Perché i migranti sbattono contro i muri e persino muoiono

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Da diversi anni la cosiddetta “questione demografica” è diventata una delle principali preoccupazioni di alcuni demografi, anche se le autorità politiche sembrano evitare di parlarne. Che si tratti dello spettro dell’aumento considerato incontrollato della popolazione mondiale, che alcuni sovrappongono alle conseguenze dei cambiamenti climatici e quindi al terrore per migrazioni che a certi dominanti appaiono come minacce di future invasioni distruttive dei paesi detti benestanti.

migrazioni risio2Illustrazione - Letterio RisoPotrebbe anche trattarsi del continuo declino demografico nella vecchia Europa (dall’Atlantico agli Urali), la questione demografica e le migrazioni (e anche l’emigrazione degli stessi abitanti dei paesi ricchi) appaiono come il più grosso problema che incombe sul pianeta tanto quanto la sola questione del riscaldamento climatico. In realtà, il primo gigantesco problema sta nello sviluppo economico che esaspera le diseguaglianze tra una minoranza di miliardari e milionari e delle loro lobby e la maggioranza della popolazione che, sia nei paesi poveri che in quelli ricchi, è a rischio di impoverimento e delle devastazioni che provocano malattie e morti da contaminazioni tossiche oltre che da incidenti sul lavoro ed economie sommerse.

Ricordiamo che la maggioranza dei decessi è dovuta a malattie da contaminazioni tossiche, incidenti sul lavoro, malnutrizione, mancanza di cure, e in generale a invivibili condizioni di lavoro e di vita (e questo riguarda sia la maggioranza dei circa 60 milioni di morti l’anno a livello mondiale sia quelli nei paesi detti “ricchi”).

Tuttavia, di tali questioni se ne parla poco e anche gli esperti democratici e gli umanitari ne discutono restando spesso pervasi da categorie e paradigmi assai discutibili. È invece proprio su tali questioni che appare cruciale la necessità di decostruire i discorsi dominanti e adottare un approccio critico che possa permettere di dire la verità al potere, come insegna la pratica della parresia di Socrate ripresa da Foucault.

Non è una “bomba umana”

In una pubblicazione sulla questione demografica anche «Le Monde Diplomatique» ha fatto la cattiva scelta mediatica di intitolare l’ultimo numero La bomba umana (La bombe humaine), nonostante il contenuto proposto sia in gran parte condivisibile sebbene lacunoso. Il titolo scelto da Philippe Descamps nella sua presentazione del n. 167 di «Manière de voir» (supplemento di LMD di ottobre-novembre 2019) è infatti Troppi umani o troppo poca umanità? (Trop d’humains ou trop peu d’humanité?). Noi preferiamo parlare di questione demografica, di immigrazioni, emigrazioni, spettro e pseudo-paradossi del XXI secolo liberista, proprio perché è evidente che si tratti della conseguenza della deriva del liberismo globalizzato. Un liberismo che si è imposto puntando sull’esasperazione dell’asimmetria di potere, di mezzi e di ricchezza a favore di un numero sempre inferiore di dominanti e dei loro sostenitori, fatto che ha consentito una devastazione planetaria.

Questa è la prima causa della difficoltà, se non dell’impossibilità, di governare in maniera umana l’aumento della popolazione, spesso massacrata non solo dalla fame, da malattie non curate, dall’esasperazione delle diseguaglianze, ma anche dalle guerre istigate dalle potenze dominanti, e quindi costretta a cercare disperatamente la salvezza migrando, e spesso morendo durante questi tentativi (vedi Resistenze ai disastri sanitari-ambientali ed economici nel Mediterraneo). Sappiamo bene che si fugge da tanti luoghi dei paesi martoriati non solo dalle guerre ma anche dalle devastazioni provocate dalle multinazionali per estrarre petrolio, carbone, uranio, gas, i cosiddetti nuovi minerali preziosi, da una pesca industriale, da grandi opere che cancellano le comunità di territori grandi come la Francia, dalle discariche di rifiuti tossici ecc.

A questo si aggiungono le misure finanziarie che impongono ai paesi meno fortunati e a tutti politiche economiche e sociali che affamano e creano spesso solo neo-schiavitù. Ricordiamo che il proibizionismo delle migrazioni da parte dei paesi ricchi imposto anche ai paesi di transito è di fatto una guerra che provoca morte. In altre parole i dominanti optano facilmente per il “lasciar morire” (la tanatopolitica) anziché per il “lasciar vivere” (la biopolitica) proprio perché non manca manodopera e persino umani da schiavizzare e trattare come “usa-e-getta”. Ed è anche questo che spiega in parte il paradosso dell’emigrazione e dell’immigrazione che aumentano simultaneamente negli stessi luoghi.

I dominanti non hanno alcun interesse a creare buone condizioni di lavoro e di remunerazione per trattenere i lavoratori, poiché possono disporre di braccia da selezionare e trattare a piacimento come manodopera malpagata o schiavi usa-e-getta, riducendo i costi del lavoro a meno del minimo. Ciò avviene nei paesi ricchi, mentre in quelli poveri si fuggono la distruzione di intere società locali e tutto il peggio che si può immaginare a conseguenza di ciò.

Le emigrazioni sono sempre aspirazione all’emancipazione economica, sociale, culturale e politica, ma oggi i migranti sbattono contro muri, frontiere militarizzate e, se sopravvivono, sono spesso alla mercé dell’inferiorizzazione, della neo-schiavitù e persino della morte.

