La strategia di lunga durata del Pci
Una “guerra di posizione” che approda a risultati importanti. La stagione del centro-sinistra, la vicenda del Pci fatta a pezzi.
La storia del Partito comunista italiano, di cui il 21 gennaio 2021 si è celebrato il centenario della fondazione, è stata da sempre oggetto, oltre che di una storiografia spesso straordinaria (si pensi a Paolo Spriano ed Ernesto Ragionieri), anche di molte letture deformanti, viziate dal pregiudizio ideologico quando non dalla vera e propria incomprensione. Tale tipo di revisionismo storico applicato a una vicenda grande e complessa come quella del Pci ha conosciuto ovviamente una nuova fioritura dopo il 1989-91, trovando nuovi adepti a destra ma anche a sinistra.
La fine non esaltante del Pci, avviata dalla svolta occhettiana della Bolognina, a indotto molti a rileggere in negativo tutta quella storia, oppure a individuare questo o quel “peccato originale”, da cui sarebbe iniziata – come un processo inevitabile – la dissoluzione del partito: la “svolta di Salerno” del 1944, il “compromesso storico” ecc. La conseguenza è che la vicenda del Pci viene “fatta a pezzi”, assumendone solo alcune parti e liquidando il resto.
Non si tratta, a mio parere, di un metodo adeguato alla conoscenza storica e nemmeno al giudizio politico. Non perché, ovviamente, nell’esperienza del Pci non vi siano stati errori, debolezze, passaggi discutibili, o non si possa criticare questa o quella scelta; ma perché utilizzando tale metodo si rischia di smarrire un elemento fondamentale, che è quello della organicità dell’esperienza del comunismo italiano e di quell’italo-marxismo che ha in Gramsci e in Togliatti i suoi pilastri, ma segna di sé tutta la cultura politica e la strategia di lunga durata del Pci.
Questa cultura politica e questa strategia che connotano il comunismo italiano, delineando anche quei tratti di originalità che hanno contribuito a fare del Pci il maggiore partito comunista del mondo occidentale e tra i più importanti nel mondo, hanno i loro cardini in alcuni elementi fondamentali. Il primo è senza dubbio il rapporto democrazia-socialismo, e dunque la teoria e la strategia gramsciana dell’egemonia come ispirazione e scelta di fondo per la “rivoluzione italiana”.
Quello che Lucio Magri definisce nel suo bellissimo libro Il sarto di Ulm il «genoma Gramsci», come peculiarità originaria del comunismo italiano[1], si ritrova – naturalmente non in modo lineare, ma in un rapporto dialettico in cui non mancano scarti e differenze anche significative – nel contributo di Togliatti negli anni Trenta (in particolare nella svolta dei Fronti popolari), nella sua successiva elaborazione sulla “via italiana al socialismo”[2], che esplicita il nesso tra socialismo e democrazia, sviluppato poi da Luigi Longo – che dirige il Pci proprio negli anni in cui tale nesso diventa più stringente[3] – e da Enrico Berlinguer, che in qualche modo lo porta alle estreme conseguenze[4].
È possibile dunque individuare una linea di continuità, una organicità di elaborazione, che, muovendo dall’idea gramsciana della “rivoluzione in Occidente” e dalla strategia dell’egemonia, giunge appunto alla via italiana come “via democratica al socialismo”, che – come Togliatti chiarì ripetutamente – non è mera via parlamentare ma qualcosa di molto più articolato e complesso[5].
