Ammalati di mal d'Afghanistan

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Se ne andranno gli americani da Kabul? Il bilancio delle vittime italiane: 53 militari morti, 700 tra feriti e mutilati

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L'Italia dal 2001 garantisce alla NATO e alla Repubblica dell'Afghanistan il proprio supporto di fuoco.  Al momento sono presenti a Kabul 800 soldati italiani. Il bilancio delle vittime è finora di 53 militari morti, una cooperante italiana, oltre alla giornalista Maria Grazia Cutuli.  Sono 700 tra feriti e mutilati.

kab88   CopiaGli aquiloni sono tornati a volare, con loro la speranza di un futuro migliore per questo paese.(1)Sbatto la porta e me ne vado dall’Afghanistan per sempre? Ci resto ancora per un po’? Non me ne vado? E’ l’assillo del presidente americano Joe Bilden, sicuramente  è tra i suoi pensieri più pungenti. La prima opzione è di aderire all'accordo dell'ex presidente Donald Trump con i talebani , che contempla il ritiro definitivo dei 2 mila e 500 soldati americani presenti sul territorio. La seconda, di negoziare una permanenza che superi di poco la scadenza concordata del 1° di maggio. L’ultima alternativa è di continuare, come se l’accordo di Trump con i talebani non fosse mai esistito.

L’ex presidente Trump aveva deciso di andarsene senza stare tanto a pensarci su, poiché Il personaggio è nato imprenditore e ha governato l'America con questa mentalità.
La sua ricetta era semplice, realista: sfilarsi dalle guerre che non producono profitti, aprirsi ai commerci senza ammainare la bandiera americana.
Da buon cattolico praticante anche il presidente Biden sarebbe contrario - almeno a parole - all'uso delle bombe, ma da come si sta muovendo pare voglia resuscitare l’immagine di un’America “gendarme del mondo”, sempre disponibile pur di conservare il suo primato.
Da qui l’impiego della forza dei suoi arsenali per contrastare il Terrore e incenerire i cosiddetti Stati canaglia, come avveniva nell’èra Bush. Joe Biden si è però auto investito di un compito in più, la difesa dei diritti umani. Un modello di ambiguità inaugurato sotto la presidenza Obama, che prevede l’alternanza di bombardamenti umanitari e passi diplomatici più o meno distensivi, per affrontare i contenziosi più delicati. Tutto lascia pensare che il presidente Biden ricorrerà a questo modello per l’ Afghanistan nella quale l’America da vent’anni si è impelagata.

Il fatto è che, sui misfatti dell'Occidente gli afghani hanno la memoria lunga, rinvigorita dai racconti che queste genti si tramandano di padre in figlio, persino il ricordo del bombardamento aereo dalla Royal Air Force su Kabul e Jalabad nel 1919 , che provocò centinaia di migliaia di vittime.

Quindi se l’Occidente volesse rimediare, basterebbe un semplice ripasso della storia ricordando – per esempio – che ben tre guerre furono perse con l’Afghanistan, nell’Ottocento e nel Novecento. Che questo paese da secoli è l'orgoglioso e turbolento 'cimitero degli imperi', o meglio degli eserciti imperiali.

L’Inghilterra fu costretta ad abbandonare perché insediò a Kabul dei governi fantocci, perché non tenne in alcuna considerazione le antiche decentrate strutture tribali, poiché credeva che così operando riuscisse a fare dell’Afghanistan uno Stato cuscinetto tra Russia, Persia, India.

Sono errori che si sono ripetuti nei decenni, è impressionante che nessuno se ne sia rammentato, tantomeno i consiglieri militari del presidente Joe Biden.

 

UNA STORIA MOLTO PERSONALE

Mi ricordo di com’era Kabul nel febbraio del 1989, pochi giorni prima della partenza (15 febbraio) della 40a Armata dell’esercito sovietico.

Ritrovai una capitale livida, senza suoni, senza il traffico caotico, lo strombettare delle automobili; la “vita” dell’anno precedente, quando la visitai per la prima volta, s’èra dissolta; lasciando lo spazio alla paura di un capitale sovrastata dagli aerei sovietici Jliuscin, che volavano in alto sganciando (ultima novità di difesa antimissile nell’anno 1989) enormi quantità di carta stagnola che si allungavano, si allineavano, si intersecavano tingendo l'orizzonte dei riflessi dell'argento.