 

Pressione demografica e innovazione culturale

Come scrivono alcuni autori, la fine del mondo è una previsione assai discutibile (la Terra potrà sopravvivere anche senza atmosfera, come altri pianeti); ma se il degrado dell’ecosistema aumenta, la sorte degli umani e del mondo animale e vegetale è l’estinzione, sebbene non nel XXI secolo. Il mondo animale e vegetale ha infatti avuto sempre incredibili capacità di adattamento. Ma la profezia di una sorta di ecatombe ha l’effetto perverso di favorire paure, terrore e invocazione di divinità salvatrici, un modo per captare le angosce conducendo sia all’atteggiamento di chi pensa solo all’hic et nunc (ora e subito) e all’idea di fregarsene («dopo di me il diluvio»), sia alla credulità per ciò che viene proposto come il meno peggio se non la salvezza, per esempio la pseudo green economy, ossia il rilancio del capitalismo colorato di verde predicato sia da ambientalisti di turno che da autorità e lobbisti in cerca di rifarsi una verginità (e non mancano i dubbi sul Laudato Sì del papa e sulla campagna della celeberrima Greta). E che effetto hanno i calcoli e le previsioni spesso discutibili sul riscaldamento del pianeta e sulle tendenze demografiche? Come ricorda Descamps (già citato) la prima «bomba umana» esplose in Medio Oriente diecimila anni fa, insieme all’invenzione dell’agricoltura e dell’allevamento. In quel momento, la popolazione dell’Europa si moltiplicò per cento, e la pressione demografica diede una spinta all’innovazione culturale. Con lo sviluppo industriale nel XIX secolo, si ebbe una nuova “esplosione” accompagnata da un’ulteriore rivoluzione antropologica, insieme a parecchie trasformazioni rilevanti: meccanizzazione dell’agricoltura, destrutturazione del mondo rurale e conseguente gigantesco esodo; diminuzione della mortalità infantile e delle malattie infettive grazie ai vaccini e alle nuove medicine e cure, ascesa delle lobby farmaceutiche e riduzione generale della mortalità; riduzione della natalità, diffusione dei contraccettivi e controllo delle nascite.

Il risultato è stato che i terrestri sono passati da 1 miliardo nel 1800 a 7,7 miliardi a inizio 2019. Ma l’approdo al liberismo ha escluso di occuparsi di assicurare a questi (e anche ai 10 miliardi previsti per la fine del XXI secolo) condizioni di vita e di lavoro decenti, cosa del tutto possibile se non vi fosse una ripartizione non spaventosamente diseguale della ricchezza. Invece appena più di 2.000 miliardari e un po’ più di 100.000 milionari possiedono la stragrande maggioranza della ricchezza del pianeta, mentre miliardi di umani stentano a vivere, sebbene lavorino sino a rischiare la morte, incidenti sul lavoro o contaminazioni tossiche.

Ma per gli opinionisti e le autorità il problema sarebbe la paura di tutta questa umanità “famelica”. I dominanti immaginano folle che assediano le loro cittadelle, o gated communities. Tuttavia, la fame non è dovuta all’aumento di bocche da sfamare, ma al governo di ciascun paese,[1] cioè alle logiche della distribuzione diseguale del profitto prodotto da tutti i lavoratori del mondo e dalle loro famiglie (a cominciare dalle madri). Il liberismo punta all’esasperazione del profitto e arriva persino ad accusare l’aumento della popolazione mondiale di causare il degrado dell’ecosistema, come se la crescita economica devastatrice fosse imposta da quella demografica, che quindi sarebbe persino responsabile dell’emissione di gas a effetto serra e altre degradazioni dell’ambiente. Ma chi ha scelto tale crescita economica basata sullo sfruttamento di carbone, petrolio, gas, nucleare e lavorazioni che provocano contaminazioni tossiche?

Peraltro, come documenta LMD, «il contributo medio di un abitante del Niger alle emissioni di gas carbone è duecento volte inferiore a quello di un abitante degli Stati Uniti, o diecimila volte di quello di un miliardario. Anche se il Niger raddoppiasse la sua popolazione, la sua partecipazione all’effetto serra resterebbe trascurabile. Lo sviluppo dei paesi poveri – che produce anche il controllo della natalità – sarebbe sostenibile solo attraverso altre modalità anziché l’esasperazione delle emissioni di carbone». L’accesso di gran parte della popolazione a una vita decente può avvenire senza necessità di aumentare il consumo di energia che provoca tossicità e CO2. In altre parole, lo sviluppo economico può benissimo escludere il consumo di petrolio, carbone, gas e nucleare, e adottare per esempio il progetto Rubbia (centrali di specchi che captano l’energia solare oltre alle fonti energetiche naturali: acqua, vento ecc.).

 

Contro le idee demografiche fuorvianti: invecchiamento e denatalità nell’Europa occidentale

Dal 1968, il tasso di crescita annuale si è dimezzato a livello mondiale. Il ritmo attuale è ancora molto sostenuto, ma la decelerazione continua e la popolazione si stabilizzerà. Progressivamente, la piramide dell’età diventa una torre, e in alcuni paesi si rovescia, le classi di età mature diventano più numerose (vedi l’Italia e un po’ tutta l’Europa). La fecondità è già passata al di sotto del livello di ricambio delle generazioni in 93 paesi. Tranne qualche paese tormentato (Pakistan, Egitto, Iraq, Algeria, Yemen, Siria, Afghanistan ecc.), il controllo della natalità non pone più problemi tranne che nell’Africa subsahariana. Pur con lentezza, la natalità finisce per abbassarsi e raggiungere il livello della mortalità. Questa transizione demografica si avvera dappertutto. Che cosa succederà dopo? Le proiezioni che vanno oltre il 2050 sono congetture che mirano soprattutto a far pressione per l’azione dei decisori.

Il declino demografico in Europa centrale e orientale dopo la caduta del muro di Berlino dà un’avvisaglia di ciò che potrebbe essere l’«inverno demografico»: impoverimento, invecchiamento, abbandono dei piccoli comuni, emigrazione per mancanza di prospettive soddisfacenti. La libertà di movimento in seno all’Unione europea favorisce la fuga dei cervelli dell’Est e del Sud, l’afflusso di manodopera e la concentrazione delle ricchezze nei paesi dell’Ovest più ricchi, quali la Germania, dove il saldo migratorio oltrepassa dieci milioni di persone dal 1989.

È vero che la moltiplicazione per otto della popolazione in due secoli si è accompagnata a più istruzione, più sicurezza e anche relativa buona salute. La speranza di vita è aumentata, ma la maggioranza della popolazione dei paesi ricchi invecchia malata a beneficio delle lobby farmaceutiche e della cura socio-sanitaria.

