Gli Ebrei della Palestina Sovietica, una storia poco conosciuta
Geschrieben von Paolo Molina am .
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Nel 1928 le prime famiglie ebraiche iniziarono a trasferirsi nel bacino del fiume Amur e ad accamparsi nelle vicinanze del piccolo villaggio di Tikhonkaja (alla lettera “Posto quieto”). Gradualmente trasformarono quel posto in Birobidzhan, (città a 8.200 chilometri ad est di Mosca), che diventò il capoluogo della Regione autonoma ebrea (lo è ancora oggi, con i suoi 74 mila abitanti).
L’unico modo per gli ebrei per fuggire dal nazismo era abbandonare l’Europa e "per poter lasciare il continente, gli ebrei dovevano fornire prove per l’emigrazione, che poteva essere un visto straniero o un biglietto navale valido". Documenti che erano difficili da ottenere dopo la Conferenza di Évian del 6 luglio ’38, quando 31 paesi su 32, compresi Canada, Australia e Nuova Zelanda, rifiutarono di ospitare altri immigrati ebrei avendo stabilito quote molto rigide.
Durante la Conferenza i paesi invitati sembravano simpatizzare per la causa ebraica, ma non fu presa decisione alcuna.
La Conferenza di Évian era stata voluta dagli Stati Uniti di Roosevelt, per discutere la questione dei rifugiati ebrei e la critica situazione del numero crescente di rifugiati ebrei in fuga dalla Germania nazista, con la speranza di sensibilizzare alcune nazioni ad accettare un numero maggiore di rifugiati e forse anche di distogliere l’attenzione dai limiti sull’immigrazione ebraica imposti dagli stessi Stati Uniti.
Alla conferenza parteciparono i delegati di 32 nazioni e 24 organizzazioni volontarie in qualità di osservatori. A Golda Meir, nella delegazione britannica in Palestina, non fu concesso di parlare.
Hitler dichiarò che se questi paesi erano disposti a simpatizzare per “questi criminali (gli ebrei), allora avrebbero dovuto essere abbastanza generosi da convertire la loro simpatia in un aiuto pratico. Da parte nostra, noi siamo pronti a lasciare andare questi criminali verso questi paesi, per quello che mi riguarda, anche su una nave di lusso“.
Il delegato australiano, T. W. White, così gli rispose: “non avendo problemi razziali, di certo non desideriamo importarli”. Le quote degli Stati Uniti e Gran Bretagna erano di 30.000 rifugiati ebrei l’anno, quelle Australiane 15.000 in tre anni, il Sud Africa accettava soltanto rifugiati con parenti sul territorio. Il Canada ne accettò pochissimi e la Francia dichiarò che aveva raggiunto il punto di saturazione e che non era più in grado di ricevere rifugiati.
La conferenza naufragò e non fu raggiunto un accordo per salvare i rifugiati ebrei dal Terzo Reich e dunque presto divenne un utile strumento di propaganda nelle mani dei nazisti.
Gli unici paesi disposti ad accettare gli ebrei furono la Repubblica Dominicana, che accettò circa 100.000 rifugiati e in seguito Costa Rica.
Tra le motivazioni addotte per l’insuccesso della conferenza, alcuni paesi offrirono giustificazioni che oggi suonano familiari, in questi ultimi anni: “L’emigrazione involontaria di masse di persone è diventata così grande che rende i problemi razziali e religiosi più acuti, aumenta l’instabilità internazionale, e può minacciare seriamente le relazioni internazionali”.
Fu creata una commissione intergovernativa per i rifugiati con lo scopo di sensibilizzare ed avvicinare i governi, ma non ebbe l’autorità necessaria per fare alcunché.
Due mesi dopo la conferenza, Francia ed Inghilterra garantirono ad Hitler il diritto di occupare lo Sudetenland in Cecoslovacchia, rendendo altri 180.000 ebrei senza Stato, come era accaduto per gli ebrei tedeschi in seguito alle leggi di Norimberga del ’38. Nel maggio del ’39, l’Inghilterra emanò il White Paper che vietava agli ebrei di comprare terra o di entrare in Palestina.
Riavvolgiamo la moviola della memoria, e soffermiamoci su due ricordi.
Ebrei e Russi
Il XX secolo fu un periodo drammatico per gli ebrei russi. Gli era consentito vivere solo entro i “certá osedlosti”, la “Zona di residenza” speciale, a Ovest dell’Impero (i territori dell’attuale Polonia, Bielorussia e Ucraina) ed erano spesso vittima di pogrom. Nel 1905, ad esempio, circa 800 ebrei vennero uccisi in attacchi legati ai disordini politici.