Kabul da parecchie settimane era sotto il fuoco dei mujaheddin, i quali era divisi in più schieramenti, senza una guida unitaria, ma ricchi di armamenti, anche sofisticati forniti e non ufficializzati dagli Stati Uniti, Pakistan, Iran, l'Arabia Saudita, dal Regno Unito e persino dalla Cina.

I mujaheddin che assediavano Kabul avevano consacrato il 15 febbraio 1989, il giorno del definitivo ritiro delle truppe sovietiche, come la data della loro vittoria. Lo ripetevano, ogni giorno e ogni notte con le scariche delle mitragliatrici che si erano portati in spalla camminando a piedi fino a Kabul.
Ma non pensateli come dei selvaggi armati di schioppo , poiché costoro erano addestrati all’uso dello Stinger, del tiro computerizzato, se così non fosse stato non avrebbe avuto motivo il lancio della stagnola da parte degli Jliuscin, patetico tentativo per sfuggire ai missili.
Fu l'unica suggestione in una città trasformata in una caserma. Benché non fosse stato proclamato il coprifuoco, con il calare della sera la gente scappava dalle strade dove di giorno si ritrovava. Di notte vi restavano soltanto i soldati afghani non meno spaventati dei concittadini. Essi vagavano tra un panorama di luci fioche, basse, rade con il terrore dell'attentato, che li condannava a pattugliare stando rasenti ai muri.
L'esercito sovietico aveva circondato la capitale come una morsa, con un dispiegamento di blindati e di postazioni, tuttavia non era riuscito ad impedire l'infiltrazione dei sabotatori con il loro carico di granate e di manifesti.

Non c'era alba in cui non apparissero appiccicati sui muri, manifesti con le fotografie di re Zahir, l'ex re in esilio in Italia, e di Sayed Galani, uno dei leader moderati dell"'Alleanza dei sette" di Peshawar, che assieme a Abdul Haq, leader più conosciuto del Partito islamico dell’ Afghanistan avevano cosparso Kabul di volantini con i quali si prometteva salva la vita ai funzionari statali, agli ufficiali e ai soldati che si fossero schierati dalla loro parte.

soldati urssI loro “inviti” esercitarono una sorta di forte pressione psicologica su una popolazione che da sempre ritrova la sua realtà caratteriale istintiva, in una guerra motivata da una fede, che è soprattutto fede nella guerra, in una visione fatalisticamente ottimista sul sopravvento dell'Islam.

Tant’è che in un dispaccio ai dirigenti del partito a Mosca, il corrispondente della Tass tracciò uno scenario a fosche tinte: «Secondo l'opinione di un facoltoso commerciante», scrisse, «il popolo ormai è sul limitare di un'esplosione, disperato dal proseguire del conflitto. La gente pensa che le proprie condizioni economiche, estremamente gravi, siano un effetto della presenza nel Paese degli "occupanti". Non si esclude neppure la possibilità che a portare all'estremo l'odio della popolazione abbiano contribuito i recenti bombardamenti dell'aviazione sovietica».

E non poteva essere diversamente dal momento che la truppa sovietica, nei dieci anni di occupazione, non spartì con questa città, con questo Paese nulla, essendo vissuta per "ragioni di sicurezza" in un regime di assoluta autarchia, nella psicosi perenne dell'attentato, ricevendo dalla madre patria persino l'insalata, le patate.

Nemmeno la svolta di Mikhaìl Gorbaciov, che pure riconobbe - pubblicamente - gli errori del suoi predecessori e accelerando il ritiro del contingente militare, riuscì a scalfire la coscienza di questo popolo di montanari.

Ricordo che, una mattina ci concessero una visita nel recinto dell'aeroporto, nella zona ovest che ancora era presidiata dai soldati di Mosca.

Sulla piazzola di sosta c'erano sette Jliushin dai quali si stavano scaricando per caricarli sui Tir afghani 24 tonnellate di sacchi di farina.
La truppa lavorava intensamente, poiché la sosta prevista per l'intera operazione era di cinquanta minuti.
Poi gli aeroplani si sarebbero levati in volo scortati da otto elicotteri da combattimento. Uno dei piloti, Sasha, originario di Minsk, in Bielorussia, ci raccontò che la sua giornata prevedeva oltre sei ore di volo di scorta e di pattugliamento in un raggio di 5-7 chilometri dalla pista di decollo; confidò che stava contando le ore che lo separavano dal “ritorno a casa a rivedere i suoi”.
Il colonnello Pavel Vinokurov, comandante della base, ci assicurò che tutto il contingente se ne sarebbe andato entro il 15 febbraio, anche se il ponte aereo dei rifornimenti sarebbe continuato ancora. L'accampamento militare quella mattina era incredibilmente deserto, nulla si muoveva, solo da distante giungeva un sordo rombo di artiglieria. Venne spontaneo allora chiedere a chi sarebbero state affidate nel futuro imminente le operazioni di scorta.
Il colonnello indicò due elicotteri con le insegne dell'aviazione afghana. «Lo faranno loro», rispose. «E voi ne avete fiducia?». «Li abbiamo addestrati noi. Hanno sulle spalle ore e ore di pattugliamento. Sapranno fare un buon lavoro». «Lascerete agli afghani i vostri elicotteri?».
«Una questione che esula dalle mie competenze, ma ho buoni motivi per ritenere che rimarranno qui», concluse il colonnello.