LA POLITICA DELLE ALLEANZE
Alla questione della democrazia e del suo rapporto col socialismo come filo rosso di tale elaborazione[6] si legano altri elementi decisivi: il protagonismo delle masse e la dimensione di massa dell’azione politica (che si rifà allo stesso Lenin, secondo il quale la politica inizia dove si muovono “milioni di uomini”), la costruzione di un “blocco storico” che affianchi alle forze sociali e alle trasformazioni nella struttura sociale adeguati schieramenti e mutamenti sul piano sovrastrutturale (culturale, politico e istituzionale), la conseguente politica delle alleanze sul terreno sociale e su quello politico, una concezione unitaria e anti-settaria volta al “fare politica” e al non separarsi dalle masse in tutte le situazioni, comprese quelle più proibitive, lasciandosi definitivamente alle spalle la fase del massimalismo parolaio e della mera denuncia dei mali del capitalismo tipici dell’“apostolato socialista”, così come lo sterile settarismo bordighiano che connotò i primi anni di vita del partito; e infine, l’idea del partito come “moderno Principe”, agente fondamentale della trasformazione e dunque, necessariamente, intellettuale collettivo.
Al centro è sempre il tema leniniano del potere (e quindi anche del governo), dell’accesso al potere dei subalterni, e delle nuove forme che il processo di transizione al socialismo e di costruzione di una società socialista possono o devono assumere in un paese europeo relativamente avanzato come l’Italia, e più in generale in Europa e nell’Occidente capitalistico.
UN DIFFICILE PROCESSO DI APPRENDIMENTO
La particolare originalità dell’elaborazione dei comunisti italiani è frutto ovviamente non solo della straordinaria levatura intellettuale dei loro leader storici Gramsci e Togliatti, ma anche del doloroso processo di apprendimento – per usare una feconda categoria losurdiana – che il contesto storico nel quale erano immersi comportò. La sconfitta della grande ondata del Biennio rosso, la controffensiva reazionaria e l’avvento del fascismo costituirono un insieme di lezioni che saranno sempre presenti ai dirigenti del Pcd’I e poi del Pci. Non a caso, se nel 1920-21 l’elaborazione dei leader della frazione e poi del Partito comunista era segnata in massima parte da quello che Gramsci chiamerà lo “spirito di scissione”, già nella riflessione collettiva che il gruppo dirigente ex ordinovista condusse nel 1923-24[7], preparandosi a sostituire la direzione bordighiana, si trovano elementi centrali anche per l’evoluzione successiva del partito: la critica al settarismo di Bordiga, che aveva impedito qualsiasi azione unitaria dinanzi alla marea montante dello squadrismo (si pensi al rifiuto di partecipare al movimento degli Arditi del popolo, preferendo costituire squadre di difesa unicamente di partito), e dunque la decisa volontà di superarlo una volta per tutte, si accompagna a una valutazione positiva dell’ipotesi di fusione coi socialisti su cui ora insiste l’Internazionale comunista. Gramsci in particolare rileva il “valore politico della fusione”, possibile contromisura rispetto al progetto della reazione di rendere nuovamente il proletariato italiano “disperso, isolato, individui, non classe che sente di essere una unità e aspira al potere”, e rilegge la stessa scissione di Livorno – minoritaria a causa dell’impostazione data da Bordiga e non maggioritaria come avrebbe voluto l’Internazionale – come un “trionfo della reazione”, avendo comportato “il distacco della maggioranza del proletariato italiano dall’Internazionale comunista”[8]. Al di là del giudizio su Livorno, sorprendente e perfino ingeneroso, l’elemento essenziale è che, a partire da quei mesi di amara riflessione autocritica, il gruppo dirigente comunista fa sua fino in fondo la direttiva di Lenin e del Comintern di lavorare per la conquista della maggioranza del proletariato italiano e per dare alla propria azione la dimensione e il respiro di massa che la linea del fronte unico varata dall’Internazionale implicava. Solo diventando maggioritari, insomma, i comunisti italiani sarebbero stati, letteralmente, dei bolscevichi, e per faro occorreva una linea aperta, coraggiosa, non settaria: è il contrario della concezione bordighiana del piccolo partito “duro e puro”, una svolta radicale da cui il Pcd’I e poi il Pci non torneranno mai più indietro.