Dopo la caduta del muro di Berlino, nei paesi dell’Est vi è stata un’esplosione di diseguaglianze, povertà e mortalità. Le «terapie di choc» dettate dagli esperti finanziari occidentali non hanno ucciso tutti gli europei dell’Est ma li hanno resi “anemici” e alquanto dipendenti dal carburante economico dell’Ovest. Denatalità ed esodo conducono a un bilancio demografico grave: ventiquattro milioni di abitanti in meno dal 1989 nei paesi dell’Est, a parte la Russia. Un giovane che nasce oggi in Ucraina può sperare di vivere sessantasei anni, cioè sedici in meno rispetto a un italiano, ammesso che non sia colpito da contaminazioni tossiche, incidenti sul lavoro o altro. Sedici e più anni, è anche ciò che separa la speranza di vita dei ricchi rispetto ai poveri negli stessi paesi dell’Europa occidentale. Tutti i paesi del mondo e anche d’Europa sono oggi diventati terre di immigrazione, emigrazione e di transito.[2]

 

Italia: paese di emigrati, immigrati e declino demografico; nessun paradosso è il prodotto del liberismo

Da alcuni anni qualcuno si è accorto che l’Italia non ha mai smesso di essere un paese di emigrazione,[3] mentre da almeno trent’anni si (s)parla solo di immigrazione straniera e da qualche anno ci si interroga sul declino demografico, l’invecchiamento e l’aumento dei decessi rispetto alle nascite. Sebbene parziali per difetto, i dati mostrano che l’emigrazione è ripresa e aumenta proprio in zone di immigrazione crescente insieme a un altissimo numero di cancellati e nuovi iscritti all’anagrafe dei comuni anche per migrazione verso altri comuni. Questo lo si può verificare sia in piccoli comuni che sembrano estinguersi, ma si popolano di immigrati temporanei, sia nelle grandi città che sono sempre più spesso di transito (Milano in testa).

Si tratta di dati parziali poiché tante persone non si cancellano dall’anagrafe del proprio comune di origine, quindi non si iscrivono a quella dei comuni dove sono andati a domiciliarsi, né all’anagrafe dei consolati nei paesi europei dove sono emigrati, sia perché non è obbligatorio, sia perché spesso si tratta di soggiorni non molto prolungati, sia infine perché alcuni vanno a svolgere solo lavori in nero (ma sembra che la maggioranza delle persone che si spostano tendano sempre più a cancellarsi all’anagrafe del comune dove abitavano e iscriversi laddove sono andati a risiedere – altri comuni o consolati all’estero).

Il totale dei residenti in Italia al 1° gennaio 2019 era di 60.359.546, di cui l’8,7 per cento_ di cittadinanza straniera (5.255.503 regolari),[4] ergo gli italiani sono 55.104.043 (senza contare chi emigra all’estero senza registrarsi e gli stranieri irregolari che sono stimati a circa 500 mila persone).

Ma per avere un’idea parziale dei continui spostamenti di persone basta guardare il dato globale degli iscritti all’anagrafe dei comuni dal 2001 al 2018, e quello dei cancellati (iscritti provenienti sia da altri comuni, sia dall’estero e tra questi anche gli stranieri, e tra i cancellati sia per altri comuni sia per l’estero, e quindi far loro anche gli stranieri).[5] 

In 18 anni ci sono stati 33.381.047 di nuovi iscritti e 27.547.087 di cancellati (queste variazioni sono forti sin dagli anni ’70 a seguito della fine delle grandi industrie e del loro indotto non solo nel triangolo industriale Torino-Milano-Genova, ma in tutti i siti di grandi fabbriche). Inoltre, dal 2002 al 2018 si sono avute 8.985.053 nascite e 10.101.169 decessi, cioè 1.116.116 decessi in più delle nascite, e si hanno oltre 5 milioni di residenti all’estero (ma non si hanno dati sulle variazioni degli iscritti all’AIRE – Anagrafe dei residenti all’estero – e neanche dati sui nati e deceduti all’estero). Vi è stato quindi un enorme rimescolamento della popolazione tipico di una fase in cui c’è continua destrutturazione economica e sociale e continuo sviluppo di attività instabili, precarie, al semi-nero e al nero.

Ripetiamo, i cancellati e nuovi iscritti sono solo le persone che hanno provveduto a segnalare il proprio cambio di residenza, e in diversi casi può trattarsi delle stesse persone. Lo stesso vale per gli iscritti all’AIRE. Secondo i dati ufficiali,[6] al 31/12/2017 l’AIRE contava 5.114.469 cittadini. Nel 2000 erano 2.353.000, nel 2005 3.521.000, nel 2010 4.115.000, nel 2016 4.973.940. Un crescendo dovuto anche al fatto che prima a iscriversi erano pochi, mentre adesso ciò viene spesso sollecitato dalle stesse istituzioni straniere. Tale dato, nelle analisi sul declino demografico, sembra ignorato, come se di fatto gli emigrati siano ormai considerati fuori dalla demografia del paese.

Il continuo cambiamento di residenza registrato e non registrato sembra un fenomeno ancora più accentuato di quanto già si è avuto negli anni delle grandi migrazioni interne e verso l’estero, non solo nel XIX secolo, precedentemente e dopo la Prima guerra mondiale, ma ancora di più dopo la Seconda guerra mondiale. Contrariamente allo stupido luogo comune, non si è mai trattato e non si tratta nemmeno oggi di sole migrazioni dal Sud verso il Nord e l’estero, e di va-e-vieni dei meridionali, ma anche di migrazioni dalle campagne verso le città e verso l’estero in tutte le regioni. Milano è per esempio la città che ha avuto un enorme cambiamento della popolazione residente, come città di transito, e lo stesso vale per tanti comuni della sua provincia.