La “Zona di residenza” venne abolita solo nel 1917, dopo la Rivoluzione di Febbraio, con il decreto “Sull’abolizione delle restrizioni confessionali e nazionali” del 20 aprile.
Ma, come tutti, anche i membri della comunità ebraica sarebbero presto andati incontro alle orrende sofferenze della Guerra civile, scoppiata subito dopo la Rivoluzione d’Ottobre, e subirono esecuzioni sommarie e saccheggi. Da statistiche sucessive almeno 200 mila ebrei persero la vita nel corso della Guerra Civile, che infuriò fino al 1921 (e in alcune sacche di resistenza, oltre).
Quando tornò la pace e il potere sovietico iniziò a consolidarsi, il governò cominciò a chiedersi come gestire la “Questione ebraica”.
Stalin accentrò il potere nelle sue mani nel 1924.
Si dice che avesse forti pregiudizi nei confronti degli ebrei, sebbene lo negasse con forza e dicesse che “l’antisemitismo è un avanzo di cannibalismo”. Decise che il momento era maturo per "fare qualcosa con gli ebrei sovietici".
Dopo la Rivoluzione d’Ottobre, il commercio e l’artigianato, che erano le principali occupazioni della popolazione ebraica, erano malviste per ragioni di classe e ideologiche.
Così, un'idea folgorante, il governo progettò di trasformarli in contadini.
Stalin era intenzionato a far vivere gli ebrei tutti assieme, in un territorio definito e a dar loro un'autonomia nazionale, "come agli altri popoli dell’Unione Sovietica".
Oltre ad aiutare a risolvere alcune questioni politiche interne, la creazione di un “sionismo socialista” avrebbe permesso a Mosca di entrare in concorrenza con il progetto sionista di un ritorno in Palestina, che era molto vivo in quell’epoca.
Ma dove piazzare la Terra Promessa socialista?
Nel 1926 Mosca annunciò di supportare l’idea di una regione autonoma ebraica in Crimea e per questo sarebbero state spostate nella zona circa 96 mila famiglie.
Il progetto assunse una dimensione internazionale quando nel 1929 l’Urss firmò un accordo con l’American Jewish Joint Distribution Committee, un’organizzazione umanitaria con sede a New York, che finanziò l’operazione con 1,5 milioni di dollari all’anno per la creazione della “California di Crimea” e il trasferimento degli ebrei.
L’Unione Sovietica iniziò a insediare realizzando delle fattorie collettive ebraiche che iniziarono a lavorare con le prime semine e l’organizzazione dell’allevamento bovino.
I problemi cominciarono quasi subito: le comunità locali, invidiose delle migliori condizioni offerte agli ebrei (finanziati dal progetto internazionale) dettero vita a pogrom e a seri disordini in tutta la Penisola.
Stalin mise fine al progetto di una Crimea ebraica e ideò un nuovo piano: spostare gli ebrei nelle remote aree del Lontano Oriente dove c’era terra in abbondanza e non ci sarebbero state ragioni di tensione con la scarsa popolazione locale.
Nel 1928 le prime famiglie ebraiche iniziarono a trasferirsi nel bacino del fiume Amur e ad accamparsi nelle vicinanze del piccolo villaggio di Tikhonkaja (alla lettera “Posto quieto”). Gradualmente trasformarono quel posto in Birobidzhan, (città a 8.200 chilometri ad est di Mosca), che diventò il capoluogo della Regione autonoma ebrea (lo è ancora oggi, con i suoi 74 mila abitanti).
Il giornale ebraico ufficiale sovietico pubblicò poesie e storie dedicate a questa regione, che sarebbe diventata nell’immaginario collettivo “La Palestina sovietica”, la patria tanto agognata per un popolo senza terra.
In realtà il progetto di dare una terra agli ebrei dell’Unione Sovietica non andò però molto oltre il fatto di mettere cartelli e insegne bilingui, in russo e in yiddish.
Il viaggio per raggiungere Birobidzhan era estremamente lungo e arduo e il reinsediamento fu male organizzato.
Lo status della regione era poco chiaro: non era una repubblica ma solo una “regione autonoma” con certi privilegi, inserita all’interno della Regione di Chabarovsk.
Nel 1935 Stalin decise di non dare piena autonomia alla regione, lasciando gli ebrei sovietici senza entità statale. Stalin era contrario all’idea di far immigrare qui ebrei da altri Paesi, anche quando negli anni Trenta cercavano di mettersi al riparo dalla crescente minaccia nazista.Per maggior comprensione, il leader georgiano fece fucilare gran parte della classe dirigente della regione subito prima e subito dopo la Seconda Guerra mondiale.