Non a caso, è nello stesso carteggio del gruppo ordinovista che Gramsci delinea per la prima volta la sua idea di “rivoluzione in Occidente”[9]. Pochi mesi dopo, in un rapporto al CC, pone un duplice obiettivo: la «conquista della maggioranza dei lavoratori» e la «trasformazione molecolare delle basi dello Stato democratico». Per Gramsci, il fascismo «ha contribuito ad allargare e approfondire il terreno della rivoluzione proletaria, che dopo l’esperimento fascista sarà veramente popolare»[10].
Il problema dell’egemonia si pone dunque su due piani, ossia su quello interno al proletariato e su quello più complessivo del confronto tra le classi. I due aspetti sono legati, e il loro intreccio costituisce il nucleo della “rivoluzione in Occidente”, nella quale è posta già alla radice la questione del rapporto tra democrazia e socialismo. Il tema torna nella proposta di Assemblea costituente che Gramsci lancia durante la crisi Matteotti come possibile piattaforma di tutte le opposizioni antifasciste[11], che poi diventa l’«Assemblea repubblicana sulla base dei Comitati operai e contadini” volta a organizzare “tutte le forze popolari antifasciste e antimonarchiche»[12].
Sorto con l’obiettivo di realizzare anche in Italia una rivoluzione proletaria immediatamente socialista, il Pcd’I capisce che non si può lavorare con una sola prospettiva: la cosa «più probabile» – si scrive nel ’27 – è che il fascismo sparirà «sotto i colpi di una rivoluzione popolare degli operai e dei contadini alleati ad alcuni strati delle classi medie [...] che il nostro partito deve sforzarsi di sviluppare in rivoluzione proletaria»[13]. Togliatti, dal canto suo, afferma: “La rivoluzione proletaria non è un fatto isolato, ma un processo [...]. Ogni rivoluzione, per essere vittoriosa, deve essere popolare, deve avere cioè il concorso delle grandi masse popolari”: di qui la ricerca sulle “forze motrici della rivoluzione antifascista” avviata con le Tesi di Lione[14].
TOGLIATTI E LE LEZIONI SUL FASCISMO
Fin dagli anni Venti, dunque, i comunisti italiani si impegnano nell’analisi di classi sociali e spezzoni di classi con cui il proletariato avrebbe potuto allearsi per rovesciare il fascismo. Al tempo stesso, pur nelle condizioni della clandestinità, il Pcd’I lotta per tenere in vita l’ispirazione di massa della sua politica e per non essere del tutto separato dai lavoratori, non solo tenendo in vita ove possibile gli organismi di classe – cellule di partito e sindacali, Cgl rifondata, Soccorso rosso ecc. – ancorché illegali, ma anche lavorando all’interno delle organizzazioni di massa del regime sulla base della “direttiva entrista” che ha il suo primo ispiratore in Togliatti, il quale nelle Lezioni sul fascismo ne chiarirà il senso, ribadendo la necessità di porsi al livello della politica di massa portata avanti dal regime. Facendo leva sui bisogni materiali dei lavoratori, portando alla luce le contraddizioni nei sindacati fascisti, i comunisti riescono – sia pure per piccoli segmenti – a tenere viva la coscienza di classe e in alcuni casi anche a mobilitare, conquistando al partito gli elementi più vivaci del proletariato.
Intanto, inviato dal Comintern in Spagna durante la guerra civile, Ercoli affina la sua idea del nesso socialismo-democrazia. Ragionando Sulle particolarità della rivoluzione spagnola, osserva che si è di fronte a «una rivoluzione che possiede la più larga base sociale» – operai, salariati agricoli, contadini, vasti settori della piccola borghesia, nazionalità oppresse come i baschi e i catalani ecc. –; si tratta dunque di «una rivoluzione popolare [...] nazionale [...] antifascista». «I compiti della rivoluzione democratico-borghese [...] – osserva – il popolo spagnolo li risolve oggi in modo nuovo», costruendo una «repubblica democratica» che “non rassomiglia a una repubblica democratica borghese del tipo comune”, poiché nasce “nel fuoco di una guerra civile nella quale la parte dirigente spetta alla classe operaia” col fascismo “schiacciato dal popolo con le armi” e la sua “base materiale” distrutta, cancellando il latifondo e nazionalizzando molte imprese. È dunque una “democrazia di nuovo tipo”, che “possiede tutte le condizioni che le consentono di svilupparsi ulteriormente”[15].