Al 1° gennaio 2019 133 comuni della città metropolitana di Milano contavano 3.250.315 persone;[7] ne avevano 560.315 nel 1861, 3.139.490 nel 1981 (punta massima della crescita prima di due decenni di diminuzione), e infine di nuovo crescita che si evince con il dato del 2019. Ma ecco i dati del ricambio di popolazione, sebbene se solo dal 2002 al 2018: 2.237.118 nuovi iscritti alle anagrafi dei 133 comuni e 1.785.258 cancellati (da e per altri comuni o da e per l’estero). Un andamento che rispecchia perfettamente il processo di cambiamento economico conosciuto dagli anni ’70 in poi. Ossia: il cosiddetto declino della società industriale con la fine di tutte le grandi industrie e del loro indotto, e in seguito una ripresa secondo la logica liberista che ha prodotto dapprima destrutturazione economica e sociale dell’assetto precedente e poi segmentazione eterogenea, discontinua e quindi instabile, ergo una mobilità sempre più forte della manodopera.

Le città, invece, hanno avuto non solo un gigantesco ricambio, ma anche un fortissimo calo della popolazione residente, perché si sono gentrificate: sono diventate città di uffici e negozi, seconde case per ricchi, città troppo care per giovani famiglie e quindi città di vecchi e di giovani in movimento alla ricerca di una formazione, di esperienze, ma pronti a partire verso l’estero o altre città, ma anche città di immigrati stranieri necessari per la domanda dei servizi. Nel 1861 Milano contava 267.621 residenti, nel 1971 ne aveva 1.732.068[8] (punta massima raggiunta dopo una continua crescita) e nel 2018 ne conta 1.378.689 (dato in crescita rispetto al calo continuo che c’è stato dal 1971). Ma se guardiamo al ricambio di popolazione solo dal 2002 al 2018 si sono avuti 941.641 nuovi iscritti e ben 690.777 cancellati (fenomeno forte anche negli anni che vanno dal 1971 al 2002). Inoltre, sempre dal 2002 al 2018, si sono avute 203.852 nascite e 232.811 decessi.[9]

Tutta la Lombardia ha avuto una crescita costante tranne un lieve calo dall’81 al ’91, e oggi ha superato di poco i 10 milioni di residenti. Dal 2002 al 2018 si sono avute 1.621.205 nascite e 1.629.525 decessi (più decessi che nascite, come in tutt’Italia).

Questo aumento corrisponde allo sviluppo economico di questa regione sia nelle piccole e medie industrie, sia nel commercio che nell’agricoltura e i servizi. In tutta la Lombardia al 1° gennaio 2019 si contano 1.181.772 residenti stranieri, ossia oltre il 10% della popolazione a dimostrazione della loro indispensabile utilità per l’economia della regione, nonostante vi prevalga la Lega con i suoi proclami anti-immigrati (ma si sa che i primi a impiegare immigrati sono proprio i leghisti). Gli stranieri irregolari e in generale i lavoratori al semi-nero e nero totale in questa regione sono in numero superiore a tutte le altre regioni, proprio perché le attività cosiddette legali si nutrono di lavoro semi-nero e nero (esempio tra gli altri quello della 

). E la Lombardia, con tutta la pianura padana, appare la regione con la più alta evasione fiscale e una delle due regioni più inquinate d’Europa.

Milano:, nuovi iscritti e cancellati all’anagrafe:[10]

Anni Nuovi iscritti Cancellati
1971-1980   373.620 476.560
1981-1990   281.840 420.410
1991-2001   358718 391453
2002-2011   508.262 411.945
2012-2018   433.379 278.832
Totale 1.955.819 1.979.200

Gli stranieri residenti a Milano al 1° gennaio 2019 sono 268.215, il 19,5% del totale dei residenti (1.378.689). Dato clamoroso se si pensa che Milano è stata governata per quasi vent’anni da giunte di destra e trazione leghista, ma dato che conferma come la gentrificazione necessiti di tanti lavoratori nei servizi e nel commercio (sono innanzitutto rumeni, egiziani, filippini e cinesi, cioè nazionalità del tutto marginali sino agli anni ’90 – ossia badanti, commercianti o gestori negozi).

Del famoso triangolo industriale si “salvano” dal declino demografico – almeno in parte – solo la Lombardia e una porzione del Piemonte, mentre la Liguria fa registrare un calo demografico in proporzione tra i più alti del mondo (oltre a invecchiamento, mortalità e scarsità delle nascite che data da sempre – cf. infra).

 

Piemonte, Liguria e altre regioni italiane

È tra il 1961 e il 1971 che il Piemonte (e notoriamente grazie a Torino) arriva a superare i 4 milioni di abitanti (ne aveva 3.914.250 al censimento del ’61 e ben 4.432.313 a quello del ’71, e ancora 4.479.031 a quello del 1981, mentre dal ’91 si comincia a registrare un lieve calo che continua sino a dieci anni dopo; vi è poi un po’ di crescita sino al 2010 (4.457.335), e un nuovo calo, anche se di poco (4.356.406). Vedi in nota i dati delle iscrizioni e cancellazioni alle anagrafi comunali e delle nascite e dei decessi, ci limitiamo all’essenziale.[11]

Il caso di Torino è esemplare, anche se meno clamoroso di quello di Genova. Città Fiat e para-Fiat (oltre 600 mila dipendenti), Torino si è trasformata in una città senza più grandi industrie e loro indotto (fatto che è comune a tutta Italia e in particolare alle tre città del famoso triangolo industriale). Come in tutta la penisola, il boom della sua crescita si ha tra il censimento del 1951 (719.300 residenti) e quello del ’61 (1.025.822 +42,6%) e continua dopo sino al 1971 (+14%); in seguito inizia il declino, scendendo sotto il milione e poi sotto i 900 mila: 875.698 a fine 2018. In calo dal 2013, a fine 2018 Torino contava 875.698 residenti, dal 2002 ha avuto 529.677 nuovi iscritti alla sua anagrafe, 448.207 cancellati, 129.930 nascite e 165.661 decessi. Tra gli iscritti, si hanno 270.955 da altri comuni, 162.679 dall’estero e altri per correzioni dell’anagrafe; tra i cancellati, 338.685 per altri comuni, 28.039 per l’estero e altri per correzioni dell’anagrafe.