Naturalmente, ogni giorno la fila si ingrossava davanti alle rivendite di pane. Eppure non erano ancora alla fame, i negozi eranono ricolmi di merci, i fruttivendoli esponevano le cassette di arance succose, ma i prezzi erano più che raddoppiati nelle ultime settimane. La benzina sparì dai distributori, e correva voce che persino le auto di Stato e i veicoli militari avessero avuto i rifornimenti razionati.

La testimonianza più diretta e concreta su quanto l'angoscia si fosse radicata, l'ebbi sull'aereo che da Mosca mi riportò a Kabul. «Sappiamo quel che è accaduto, e noi non ci lasceremo squartare come pecore senza difendere noi stessi e le nostre famiglie», ci dissero dopo un po' che avevamo iniziato la conversazione tre giovani universitari incuriositi dalla nostra presenza, perché eravamo Giulietto Chiesa - in quegli anni corrispondente da Mosca dell'Unità - ed io gli unici giornalisti europei su quell'aeromobile. I giornalisti che erano al seguito dei mujaheddin , non erano arrivati da Mosca, bensì dai paesi che foraggiavano la guerriglia. Ecco perché su quell’ aereo Jliuscin c’eravamo soltanto noi due.

Li vedemmo poi sbarcare carichi delle povere cose che la gente si porta sempre appresso quando si scatena un'emergenza: sacchi di riso e bottiglie d'olio; colbacchi e cappotti; scarpe e coperte; e pacchetti di dolci strappati alle penurie sovietiche per allietare il ritorno con i famigliari. Di fianco all'entrata, prima del controllo dei passaporti, c'erano dei soldati afghani nelle loro scalcinate uniformi di panno, con il berrettuccio di feltro calato sugli occhi. Bevevano dalle borracce e parlavano appoggiati a una transenna, dando le spalle a due carri armati che puntavano le bocche da fuoco verso una piana gialla di polvere sovrastata in lontananza dalle montagne innevate.

Nell'androne alcuni vecchi stretti nel pattu, che in inverno serve da mantello e da fazzoletto da naso, volsero per un attimo lo sguardo verso quei giovani e la loro roba. Ricordo che Giulietto ne rimase stupito e me lo disse, con una franchezza che mi sbalordì, perché era pur sempre il corrispondente da Mosca dell’Unità, il quotidiano dei comunisti italiani, in un mondo ancora separato dalla cortina di ferro e intriso di pregiudizi. Imparai presto che la franchezza era una sua dote naturale, cominciai a stimarlo, diventammo amici. Dopo l’implosione dell’Urss mi presentò a Gorbaciov, ma questa è un’altra storia.

L'ingresso a Kabul attraverso l'aeroporto si rivelò una marcia allucinata, tra i cumuli di neve sudicia, le sagome arrugginite dei camion abbandonati, le casematte annerite dal fumo delle esplosioni, e i copertoni raccolti a mucchi e sparsi nel campo come monumenti funebri. «Siamo stati sconfitti in Afghanistan anche per l’ignoranza degli ottusi dirigenti del partito che precedettero Gorbaciov. Essi non concretizzarono le loro promesse, e i pastori afghani delusi ci si sono rivoltati contro. Non vi si poteva rimediare se non ritirandosi», mi disse, due anni più tardi il generale Boris Gromov, il comandane della quarantesima Armata dell’Urss che seppe uscire con dignità dalla trappola afghana.

Ogni volta che scrivo di Afghanistan cito Gromov perchè a distanza di trent'anni la sua analisi rimane valida.

