La Dolce Vita ovvero l’arte come «invenzione della verità»
A chi chiese a Flaiano se secondo lui radio e televisione abbassassero il livello culturale degli spettatori: “No, penso che se mai abbassano il livello culturale degli intellettuali.”
Il club di intellettuali di cui Flaiano era illustre esponente contava dei nomi di calibro come Fellini, con il quale scrisse le sceneggiature de La Dolce vita, La strada e 8½ , Monicelli, Petri, Antonioni, Pietrangeli, Rossellini, Germi e De Filippo.
Erano gli anni Cinquanta, era quella «società della conversazione» che gravita attorno ai caffè artistico-letterari di via Veneto e Piazza del Popolo, a Roma. Come il cosmopolita caffè Rosati.
Al Rosati, intellettuali e scrittori come Alberto Moravia ed Elsa Morante incontrano sceneggiatori come Ennio Flaiano, registi come Mario Soldati, o pittori come Giorgio DeChirico e Renato Guttuso, e Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir o si intrattengono con l’amico Carlo Levi. Conoscenze in comune, come l'attrice Anna Magnani, Pier Paolo Pasolini, Mastroianni.
«Ciò che abbiamo inventato è tutto autentico»
Liberarsi di questa inerzia diventa impossibile quando essa si accompagna al vino dei Castelli come, afferma con amarezza un personaggio di L’Orologio , «è l’arma segreta della città di Roma: chi arriva qui pieno di vitalità e di volontà di fare, un po’ che ci rimanga, con quel vino, gli passa lavoglia, si trova un cantuccio al fresco, ben riparato, si accontenta di un impiego, cade in letargo e diventa romano… Qui ti addormentano col Frascati e con le chiacchiere e l’alta politica»
Per Levi, dunque, la dolce vita romana diventa una minaccia alla possibilità di rinnovamento della politica e un subdolo riaffermarsi di una lingua rituale e senza signicato.
Per Fellini l’indagine politica avviene soprattutto a livello di «psicologia della nazione». La questione della lingua – e nel suo caso della rappresentazione – emerge come centrale, innanzitutto nella festa a casa di Steiner e sua moglie, organizzata secondo ilmodello del salone culturale e letterario.
Qui Fellini fa sì che gli interpreti della sequenza siano effettivamente esponenti della cultura contemporanea, tra i quali lo scrittore Leonida Rèpaci, la pittrice Anna Salvatore, e i poeti Iris Tree e Desmond O’Grady. I partecipanti alla conversazione scambiano dichiarazioni pompose e battute scontate: «L’unica vera donna è l’orientale» afferma con sicurezza uno degli ospiti, mentre la moglie ribatte tagliente che allora non avrebbe dovuto sposare lei, che viene da Frosinone. L’ironia riemerge nel commento della fidanzata di Marcello, Emma, quando lui esprime ammirazione per le poesie di Iris Tree, che a suo parere «non sembrano scritte da una donna»: «Ma che ne sai tu delle donne?». Per Emma la realtà è ancora riconoscibile, per gli intellettuali del salone di Steiner essa è accessibile solo in forma mediata.
Alla fine di ogni tappa del suo viaggio, Marcello (Fellini) incontra una donna dalla quale è attratto. Prima Maddalena, poi Sylvia, la sua fidanzata uffciale Emma, e infne Jane, un’ospite alla festa degli Odescalchi, sembrano offrire un punto di approdo al suo vagabondare esistenziale. La donna è, per Fellini, «tutto», come esclama Marcello, ammirato di fronte alla vitalità prorompente di Sylvia: «Tu sei tutto, Sylvia! Ma lo sai che sei tutto? You areeverything, everything! Tu sei la prima donna del primo giorno della creazione, sei la madre, la sorella, l’amante, l’amica, l’angelo, il diavolo, la terra, la casa… Ecco che cosa sei: la casa!»