Dal primo censimento del 1861 sino a quello del ’71 la Liguria ha fatto registrare sempre una notevole crescita demografica grazie innanzitutto alle migrazioni interne nelle sue città industriali-portuarie, cioè Genova, Savona e La Spezia, assai valorizzate dal regno piemontese, dal fascismo e nel secondo dopoguerra (acciaierie, cantieri navali, porto commerciale, industria metalmeccanica ecc.). Ma la fine delle grandi e medie fabbriche e del vecchio porto ha provocato un crollo vertiginoso sia demografico che economico, culturale e politico. Il porto di oggi è quello dei container movimentati da gru e poco personale. Il turismo (in una città che non è mai stata turistica) si è lentamente affermato, ma si tratta di “mordi-e-fuggi” e dà pochi posti di lavoro spesso malpagati, precari e anche al nero. Insomma, la Liguria tendeva già da sempre a una bassa fecondità, ma questa dopo il ’71 ha rallentato ancora di più (cf. Arvati), mentre oggi i giovani liguri continuano a emigrare.[12]

Le speranze per il futuro di Genova e della Liguria sono scarse poiché il turismo non potrà mai offrire più dei pochi impieghi che già dà e le diverse attività economiche non sembrano poter avere alcuno sviluppo che sia in grado di offrire ai giovani un avvenire. L’epilogo della storia economica, sociale, culturale e politica di Genova è amaro; la ragione sta nel capolavoro catastrofico di chi ha governato la città dalla fine degli anni ’60 (la troika Opusdei, massoneria di destra e massoneria di “sinistra”).[13] Gli stranieri residenti a Genova al 1° gennaio 2019 sono 58.071, il 10,0% dei residenti.

Le regioni che invece negli ultimi 30 anni hanno conosciuto una relativa ripresa dell’aumento dei residenti sono innanzitutto la Lombardia, il Veneto, l’Emilia-Romagna e la Toscana. Il Veneto, dal 2002 al 2018, ha avuto 3.042.588 iscritti alle anagrafi dei suoi comuni e 2.537.675 cancellati, 739.648 nascite e 770.883 decessi. Il massimo del totale dei residenti si ha nel 2010, dopo un leggero calo. I residenti stranieri al 1° gennaio 2019 sono 501.085, cioè il 10,2% del totale residenti (in quasi continua crescita dall’inizio dell’immigrazione straniera), anche qui a dimostrazione che persino le zone a forte presenza leghista non possono fare a meno dell’immigrazione, che peraltro a volte sembra essere ben integrata per volere degli imprenditori che necessitano di manodopera stabile. L’Emilia-Romagna, dal 2002 al 2018, ha avuto una quasi continua crescita dei residenti, e tra questi degli stranieri (al 1° gennaio 2019 sono 547.537), 2.973.091 nuovi iscritti alle anagrafi e 2.233.746 cancellati, 645.215 nascite e 815.530 decessi, dei dati che confermano la dinamica di questa regione come quella della Lombardia e del Veneto, e in parte della Toscana.

 

Emigrati e immigrati: le vittime delle scelte liberiste di tutti i governanti locali, nazionali, europei e mondiali (di destra, centro ed ex-sinistra)

Come mostrano diverse ricerche degli ultimi trent’anni, in particolare in Francia, in genere gli immigrati (dell’interno e stranieri) hanno uno scarso tasso di partecipazione alle elezioni locali (quelli dall’estero non hanno neanche il diritto, tranne se naturalizzati, ma anche qui si tratta di una minoranza di essi che tende a votare come i cittadini locali, a volte con qualche preferenza in più per partiti del centro-sinistra). In altre parole, in generale gli immigrati dell’interno come quelli stranieri non hanno voce, non partecipano alla vita politica locale, cosa peraltro ormai ardua anche per i residenti da più lungo tempo vista l’eterogenesi della cosiddetta democrazia nell’era liberista. Da parte loro le amministrazioni locali non si sono mai mostrate interessate a sollecitare tale partecipazione, così come i comuni d’origine hanno finito per considerarli “cittadini persi”, tanto quanto hanno sempre fatto i governi nazionali rispetto agli emigrati all’estero, a parole corteggiati ma nei fatti abbandonati a loro stessi.

Solo in certi casi, sia per dinamica di gruppi immigrati, sia per interesse di qualche notabile politico si è avuta una certa partecipazione degli immigrati alle elezioni locali (vedi per esempio il caso dei cinesi che a Milano hanno sostenuto il sindaco Sala). Per quanto riguarda la partecipazione degli emigrati italiani all’estero alle elezioni dei loro rappresentanti negli appositi organismi o per le politiche (via posta), a parte brogli e manipolazioni varie, si registra sempre un assai scarso interesse, sebbene alcuni notabili giocano la “bilateralità dei riferimenti e la reversibilità delle scelte”.[14] Nei fatti, i politici locali (ma anche nazionali) non sono molto interessati alla partecipazione di tutti gli elettori anche perché preferiscono occuparsi solo di chi vota, e meglio se l’elettorato diminuisce.[15]

Da parte sua, in maniera più inconsapevole che consapevole, l’emigrato tende a pensare il comune e il paese di origine come il luogo in cui l’hanno fatto sentire “fuori posto” come se gli avessero detto “qua per te non c’è nulla, non ti resta che andar via”. Si ricordi la famosa frase di De Gasperi il 31 marzo 1949: «Imparate le lingue e andate all’estero; l’emigrazione potrà costituire per l’Italia, come nel passato, un’importantissima fonte di riequilibrio per la bilancia dei pagamenti; sarà eliminato il pericolo che un paese di circa 50 milioni di abitanti venga turbato e minacciato da disordini e da agitazioni, in gran parte dovuti al troppo basso tenore di vita e alla disoccupazione…». «In un rapporto riservato» del Ministero degli Esteri, l’esodo viene considerato «un elemento essenziale di riequilibrio economico – sociale e politico…». Su una popolazione attiva di circa 20 milioni, «almeno 4 milioni di persone, potenzialmente attive, possono ritenersi in eccesso rispetto alla struttura economica italiana».