Nella riflessione sulla Costituente degli anni Venti e sulla democrazia di tipo nuovo degli anni Trenta vi sono quindi le basi dell’impostazione unitaria data dai comunisti alla lotta di liberazione nel 1943-45: da Longo e Secchia alla guida delle Brigate Garibaldi e della Direzione Nord del partito, come dal Togliatti della svolta di Salerno. Se le classi dominanti reagiscono col fascismo al progresso democratico, allora è il movimento operaio a prendere nelle sue mani la bandiera della democrazia, non per restaurarne le vecchie forme, né per proporre meccanicamente i soviet, ma per costruire, nelle condizioni dei paesi in cui questo processo si sviluppa, una democrazia antifascista, popolare e progressiva, caratterizzata da un profondo mutamento nel rapporto di forza tra le classi e nei rapporti di proprietà, dal nuovo ruolo dello Stato nell’economia, da una partecipazione e da un controllo democratico diffusi, in primo luogo attraverso i partiti di massa.
È questa l’impostazione che il Pci di Togliatti sviluppa nel secondo dopoguerra, in un contesto che presenta nuove possibilità – per il mutamento nei rapporti di forza sociali e la fine dello Stato mono-classe conseguenti alla vittoria della Grande alleanza antifascista – ma anche un limite preciso, che si rivela a partire dal 1947, allorché la fine di quella alleanza è ormai acquisita e si vanno definendo la divisione del mondo in blocchi e l’appartenenza dell’Italia al campo occidentale atlantico. Tuttavia, la rivoluzione democratica avviata dalla Resistenza consegue il suo ultimo successo nell’approvazione di una Costituzione che è, appunto, programmatica, democratico-progressiva, e che delinea un modello di economia mista e di democrazia di massa fortemente innovativo, che può aprire le porte a trasformazioni ulteriori.
LA STRATEGLIA DI "LUNGA LENA"
La rottura dell’alleanza antifascista, l’espulsione dal governo e i tentativi di marginalizzazione del Pci messi in atto dal 1948 costringono i comunisti a una lunga “guerra di posizione”, a puntare tutto sul rafforzamento e la crescita del partito nuovo e sulla costruzione dell’egemonia nella società, attraverso quel sistema di trincee e casematte che ora sono i Comuni rossi, le cooperative, le Camere del lavoro, gli organismi di massa collaterali. È una strategia di lunga lena che, a prezzo di dure lotte e di un grande sforzo collettivo, approda a risultati importanti. Quando si rompe l’equilibrio centrista e inizia la stagione del centro-sinistra, il Pci non fa un’opposizione preconcetta ma tallona il governo sfidandolo a realizzare le riforme e presentando proprie proposte di legge in ogni campo. L’elemento che le tiene assieme è il tentativo di cambiare i rapporti di forza nella società, stimolando forme di gestione e controllo da parte dei lavoratori organizzati in gangli vitali della società: l’impresa pubblica e le Partecipazioni statali, gli enti previdenziali, il collocamento, la sanità, fino ad arrivare a scuola, Università e Rai-Tv. La prospettiva è quella di una democratizzazione avanzata dello Stato e della società, che allude a un sistema sociale nuovo, a un processo di transizione adeguato a un paese a capitalismo avanzato. Sono questi, in un contesto diverso, gli “elementi di socialismo” di cui parlerà Berlinguer, e che tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta – con la crescita della proprietà pubblica nell’economia, l’avvio di un moderno sistema di Welfare, ma anche con la democrazia diffusa del sindacato dei consigli, dei comitati di quartiere, dei consigli di zona e di quelli di istituto ecc. – iniziano a diventare visibili.
