Incidente nucleare o pandemia per me pari sono
Tutti esperti, nessuno esperto? Di fronte a situazioni catastrofiche e pandemiche il cittadino si rifugia nella propria individuale esperienza. Tutti, per un motivo o per un altro, crediamo di saper individuare il «vero» esperto. Invece abbiamo realizzato che gli esperti scientifici non la pensano allo stesso modo; e la nostra fiducia nei loro confronti si è ulteriormente indebolita, rafforzando la nostra convinzione di dovere e potere decidere da soli.
«Ti sei ricordato di chiudere il gas?». Non deve essere stata questa la frase rivolta dal collega, che lo attendeva all’esterno, all’ultimo tecnico che stava per uscire dalla centrale nucleare di Trino vercellese quando, il 1°luglio del 1990, venne chiusa in via definitiva l’unica centrale nucleare ancora operativa delle quattro esistenti nel nostro Paese (le altre erano quelle di Caorso nel piacentino, di Latina e di Garigliano nel casertano).
In realtà, l’impianto di Trino, che al momento della sua entrata in funzione costituiva la centrale elettronucleare più potente nel mondo, aveva già interrotto la produzione nel marzo del 1987, dopo quasi un anno dall’incidente di Chernobyl e in concomitanza con il referendum che in novembre avrebbe sancito la fine del nucleare italiano. Il risultato fu inequivocabile, con oltre il 70% di favorevoli per i tre quesiti riguardanti il nucleare e un’affluenza del 65%.
I media di allora dedicarono scarsa attenzione a questo passaggio d’epoca, e dunque non suona strano che oggi non se ne ricordi nessuno. I criteri di notiziabilità adottati dai media sono, del resto, improntati su una prospettiva temporale quanto mai ridotta, se non addirittura esclusivamente centrata sul presente.
Avere la memoria corta offre però alcuni vantaggi, come per esempio quello di non prestare attenzione a ciò che diventa sorprendente non tanto per la sua imprevedibilità e immediatezza, quanto piuttosto per la sua durata e per la sua prevedibilità. Così, infatti, possiamo evitare di riflettere sul fatto che, a distanza di oltre vent’anni dalla chiusura della centrale di Trino, lo smantellamento dell’impianto e la bonifica del sito siano ancora in corso, mentre la data di conclusione dei lavori resta difficile da stabilire.
Certo, per chiudere una centrale nucleare non basta premere un interruttore e buttare giù qualche muro; tuttavia, non dovremmo per questo poter distogliere lo sguardo dall’ennesima riprova dell’agilità granitica delle istituzioni pubbliche italiane. Una rapidità d’azione che fa tremare i polsi, specie se pensiamo a quel che abbiamo promesso con il Recovery Fund.
Preferiamo, però, restare focalizzati soprattutto sul presente, costantemente sollecitati in questa direzione dai media e dal susseguirsi di eventi che continuano a richiamare la nostra attenzione. Gli incidenti prima di Chernobyl e poi di Fukushima hanno svolto benissimo questa funzione. E che dire dell’attuale pandemia?
Un aspetto interessante di questo insistere sul presente è la perdita sistematica di occasioni per cogliere gli elementi di continuità che possiamo individuare nel nostro modo di reagire agli eventi inattesi, specie a quelli catastrofici. C'è dunque qualcosa in comune fra un incidente nucleare e una pandemia? Forse molto più di quel che potrebbe venire in mente, almeno in prima battuta.
In entrambi i casi, per esempio, la rottura delle routine su cui si regge la nostra quotidianità ha generato una serie di interrogativi su quali comportamenti adottare e quindi su come ricucire un tessuto di normalità che potesse nuovamente essere dato per scontato. Nel caso di Chernobyl – e in parte anche di Fukushima – i problemi erano relativi alla respirabilità dell’aria e alla sicurezza di alcuni cibi; nel caso del Covid-19 la questione principale ha riguardato il contatto con le persone e il relativo rischio di essere infettati dal Coronavirus.
Al di là delle inevitabili differenze, il punto risulta quindi essere lo stesso: che cosa dobbiamo fare? Una domanda che non appartiene all’atteggiamento della vita quotidiana, per dirla con Schutz, cioè a quel mondo «dato-per-scontato» su cui facciamo normalmente affidamento.
In entrambi i casi le strategie di risposta sono state sostanzialmente due: confidare nella risposta dell’esperto oppure rimuovere il problema, cioè continuare a vivere come se non fosse accaduto nulla. E in entrambi i casi abbiamo potuto osservare che la competenza dell’expertise non è una qualità acquisita bensì ascritta, poiché il titolo di esperto viene conferito a chi offre una soluzione credibile e praticabile alla domanda che mette in crisi la stabilità del nostro mondo – come mi devo comportare? – e non necessariamente a chi può vantare credenziali ottenute magari attraverso un percorso di studio istituzionalizzato o mediante un’esperienza riconosciuta da una comunità professionale consolidata.
Tale meccanismo di costruzione dell’expertise funziona, però, sulla base di un assunto che viene esplicitato di rado, anche se rappresenta uno dei fondamenti della società contemporanea: il primato dell’individuo e la conseguente convinzione di poter bastare a se stessi, anzi, di avere il diritto e la competenza per poter stabilire di chi mi posso fidare.