Si auspica quindi «una adeguata emigrazione» e si aggiunge: «Naturalmente dovrebbe trattarsi di contingenti emigratori di portata il più possibile vasta e perché i loro effetti possano essere veramente apprezzabili il loro volume dovrebbe essere anche superiore a quello che è stato possibile prevedere». La Costituzione aveva stabilito, un anno prima, che l’emigrazione avrebbe dovuto essere «una libera scelta» ma il governo decideva di fare ricorso alla «valvola di sfogo» che sfruttava anche l’aspirazione all’emancipazione da parte di milioni di persone non più disposte a sopportare il dominio mafioso e quasi schiavista in diverse zone d’Italia dal Nord al Sud.[16]

Alle amministrazioni locali e nazionali fa comodo che persone che “non si trovano una sistemazione” se ne vadano, tanto si sa che quantomeno una parte torna, manda soldi a casa, compra prodotti del paese. Certo, se tutti gli emigrati restassero nel loro comune di origine sarebbe un bel problema soddisfare le richieste di indennità di disoccupazione, spese sanitarie e sociali ecc.

Tante autorità e la maggioranza dei cosiddetti opinionisti non mancano di sparlare del problema del declino demografico e di versare lacrime di coccodrillo sia sui nostri giovani che emigrano, sia sul maltrattamento degli immigrati stranieri. Ma il paradosso di un paese di emigrati e di immigrati è palesemente apparente: chi emigra è perché non vuole fare lavori umilianti, malpagati e a rischio per la salute, anche se spesso finisce per farli là dove emigra proprio perché il liberismo impera dappertutto e si fonda sulla negazione dei diritti dei lavoratori e sul loro trattamento come usa-e-getta.

Gli immigrati stranieri non mancano vista la distruzione delle loro società di origine da parte delle multinazionali anche italiane, e servono bene come manodopera inferiorizzata e schiavizzabile al posto di chi emigra. Ma nessun governo osa programmare un effettivo risanamento e una regolarizzazione delle economie sommerse che sono lavoro nero, semi-schiavitù, caporalato, collusioni con le mafie, evasione fiscale e corruzione di parte delle agenzie di prevenzione e controllo e delle forze di polizia. Non è vero che non si può creare un’economia sana e regolare, cioè legale, ma chi trae profitto dal sommerso pesa sulle scelte dei governanti e si tratta di un elettorato vasto (come dice qualcuno sono quasi 10 milioni gli elettori che beneficiano delle economie sommerse, e nessun partito osa schierarvisi contro).

Il cosiddetto “declino demografico italiano” è un prodotto del liberismo che fa emigrare e riduce la maggioranza degli immigrati a condizioni di vita e di lavoro indecenti. Questa è la faccia del neocolonialismo che si riflette anche all’interno dei paesi cosiddetti ricchi a danno di emigrati e immigrati.

 

Un caso emblematico di un piccolo paese e della Sicilia

Molti sono convinti che San Cono sia un comune che gode di una notevole riuscita economica, in particolare grazie alla coltivazione dei fichi d’India. Anche in qualche ricerca sul calatino (area di Caltagirone) si afferma che San Cono non debba essere considerato come comune economicamente depresso, fatto che invece colpisce San Michele di Ganzeria, Mirabella Imbaccari e altri comuni della zona. Ma se questa valutazione fosse corretta, la vera riuscita economica dovrebbe andare a beneficio della maggioranza della popolazione e dovrebbe quindi quantomeno limitare l’emigrazione di giovani e meno giovani. Invece, a San Cono, solo una minoranza di imprenditori agricoli ha effettivamente avuto una buona riuscita, seppur con grandi difficoltà e sebbene per nulla stabile, nonostante abbiano ampliato in misura considerevole la loro proprietà e le terre coltivate anche in affitto. Vi è poi un’altra minoranza che sembra godere di una sorta di riuscita economica “drogata”, perché dovuta a finanziamenti di progetti fasulli che hanno consentito ai beneficiari di acquistare auto tipo SUV e altri mezzi con il rischio di trovarsi poi indebitati, mentre non hanno avviato alcuna attività.

Allo stesso tempo vi è stato un aumento molto forte dell’emigrazione e in generale un declino demografico piuttosto preoccupante. Secondo i dati Istat, a fine 2018 i residenti a San Cono erano circa 2.600, di cui quasi 300 immigrati stranieri regolari (e forse almeno altri 100 irregolari e ancora centinaia di irregolari per i lavori periodici di raccolta di fichi d’India e altri frutti). Si può stimare che altre circa 300 persone siano emigrate senza aver cambiato residenza, mentre oltre 1.900 risultano iscritte all’AIRE (Anagrafe Residenti all’Estero – dato fornito dal Comune in maggio 2019). In altre parole, i residenti a San Cono stanno per diventare meno numerosi degli emigrati all’estero e in altri comuni d’Italia, notoriamente al Nord.

La maggioranza dei giovani tende a emigrare. Secondo alcuni perché non vogliono fare i lavori pesanti o umilianti nelle piantagioni di fichidindia anche se spesso finiscono per svolgere attività al semi-nero o al nero e altrettanto pesanti e umilianti al Nord e all’estero. In realtà, l’economia dei fichi d’India sembra produrre poche occasioni di impiego accettabile e stabile. La maggioranza dei residenti è composta da pensionati, e le persone che hanno oltre 65 anni sono più del doppio di quelli che hanno da 0 a 14 anni; quest’anno a San Cono si è arrivati a stento ad avere il numero sufficiente per costituire una prima elementare.

Il successo dei fichi d’India corrisponde quindi sia a una forte emigrazione, sia a un’immigrazione solo in parte regolare ma anche in parte assai irregolare, cioè di ragazzi che lavorano al nero e magari vivono nei casolari in campagna in condizioni di indigenza, venendo pagati con salari miserabili.