A questo punto per il Pci si pone la necessità di portare la strategia egemonica, che sul piano sociale ha raggiunto un livello molto avanzato, dalla società allo Stato, tornando a porre il problema della partecipazione al governo del Paese. I successi elettorali rafforzano tale opzione; alla metà degli anni Settanta la questione comunista è in Italia la questione politica fondamentale. Lo stesso contesto internazionale, in cui l’assetto bipolare non appare più così stabile, induce Berlinguer a ritenere che ora sia possibile avviare la seconda tappa della rivoluzione antifascista dopo quella del 1943-47[16]. E a chi, come Luigi Pintor, già nel 1969 contestava questa impostazione (“non ci serve uno schieramento gelatinoso e sfilacciato, una indefinita nuova maggioranza”), Berlinguer aveva risposto con nettezza: “In questo modo di porre la questione non c’è niente di leninista, di gramsciano. Sia Lenin che Gramsci hanno insegnato […] che il partito […] deve saper utilizzare […] tutte le gelatinosità e tutte le occasioni […] per accelerare la marcia dei lavoratori”[17].
La strategia del compromesso storico di Berlinguer muove peraltro da una impostazione simile a quella che aveva esplicitato Togliatti difendo la via democratica al socialismo dinanzi alle critiche cinesi. Se all’epoca “il Migliore” aveva sottolineato la possibilità di “sviluppare il movimento delle masse con tale ampiezza che i gruppi dirigenti ne siano paralizzati e si apra la prospettiva di radicali mutamenti [...] per via democratica”[18], dodici anni dopo Berlinguer osservava:
In Italia, per salvare la democrazia e per realizzare un generale rinnovamento della società [...] sono necessarie grandi lotte [...] e un impegno delle più varie energie popolari. Proprio perché a tale rinnovamento si oppongono gruppi economici e politici ristretti ma assai potenti e aggressivi, è indispensabile isolarli, impedire che essi abbiano basi di massa: ecco perché noi sosteniamo che si deve creare una grande maggioranza che comprenda tutte le forze popolari e democratiche.
La “meta” finale rimaneva quella di “realizzare l’avvento del movimento operaio nel suo insieme alla direzione politica della società e dello Stato”[19].
LA STRATEGIA DELLA TENSIONE
Il tentativo attuato dal Pci in quegli anni si svolge peraltro in un contesto molto complicato: crisi economica, inflazione galoppante, strategia della tensione e infine quella violenza politica diffusa messa in atto da chi, ritenendo di portare lo scontro “a un livello più avanzato”, contribuì invece a ricondurlo su un piano più arretrato, inducendo anche il Pci alla mera difesa della democrazia repubblicana. È una fase che meriterebbe un notevole approfondimento, che qui non è possibile fare. Ciò che è certo è che la strategia di Berlinguer creò una situazione di allarme in tutte le cancellerie occidentali, dall’amministrazione Kissinger, fortemente preoccupata del binomio “comunismo più libertà” sottesa a quella ipotesi[20], agli altri governi del G7, che al vertice di Puerto Rico del 1976, lasciando Moro fuori dalla porta, concordarono aspre ritorsioni sul terreno finanziario qualora il Pci fosse entrato nel governo[21]. Lo scontro che si delineò in quei mesi raggiunse quindi livelli molto aspri, cosa di cui tuttora non c’è una consapevolezza diffusa. Un Pci del 34% all’interno di un governo di un paese occidentale strategico come l’Italia, poco dopo la sconfitta Usa in Vietnam e la caduta degli ultimi regimi fascisti in Europa, avrebbe potuto avere conseguenze di carattere globale.
