie del suo passato più glorioso, la comunità LGBTQ si dimentica (è un riflessivo!) nel suo stesso presente di fatti noti ai soli pochi che c’erano, se sopravvissuti. Fatti che ne rappresentano il genoma.
Su questo ai Pride si dovrebbe ballare e celebrare, quando la battaglia c’era, perché veniamo proprio da lì; ma AIDS e squallore sulle scomode transgender che andrebbero santificate piuttosto, combattenti in ogni singolo momento della loro vita per essere. Oltre che per aver dato un casa e uno scopo a decine di gettati in strada e rimasti soli.
Non millantando un diritto, ma esercitandolo dai suburbia alle fifth evenue in sfida al mondo intero per urlargli in faccia “esisto”, che piaccia o no, e per questo senza nulla togliere. Buttati fuori di casa dalle famiglie vergognate, gay morti e sepolti, falciati nel più truce silenzio da una epidemia scomoda ma intrisa di quella libertà, anche nella promiscuità da che mondo è mondo; bollata subito dai bravi eterosessuali come punizione divina a un’aberrazione, meritata catastrofe per chi ama fuori dalle regole. La sifilide dalle crinoline vittoriane in poi, deve essersi avvalsa di particolari indulgenze divine, evidentemente.
La cantante statunitense Taylor Swift (nella foto) ha edito in giugno – mese dei Pride per eccellenza – la sua nuova clip You need to calm down (“Devi calmarti") ambientata in una dimensione tutta arcobaleno, ma non tanto gay quanto transgender. È probabilmente il primo video di una star mainstream che punta tutto sull’appariscenza al femminile di Transgender e Drag Queen, che mette in ombra gli stessi gay, meno efficaci nell’abuso di immagine fatto fin qui, e in un messaggio contro l’omofobia ovunque dilagante e urlante. E sì che sono i transgender a poter dire “Basta!”, perché loro anche quando vanno a comprare il pane si battono in uno sforzo di imposizione. E piace vederne il riconoscimento.
A ben vedere, questo è l’anno dei Transgender che piaccia o no, loro sono la vera accademia di una comunità che si è dimenticata che cosa è la vera lotta. Loro ci insegnano che senza “essere” c’è assoluta assenza di amore, anche verso sé stessi.