Manca una ricerca seria per implementare attività di trasformazione delle risorse naturali per produrre prodotti ecosostenibili e benefici per l’ecosistema, quali cosmetici naturali, prodotti biologici e in particolare una diversificazione indispensabile per non far deteriorare l’ecosistema. Il biomimetismo, gli allevamenti biologici, le relazioni fiduciarie tra produttori e consumatori potrebbero permettere una distribuzione alternativa dei prodotti, evitando le logiche del mercato dominato dalla grande distribuzione. Bisognerebbe incentivare i giovani a specializzarsi in scienze della terra, biologia, marketing, agronomia, tutte competenze che non siano finalizzate solo a una produttività per il profitto immediato e individuale, ma a un insieme di saperi e conoscenze che servano alla prosperità di tutti e alla posterità, cioè al futuro.

La situazione di San Cono può essere considerata un caso estremo di questo paradosso che consiste in una riuscita economica di pochi e di una quasi estinzione del comune. In realtà altri comuni sono colpiti dallo stesso fenomeno in Sicilia e in tutta Italia. In Sicilia si hanno oscillazioni poco rilevanti, ma vi era un aumento sino al 2013 (5.094.937), seguito da una continua diminuzione, sino a passare un po’ sotto i 5 milioni nel 2018. In realtà vi sono alcune provincie in cui la popolazione sembra aumentare, altre che hanno un andamento irregolare ma con scarse variazioni, e altre ancora che diminuiscono senza discontinuità. L’aumento di popolazione corrisponde alle note zone di produttività che si nutre spesso di immigrazione straniera o anche da altri comuni, puntando spesso sui bassi salari o sul lavoro in nero (provincie di Ragusa, Siracusa, in parte Trapani e in parte Catania), mentre vi è un declino in quelle di Caltanissetta, Agrigento, Enna e Messina, sebbene dappertutto siano prolificate le serre.

 

Conclusioni

Incrociando una pluralità di dati statistici spesso trascurati se non ignorati, questo testo ha voluto mostrare che la questione del XXI secolo non riguarda né l’aumento che si pretende essere incontrollato della popolazione dei paesi più disastrati, né le sole migrazioni da questi paesi verso i più ricchi.[17] In realtà tutti i paesi del mondo – e anche i più ricchi – sono diventati paesi di emigrazione, immigrazione e transito, e questo vale ancor di più per tutte le città nelle quali si concentra ormai sempre più la maggioranza della popolazione mondiale. Si osserva, infatti, che c’è un forte e continuo spostamento di popolazione all’interno di ogni paese oltre che verso l’estero, ossia una perpetua mobilità umana che supera quelle assai rilevanti conosciute sin dalla fine del XIX secolo e poi dopo la Prima e, ancor di più, la Seconda guerra mondiale.

In altre parole, così come le grandi migrazioni del passato sono state correlate ai grandi cambiamenti economici e sociali, che sono sempre anche culturali e politici, quelle di oggi sono palesemente consustanziali all’ultima grande trasformazione. Com’è noto, si è trattato del trionfo della cosiddetta rivoluzione liberista che nei paesi “ricchi” ha provocato un vasto smantellamento delle grandi unità produttive e quindi di tutte le attività e del mercato del lavoro. Si è quindi innescato un processo di sviluppo di attività instabili, precarie, discontinue, eterogenee, che costringe quindi i lavoratori a spostarsi continuamente insieme a queste attività o alla ricerca di nuovo impiego che spesso è sempre precario (il lavoro e la società “dalla culla alla tomba” sono quasi del tutto estinti).

In questo contesto, ciò che prevale è la logica della massimizzazione dei profitti, e quindi la diffusione di impieghi non solo precari o al semi-nero e al nero, ma anche mal remunerati, nocivi e umilianti, ossia lavori che gli autoctoni tendono a rifiutare emigrando e che i datori di lavoro non intendono migliorare poiché possono super-sfruttare immigrati provenienti da zone ancora più disperate. In altre parole, il sistema liberista si nutre di emigrazione e di immigrazione. Questo fatto è particolarmente eclatante nel caso italiano, in cui si osserva tanta immigrazione interna verso le aree che offrono più impieghi, anche se molto spesso instabili e poco gratificanti, tanta emigrazione verso l’estero e allo stesso tempo una immigrazione straniera non trascurabile che in alcuni casi occupa addirittura la maggioranza dei posti di lavoro rifiutati dagli emigrati (e questo vale in Sicilia e nel Sud, così come nelle province del Nord). Infine, una nota che stona rispetto al discorso generico sul declino demografico: non si direbbe che si tratti di questo se si prendono in considerazione il dato dell’emigrazione all’estero e la stima della fecondità delle emigrate che diventano più numerose dei maschi. Appare allora più ragionevole pensare che l’universo delle diverse migrazioni non è ancora abbastanza esplorato con adeguato approccio pluridisciplinare diacronico e sincronico e con opportuni confronti tra i diversi casi; ha sempre una funzione specchio proprio perché si tratta di un fatto politico totale.