Con la fondazione dello Stato di Israele nel 1948, gli ebrei ebbero a disposizione un posto molto più attraente dove spostarsi, rispetto a una sperduta e gelida landa della Russia asiatica.
Israele divenne così un paese avversario dell’Urss e proprio per questo Stalin abbandonò il progetto di aiutare in qualche modo gli ebrei.
Ancora oggi esiste la Regione (oblast) autonoma ebraica di Birobidzhan, con una popolazione di 164.000 persone. Ma i dati dell’ultimo censimento (2010), gli ebrei non raggiungono neanche l’1 per cento (sono circa 1.600). A quasi 90 anni dal lancio dell’idea di una “Palestina nel lontano oriente russo” appare chiaro che il progetto è fallito.
Ebrei e Cina
La più dimenticata, fra le tante migrazioni forzate più o meno passate sotto silenzio, c'è quella degli ebrei in Cina. Nel momento più buio della storia d'Europa, fra il 1938 e il 1941, nel dilagare del nazifascismo, anziché dirigersi verso la Palestina e l'occidente, punta dritto verso l'oriente estremo.
Diciottomila profughi ebrei europei, fra cui molti italiani, si imbarcano a Trieste e a Genova, a Marsiglia e dal Portogallo, cercano scampo dalle persecuzioni nel più lontano dei mondi possibili, per distanza geografica e culturale.
Shangai è la città rifugio dalle persecuzioni razziali.
La scelta della Cina da parte di un così consistente numero di ebrei europei fu dettata da motivi molto pratici.
L'unico porto al mondo che, all'epoca, li avrebbe accolti senza né passaporto né visto, era infatti Shangai, che diventerà così, per i moderni perseguitati, un concreto esempio della biblica 'città-rifugio' (quella dove, per legge, i colpevoli di omicidio involontario potevano trovare asilo).
Costretti a risiedere nel quartiere di Hongkou della città cinese, gli ebrei non vi furono però rinchiusi, ma restarono liberi di muoversi, svolgere le loro numerose attività, dal commercio alle professioni, e mantenere il loro culto. ''E da quello che se ne sa, i rapporti fra i nuovi arrivati e i cinesi, nonostante l'enorme diversità culturale, sono sempre stati ottimi, improntati alla collaborazione e al rispetto reciproci''.
“Nessun consolato o ambasciata a Vienna era disposto a concederci visti di immigrazione fino a quando, per fortuna e perseveranza, sono andato al consolato cinese dove, meraviglia delle meraviglie, mi è stato concesso il visto per me e la mia famiglia allargata. Sulla base di questi visti, siamo stati in grado di ottenere una sistemazione sul Bianco Mano, di proprietà di una linea di navigazione italiana, che doveva partire all’inizio di dicembre del 1938 da Genova, dall’Italia a Shanghai, in Cina – un viaggio di circa 30 giorni. “ – Eric Goldstaub, rifugiato ebreo a Shanghai.
Nacque così la Piccola Vienna, dove poco alla volta i rifugiati aprirono negozi, ristoranti, circoli, e costruirono sinagoghe, scuole, cimiteri, ma anche ospedali dove nascevano i bambini nati in quella nuova realtà, così diversa dalla lontana Germania. Durò solo fino al 1941, quando il funzionario della Gestapo Josef Meisinger detto anche "il macellaio di Varsavia", distaccato a Tokyo, tentò di convincere i giapponesi a rinchiudere gli ebrei di Shanghai in un campo di concentramento.
Alla fine il Piano Meisenger fu respinto, ma dal febbraio del ’43 tutti gli ebrei arrivati dopo il 1937 furono obbligati a trasferirsi a Hongkou, un quartiere già estremamente sovrappopolato, che divenne il ghetto ebraico della città cinese.
L’entrata e l’uscita delle persone era controllata, ma nonostante la mancanza di cibo e di spazio vitale (30/40 persone e anche più dormivano in una sola stanza), la mancanza di adeguati servizi igienici e le conseguenti malattie, il ghetto di Shanghai era quasi un luogo "migliore" rispetto a quelli europei.
Dopo la guerra, la comunità ebraica si trovò a vivere in una città che non era più la stessa. I giapponesi erano stati cacciati, ma continuavano le lotte tra nazionalisti e comunisti.
Cominciò un nuovo esodo verso nazioni diverse, in particolare Stati Uniti e Israele. Alla fine degli anni Cinquanta quasi ogni traccia della vita ebraica a Shanghai era sparita: scuole e negozi chiusi, sinagoghe demolite.
Mai riuscito a rispondere compiutamente alle uniche importanti domande della vita: “quanto costa?”, “quanto ci guadagno?”. Quindi “so e non so perché lo faccio …” ma lo devo fare perché sono curioso. Assecondami.