Il cortocircuito è così completo: anche se ho bisogno di qualcuno per trovare risposte rassicuranti, spetta comunque a me decidere chi è in grado di darmi tali risposte e il criterio che adotto per tale decisione sono di nuovo io stesso. Il vero esperto è quello che mi dice cosa devo fare, purché quel che mi dice risulti per me plausibile e accettabile.
Il virologo sostiene che questo virus è molto aggressivo e che per evitarlo devo ridurre al minimo i miei contatti sociali? Ma come faccio a vedere i miei cari, a incontrare i miei amici, ad andare al lavoro, a frequentare i luoghi affollati del tempo libero? Meglio il complottista, che nega la pandemia e che dunque mi legittima a continuare a fare quel che ho sempre fatto.
L’ingegnere sostiene che non dovremmo rinunciare all’energia nucleare perché gli incidenti sono estremamente improbabili? Ma come, Fukushima dimostra chiaramente che possono accadere, dunque meglio chiudere le centrali.
Per il climatologo, però, non possiamo concederci questi livelli di consumo energetico – non importa se bruciando carbone o petrolio oppure spaccando atomi; sarebbe quindi necessario cambiare le nostre abitudini, riscaldando meno le nostre abitazioni, utilizzando meno l’auto e l’aereo, in generale conducendo uno stile di vita più sobrio. Eppure, sulla base della mia esperienza, questo inverno è stato tanto freddo… Ma quale surriscaldamento globale! Lasciamo le cose come stanno.
Potremmo continuare e nessuno di noi ne sarebbe risparmiato. Tutti, per un motivo o per un altro, crediamo di saper individuare il «vero» esperto. La figura dell’esperto tende così a sbiadire nell’indistinto: tutti esperti, nessun esperto.
D’altro canto, anche gli esperti «certificati» ci mettono del proprio. La crisi del loro ruolo viene infatti alimentata dalla loro presenza contraddittoria sulla scena pubblica. Quando si venne a sapere della nube radioattiva arrivata da Chernobyl sopra le nostre teste, vi furono pareri contrastanti sulla sua pericolosità e sui rischi associati al consumo di frutta e verdura. Allo stesso modo abbiamo potuto ascoltare interventi anche molto diversi da parte di medici e di ricercatori sulla trasmissibilità del Coronavirus, sull’adeguatezza di certe misure, sulle conseguenze del Covid-19.
Con grande delusione abbiamo così realizzato che gli esperti scientifici non la pensano allo stesso modo; e la nostra fiducia nei loro confronti si è ulteriormente indebolita, rafforzando la nostra convinzione di dovere e potere decidere da soli.
Questo effetto però dipende dall’errata concezione di scienza che si è accreditata nella nostra cultura. Se la scienza, come abbiamo imparato a scuola - il regno della certezza, dell’oggettività, del sapere valido sempre e dovunque - com’è possibile che due scienziati la pensino diversamente?
La pandemia e gli incidenti nucleari hanno invece mostrato pubblicamente che la scienza è alimentata in modo sistematico anche dall’incertezza e dalla differenza di vedute.
Ma la questione principale resta ancora un’altra. Cerchiamo infatti risposte semplici e immediate a problemi complessi, per affrontare i quali non basta la competenza di un solo punto di vista. Come i medici non possono da soli combattere la pandemia, i fisici non sono in grado di risolvere il problema della sostenibilità energetica. Abbiamo bisogno delle loro competenze, però dobbiamo chiedere che lavorino assieme perché i problemi con cui dobbiamo fare i conti riguardano molti aspetti; nello stesso tempo non possiamo attenderci dagli esperti una soluzione che metta le cose a posto senza la nostra collaborazione. La questione energetica non si risolve chiudendo una centrale nucleare, così come una pandemia non si supera con i soli vaccini.
Federico Neresini è docente di "Scienza, Tecnologia e Società" nel Corso di Laurea Magistrale in Sociologia presso l'Università di Padova; sempre a Padova, insegna "Sociologia dell'Innovazione" nel Corso di Laurea in Scienze Sociologiche, che ha presieduto fino al Settembre 2013. E' Coordinatore dell'Unità di Ricerca PaSTIS (Padova Science, Technology and Innovation Studies – www.pastis-research.eu) e fa parte di due centri di interdipartimentali di ricerca: CIGA (Centro per le decisioni giuridico-ambientali e la certificazione etica d'impresa) e HIT (Human Inspired Technology). Ha inoltre contribuito come socio-fondatore alla nascita di STS-Italia (Società Italiana di Studi Sociali sulla Scienza e la Tecnologia – www.stsitalia.org) e di Observa – Science in Society (www.observa.it). Fa parte del comitato scientifico delle riviste "Rassegna Italiana di Sociologia" e "Tecnoscienza". Ha pubblicato numerosi saggi e articoli anche su riviste internazionali (Nature, Science, Public Understanding of Science, Nanotechnology Perceptions, New Genetics & Society, Science Communication), oltre ad alcuni volumi fra i quali, più recentemente, "Il nano-mondo che verrà. Verso la società nanotecnologica", il Mulino (2011).