Note
[1] Appare quindi falsante la cosiddetta equazione di Kaya secondo cui la popolazione (POP) sarebbe uno dei fattori-chiave delle emissioni di CO2, combinato al contenuto in CO2 dell’energia consumata (TEP), all’intensità energetica dell’economia (PIL) e alla produzione per individuo.
[2] Cf. S. Palidda, La guerra alle migrazioni ovvero la sussunzione di tutti i disastri della deriva neo-liberista: il fatto politico totale, «Effimera», 19 settembre 2018.
[3] Sulla storia delle migrazioni italiane si veda in particolare, per quanto riguarda quelle interne, l’eccellente saggio di M. Sanfilippo, Genèse des migrations internes à la péninsule italienne: du 18e au début du 20e siècle; vedi anche saggi sul sito https://www.asei.eu/it/ e i volumi di S. Rinauro, Colucci M. & Gallo S. (cur.), e sulle emigrazioni italiane i “classici” a cura di P. Bevilacqua, E. Franzina, A. De Clementi e altri ancora, tra cui Mobilità umane.
[4] Cf. dati Istat 2019.
[5] Si veda in proposito la statistica riportata su tuttitalia.it.
[6] Si veda qui.
[7] Si veda qui.
[8] Si veda Socialità e inserimento degli immigrati a Milano. Una ricerca per l’Ufficio Stranieri del Comune di Milano, Franco Angeli, Milano, 2000, pt. 1pt. 2.
[9] Fonte Istat; dati dei censimenti (dal 1961 in poi i residenti degli altri comuni superano quelli di Milano città. Dal ’71 in poi i residenti dei capoluoghi diminuiscono passando da 2.509.004 nel ’71 a 2.370.607 nell’81, a 2.077.652 nel ’91). Sino al 1991 qui citato la provincia di Milano comprendeva anche quelle di Lodi, Lecco e Monza.
[10] Mia elaborazione a partire dalle statistiche del comune e dell’Istat con una piccola stima per i dati dal ’97 al 2002. Attenzione: tra i cancellati e gli iscritti possono figurare le stesse persone che più volte sono andate via e poi sono tornate (non è casuale che anche le forze di polizia pubblichino dati molto alti delle persone identificate durante correnti controlli di strada o posti di blocco poiché non fanno una cernita per eliminare gli stessi nomi; si tratta spesso di persone che passano dallo stesso posto e sono controllate da operatori di polizia diverse volte). Inoltre, dal 2002 al 2018, si sono avute 203.852 nascite e 232.811 decessi.
[11] Dal 2002 al 2018 si hanno quindi 2.937.350 nuovi iscritti alle anagrafi dei comuni piemontesi e 2.456.500 cancellati, 609.884 nascite e 847.649 decessi. Gli stranieri residenti in Piemonte al 1° gennaio 2019 sono 427.911, cioè il 9,8% del totale dei residenti. Tra gli iscritti vi sono (dati parziali) 2.182.582 da altri comuni italiani e 512.850 dall’estero (altri per correzioni dell’anagrafe); tra i cancellati, 2.131.426 per altri comuni italiani, 123.707 per l’estero e altri per correzioni dell’anagrafe.
[12] Al censimento del ’71 erano stati censiti 1.853.578 residenti, a fine 2018 se ne contano 1.550.640. Gli stranieri residenti in Liguria al 1° gennaio 2019 sono 146.328, cioè il 9,4% della popolazione residente. Il più forte calo si è avuto a Genova (ma anche in tutta la sua provincia): al censimento del ’71 si contavano 816.872 residenti (ma probabilmente insieme ai non registrati all’anagrafe e ai pendolari si oltrepassava il milione; a fine 2018 se ne contano 578.000, e tra questi vi sono molti emigrati non registrati. Inoltre, si ha il più alto tasso di mortalità d’Italia, per buona parte a causa dell’alta quota di anziani, ma anche per le diverse malattie da contaminazioni tossiche tra cui le morti per amianto (dal 2002 al 2018: 73.431 nascite e 139.678 decessi).
[13] Cf. S. Palidda, Genova. Una storia di glorie e di crimini politici a danno degli abitanti e del territorio, «Academia.edu».
[14] Cf. Mobilità umane S. Palidda, Catani, antropologo-etnografo dell’emigrazione-immigrazione (con annotazioni su similitudini e differenze rispetto a Sayad.
[15] Qualche curiosità: la maggioranza degli iscritti all’AIRE si trovano in Europa (2.767.926) e nelle Americhe (2.059.422). La più alta presenza di italiani è in Argentina, con 819.910 iscritti, segue la Germania (743.622) e poi la Svizzera (614.996). La regione dove si evidenzia il numero più elevato di emigrati regolare secondo l’AIRE è la Sicilia (755.947), seguita dalla Campania (495.890), dalla Lombardia (473.022) e dal Lazio (450.847). Può stupire il dato della Lombardia e del Lazio ma si tratta di regioni di transito, cioè luoghi di immigrazione da dove si ri-emigra. Le province con il maggior numero d’italiani iscritti all’AIRE sono Roma, con 352.200 iscritti, Cosenza (167.939), Agrigento (154.979), Napoli (136.923), Salerno (135.878) e Milano (135.144). Questi dati mostrano che le grandi città sono in testa quali luoghi di transito. Per quanto riguarda l’età, gli iscritti di età compresa tra i 41 e i 60 anni sono 1.457.507, di cui 797.078 maschi e 660.429 femmine, segue di poco la fascia di età compresa dai 21 ai 40 anni: 1.454.232, di cui 766.373 maschi e 867.859 femmine (è significativo l’alto numero di donne giovani che anche in questo manifestano volontà di emancipazione). Gli iscritti all’estero di sesso maschile sono in totale 2.655.147 (52%), mentre quelli di sesso femminile sono 2.459.322 (48%), in altre parole sono finiti i tempi in cui emigravano solo gli uomini soli, e l’emigrazione si conferma come aspirazione all’emancipazione.
[16] Cf. L’Italia, l’emigrazione e il De Gasperi “dimenticato”, «Brescia Oggi», 19 ottobre 2015.
[17] Su questi aspetti macro e micro si veda anche qui.

Palidda SalvatoreSalvatore (Turi) Palidda, professore associato di Sociologia presso l’Università degli Studi di Genova, ha condotto ricerche su military and police forces affairs e sulle migrazioni per più di tredici anni presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi e il Cnrs francese e poi in Italia dal 1993. E’ stato esperti presso l’Ocse, ricercatore per la Fondation pour les Études de Défense Nationale, per l’Institut des Hautes Études pour la Sécurité Intérieure, per il Forum Europeo per la Sicurezza Urbana, è autore di oltre 70 pubblicazioni in lingue straniere e oltre 80 in italiano. Tra le altre si segnalano: Polizia postmoderna (2000); Mobilità umane (2008); Sociologia e antisociologia (2016) e  Resistenze ai disastri sanitari, ambientali ed economici nel Mediterraneo (2018).

 

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