 

UN BAGNO DI SANGUE DESCRITTO COME UNA PARTITA DI CALCIO

E dunque, la guerra degli americani in Afghanistan rischia davvero di durare all’infinito, a poco è servito per rasserenare gli animi l’impegno preso da Trump di ritirare le truppe dal territorio. Molto dipenderà dal comportamento della Russia e della Cina senza dimenticare l’Arabia Saudita che rimane pur sempre il luogo di nascita di al-Qaeda e pur sempre è il Paese che con il Pakistan sostiene i Talebani. Del resto se si vuole una soluzione duratura, è indispensabile tener conto di una serie di realtà regionali.

I Talebani non rappresentano la maggioranza della popolazione in Afghanistan. Essi sono presenti nella zona meridionale tra i Pashtun (quasi il 40 per cento della popolazione). Poi ci sono i Tagiki, gli Hazara, gli Uzbeki, gli Aymak una popolazione di stirpe mongola che parla persiano. Insomma nel più o nel meno si può dire che oltre il 60 per cento della popolazione afghana è anti-talebana.

Tuttavia, per meglio capire occhio puntato sul Pakistan, dove dal 27 febbraio scorso sono in aumento gli attacchi degli islamici integralisti contro tutti coloro che si oppongono alla loro interpretazione del Corano. L’agenzia di stampa statunitense Associated Press (AP), punta il dito sul   Tehreek-e-Taliban Pakis-Pakistan, la principale organizzazione terroristica pakistana legata a filo stretto con i talebani. Il ventisettesimo rapporto dell’Analytical Support and Sanctions Monitoring Team dell’ONU, del 3 febbraio, afferma che i “combattenti” del TTP sono aumentati in maniera esponenziale, in poco tempo sono passati da 2 mila e cinquento a 6 mila combattenti, e con essi gli attacchi nella regione sono aumentati a dismisura, più di un centinaio di attacchi tra luglio e ottobre del 2020.

Un ottimo spunto per il generale Joseph F. Dunford, ex presidente del Joint Chiefs of Staff degli USA, secondo il quale, un ritiro frettoloso delle truppe statunitensi dall’Afghanistan, come previsto dall’accordo USA-Talebani del 29 febbraio 2020, sottoscritto da Trump va ripensato. Perchè, «Riteniamo che la minaccia terroristica planetaria possa ricostituirsi in un periodo compreso tra i 18 e i 36 mesi e potrebbe rappresentare un pericolo molto serio per la nostra patria e per i nostri alleati», ha concluso il generale Duford precisando che, senza i finanziamenti e il supporto operativo statunitense le forze armate afghane avrebbero avuto vita breve.

Povero Joe Biden tormentato dall’assilo, perché come ha scritto qualche giorno fa il Washington Post , più si avvicina la scadenza del ritiro delle truppe dall’Afghanistan più i generali insistono per un intervento militare risolutivo in Pakistan. Sicché ancora una volta può accadere di tutto, avanzare delle previsioni sarebbe azzardato.

kaUn bersagliere del contingente italiano Nato di stanza a Kabul

Tuttavia, il media mainstream persevera nell’ offrirne un’immagine stemperata e distorta della realtà afghana e dei paesi ad essa confinanti nel tentativo non ultimo di far implodere il tempo in un presente perenne, il quale possiede la pericolosa capacità di attenuare la memoria del passato - anche recente - fatto di stragi e di svuotare la speranza di significati. E’ una “politica” che mira all’esaltazione continua del mondo dell’istante e dell’immediato che è allo stesso tempo il mondo del consumo, il quale per principio e per sopravvivenza rifugge dal passato investe sul futuro, accada quel che accada. Stando così le cose, ogni giorno sembra di vivere nella commedia dell’assurdo, come lo è l’impiego del drone, al quale Trump ricorreva assai più sistematicamente di Obama e di Bush. Adesso c’è Joe Biden  ne segue l’esempio. Infatti i velivoli americani senza pilota che hanno volato in Libia continuano a volare su paesi come la Siria, l’Iran, e naturalmente anche sull’Afghanistan. Prima il sopralluogo con i droni e poi le bombe, una formula azzeccata. E’ giusto, è sbagliato? Il media mainstream non vi ci sofferma, non stimola le risposte, non indaga nel profondo come usa con i vaccini contro il Coronavirus.

Pertanto, negli Stati Uniti e in Europa coinvolta nella guerra afghana in versione Nato, solitamente l’identità dei musulmani viene ignorata se essi sono vittime di attacchi, ma diventa di vitale importanza politica se ne sono gli autori. Sicché in Afghanistan, dove sia le vittime sia gli aggressori sono musulmani, la crisi tra le loro diverse identità religiose è di scarso interesse in Occidente. Il bagno di sangue di costoro è descritto in modo ‘anemico’, come qualcosa di più simile ad una partita di calcio che a un atto terroristico.