Ciò nonostante, il dialogo tra Berlinguer e Moro (oltre che con De Martino e La Malfa) proseguì. Moro, che era stato già artefice dell’ingresso dei socialisti nel governo vent’anni prima, giunse infine a convincere i gruppi parlamentari della Dc sull’ingresso dei comunisti nella maggioranza. Certo, le incognite erano ancora molte e la nuova compagine di governo che si profilava appariva deludente, e tuttavia nessuno sviluppo ulteriore fu possibile a seguito del rapimento e poi dell’omicidio dello stesso Moro. Si tratta di un evento che cambiò radicalmente l’agenda politica del Paese, segnando la fine del tentativo di dare alla “rivoluzione democratica e antifascista” una seconda tappa e una seconda occasione. Per molti studiosi, la gestione di quell’evento da parte degli apparati dello Stato e dei poteri opachi che vi parteciparono si configura come una sorta di golpe bianco[22], qualcosa che ha bloccato sul nascere un percorso che certo non sappiamo come si sarebbe sviluppato, ma avrebbe potuto avere esiti anche molto significativi.
Dopo quei fatti, l’esperienza della “solidarietà democratica” divenne per il Pci un tentativo dovuto, ma al tempo stesso una sorta di gabbia, con la Dc e altre forze che agivano con l’obiettivo di separare i comunisti dalla loro base popolare; obiettivo che per il contesto oggettivo, ma anche per errori soggettivi, ingenuità e limiti di politicismo che poi lo stesso Berlinguer riconoscerà, fu in parte conseguito, sebbene proprio in quei mesi furono varate alcune tra le più importanti riforme della storia repubblicana, dall’equo canone al Servizio sanitario nazionale, dalla legge sul trasporto pubblico locale alla legge 180, mentre salari operai e prodotto interno lordo ripresero a crescere[23].
Chiusa quella stagione con l’uscita dalla maggioranza, il Pci scelse la linea dell’alternativa democratica, da costruirsi nella società prima ancora che tra le forze politiche. Tuttavia, la controrivoluzione neoliberista globale era ormai in pieno svolgimento, assieme a quel superamento del fordismo che contribuì a togliere a sindacati e partiti operai il terreno sotto i piedi. Fu allora, e soprattutto dopo la morte di Berlinguer, che – infrantasi contro un muro l’ipotesi di un cambiamento sul piano del governo e dello Stato, mentre l’insediamento nella società rimaneva forte – una parte del gruppo dirigente, anche locale, ritenne che quelle casematte e trincee potessero essere utilizzate non più per un rivolgimento complessivo ma per un mero alternarsi di forze politiche e gruppi dirigenti. Ne derivò l’idea del superamento del Pci come partito comunista, un’idea che certamente gli eventi internazionali del 1989 incoraggiarono, mentre in realtà proprio quei fatti confermavano che la strategia intrapresa dai comunisti italiani – la costruzione dell’egemonia, la priorità data a consenso e protagonismo delle masse, l’affiancamento del mutamento strutturale in senso socialista allo sviluppo di tutte le libertà civili e politiche – aveva una validità e una fecondità notevole.
Si tratta dunque di una strategia, di una cultura politica, che ancora molto possono dire a dare alla lotta per il socialismo nel XXI secolo; occorre comprenderla fino in fondo, analizzarla anche criticamente, partire da essa per andare avanti.
Note
Alexander Höbel, Dottore di ricerca in Storia, collabora con la Fondazione Gramsci e l’Università di Napoli Federico II. Si occupa in particolare di storia del movimento operaio e comunista. Membro della redazione romana di “Historia Magistra”, è responsabile della Scuola di formazione politica “Gramsci-Togliatti”. È autore dei libri Il Pci di Luigi Longo (1964-1969) (Edizioni scientifiche italiane 2010) e Luigi Longo, una vita partigiana (1900-1945) (Carocci 2013), e curatore dei volumi: Novant’anni dopo Livorno. Il Pci nella storia d’Italia (con M. Albeltaro, Editori Riuniti 2014), Palmiro Togliatti e il comunismo del Novecento (con S. Tinè, Carocci 2016), Togliatti e la democrazia italiana (in uscita presso gli Editori Riuniti). E' direttore di Marxismo Oggi