Kabul non è più la capitale dei miei primi viaggi. Naturalmente è sopravvissuta l’usanza di soffiarsi il naso con il pattu, ma in mezzo ci sono i dieci anni nei quali i Talebani, trasformatisi da strumenti degli Stati Uniti in funzione antisovietica in mortali nemici, si sono resi colpevoli di efferatezze tali da far rabbrividire il mondo intero. L’Afghanistan con il loro governo, si trasformò in un macello e divenne il ricettacolo delle più pericolose organizzazioni terroristiche anti occidentali. Poi ci fu l’invasione americana del 2001, Il resto è cronaca dei nostri giorni, un paese invaso dalle truppe della NATO, retto da un governo fantoccio, in tutta sintonia con quelli precedenti.

Fawzia Koofi 32Fawzia KoofiA Kabul vive Fawzia Koofi - aveva 12 anni nel 1989 – con la sua storia esemplare che ha raccontato in un libro Lettere alle mie figlie, tradotto nelle principali lingue, tra le quali l’italiano.
Ma nel nostro paese, ignorato dai critici è rimasto pressoché sconosciuto ai lettori. Siccome è uno strumento prezioso per meglio comprendere una realtà sociale di un paese - d’importanza strategica e culturale - dilaniato dalle guerre, è utile leggere il libro di Fawzia Koofi che così si annuncia: «Da noi, le figlie non sono le benvenute. Io, diciannovesima di ventitré fratelli, fui abbandonata da mia madre sotto il sole cocente dell'Afghanistan affinché morissi. Malgrado le numerose bruciature sono sopravvissuta, diventando la sua figlia preferita. Questa è stata la mia prima vittoria. Mio padre, per venticinque anni membro del Parlamento, era un uomo incorruttibile, molto legato alle tradizioni del nostro Paese. Venne ucciso dai mujaheddin. Fu allora che mia madre, analfabeta, decise di mandarmi a scuola: sono stata la prima femmina, in famiglia, a ricevere un'istruzione. Mentre infuriava la guerra civile, sono diventata insegnante di inglese, poi ho studiato medicina. Ho sposato l'uomo che amavo e gli ho dato due meravigliose bambine. Ma l'arrivo dei talebani ha suonato l'ultimo rintocco per la libertà. Mio marito, dopo aver subito lunghe torture in carcere, è morto di tubercolosi e io, imprigionata dal burqa, ho sentito la rabbia crescere in me. Da quel giorno la mia voce si è levata per difendere coloro che soffrono.».

Fawzia Koofi , a capo del Movimento per l’emancipazione delle donne, un master alla Geneva School of Diplomacy and International Relations è la prima donna ad essere deputato alla Camera bassa del parlamento afghano.

Un DOSSIER per saperne di più: Dove ci porterà Nonno Joe - I primi 100 giorni del presidente Joe Biden


(1) Il gioco dell’aquilone è un’usanza molto antica in Afghanistan; vietato nell’oscurantista periodo talebano era diventato il simbolo dei diritti negati. Ora, il venerdì, giorno di festività religiosa musulmana, il cielo di Kabul si riempie di colori. Gli aquiloni sono tornati a volare, con loro la speranza di un futuro migliore per questo paese.  Fawzia Koofi

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Vincenzo Maddaloni
Vincenzo Maddaloni ha fondato e presiede il Centro Studi Berlin89, l'associazione nata nel 2018, che si propone di ripercorrere analizzandoli i grandi fatti del mondo prima e dopo la caduta del Muro di Berlino. Professionista dal 1961 (per un decennio e passa il più giovane giornalista italiano), come inviato speciale è stato testimone in molti luoghi che hanno fatto la storia del XX secolo. E’ stato corrispondente a Varsavia negli anni di Lech Wałęsa (leader di Solidarność) ed a Mosca durante l'èra di Michail Gorbačëv. Ha diretto il settimanale Il Borghese allontanandolo radicalmente dalle storiche posizioni di destra. Infatti, poco dopo è stato rimosso dalla direzione dello storico settimanale fondato da Leo Longanesi. È stato con Giulietto Chiesa tra i membri fondatori del World Political Forum presieduto da Michail Gorbačëv. È il direttore responsabile di Berlin89, rivista del Centro Studi Berlin89.
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